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IL CLAN AL-ASAD ALLA PROVA DELLA PIAZZA

Pubblicato in: LA GUERRA DI LIBIA - n°2 - 2011

In Siria infuria la protesta, repressa nel sangue da un regime irriformabile.
 In quarant’anni
āfiz e il figlio Baššār hanno consolidato un sistema di potere in cui l’elemento alauita è centrale.
Ora la piramide è scossa alla base. Con esiti imprevedibili.

di Lorenzo Trombetta

1. COME UN BICCHIERE DI VETRO, IL REGIME siriano forgiato a partire dal novembre 1970 dal defunto ra’īs āfiz al-Asad, padre dell’attuale presidente Baššār, non può essere deformato – riformato – a meno che non lo si voglia rompere. L’annuncio di riforme fatto dal «giovane» capo di Stato, al potere da quasi undici anni e ora alle prese con un dissenso senza precedenti, non porterà aperture semplicemente perché queste significherebbero, di fatto, il suicidio politico del presidente e dei vertici dell’apparato statale.

Se alle decine di migliaia di siriani, per lo più giovani, che dalla metà di marzo hanno sfidato per la prima volta nella loro vita il regime baatista al potere da 48 anni, si uniranno altre centinaia di migliaia di loro connazionali, Damasco non avrà altra scelta che continuare a reprimere nel sangue la rivolta. A differenza del caso libico, nessuna potenza regionale o internazionale andrà però in soccorso dei rivoltosi, perché la sicurezza e la stabilità della Siria sono una garanzia per tutti gli attori dell’area, in primis Israele, Arabia Saudita (alleati degli Stati Uniti) e Iran (che con Damasco ha stretto trent’anni fa un solido patto strategico-militare). Nonché per la Turchia, che non vedrebbe con favore una nuova rivoluzione.

Ma oltre il bagno di sangue non c’è la salvezza per al-Asad e soci. Se finora i curdi del Nord e del Nord-Est e i drusi del Sud sono rimasti a guardare, in attesa di capire quale direzione prenderà la crisi, le tribù sunnite dell’Eufrate, imparentate con quelle della turbolenta provincia irachena di al-Anbār e i clan sunniti dell’awrān, al confine con la Giordania (anch’essa in fermento), non sono affatto domate e si dicono pronte a tutto pur di non farsi schiacciare. Il vicino Libano, per ora immobile, guarda con apprensione alle vicende siriane, conscio che ogni scossa a Damasco si rifletterà immediatamente sui suoi delicati equilibri politicoconfessionali. La legge d’emergenza in vigore dal 1963 – un record nel mondo arabo – era stata redatta l’anno prima all’ombra della minaccia israeliana. I due paesi sono in guerra dalla nascita e lo stato di belligeranza continua, di fatto, ancora oggi. La legge d’emergenza assicura al regime il ferreo controllo di ogni forma di dissenso e libera espressione politica: assicura il divieto di assembramenti pubblici, permette il fermo di sospetti dissidenti, stabilisce le accuse con cui il loro fermo viene convalidato in arresto, definisce il ruolo dei tribunali speciali che li condanneranno alle pene detentive, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione e lascia ampio margine di manovra alle quattro capillari «agenzie di sicurezza» operative da decenni in ogni angolo del paese. Senza questa pervasiva rete di controllo e repressione, la «Siria degli al-Asad» (Sūryā al-Asad) crollerebbe come un castello di sabbia.

Per la prima volta dopo cinquant’anni, il 29 marzo 2011 un governo siriano è stato costretto alle dimissioni da pressioni popolari. Nonostante la caduta dell’esecutivo guidato da Muammad al-‘Urī, zio da parte materna della first lady Asmā’ al-Asad, gli equilibri interni al regime di Damasco non sono mutati affatto.

La Siria di āfiz al-Asad (1970-2000) era stata caratterizzata dalla convivenza tra un potere formale e un altro reale; dall’assoluta predominanza del ra’īs sugli altri centri del processo decisionale; da un pervasivo ruolo degli organi di controllo, vere colonne del sistema; da una supremazia delle personalità alauite ai vertici del regime e alleate degli al-Asad, accanto a una base ampiamente dominata da rappresentanti sunniti originari delle zone rurali.


2. «Le personalità più influenti della Siria siedono ai vertici dei servizi di sicurezza, politici e militari, e della Guardia repubblicana: i cambiamenti e le sostituzioni a questi livelli sono rivelatori dei giochi di potere e delle mutazioni nei centri di controllo di Damasco molto più di centinaia di pagine di dichiarazioni e di rapporti del Ba‘»1.

Con queste parole lo studioso Bassām addād descriveva nel 2005 il regime siriano, accennando implicitamente alla sovrapposizione di due piani del potere.

Nel 1993, sette anni prima della scomparsa di āfiz al-Asad, lo storico siriano Mamūd ādiq scriveva che il sistema fondato da āfiz al-Asad appariva strutturato su due livelli differenti: uno «apparente» (al-sula al-zāhira) e uno «celato » (al-sula al-afiyya) 2.

Il primo è composto da governo, parlamento, Corte di Giustizia e amministrazioni locali: organi di formale emanazione della volontà popolare, ma di fatto controllati dal ra’īs e senza alcun reale potere. Il secondo è rappresentato dalle agenzie d’intelligence, dai corpi speciali dell’esercito e dai vertici del Ba‘: veri e propri luoghi di decisione, strumenti di controllo e repressione dominati dal presidente.

Sin dal suo avvento ai vertici del sistema politico, āfiz al-Asad lavorò inoltre all’edificazione di un potere personale. Il suo obiettivo fu quello di diventare il capo incontrastato della «Siria moderna», il vertice del nuovo Stato. La Siria di al-Asad (e non più solo la Siria del Ba‘), prima di essere comandata da un regime militare o da un sistema clanico o tribale, divenne un paese dominato da un unico individuo3.

In qualità di presidente della Repubblica, al-Asad era comandante supremo dell’Esercito e delle Forze armate, segretario generale del Comando regionale e nazionale del partito Ba‘, nonché del Fronte nazional-progressista, la piattaforma di partiti satelliti del Ba‘.

Tale supremazia era formalizzata anche in un quadro istituzionale legittimo: al-Asad controllava il potere esecutivo (nominava premier e ministri), quello giudiziario e quello legislativo, attraverso la supremazia del Ba‘ nel parlamento e nell’Alta Corte di Giustizia. Il capo era tale anche a livello locale: nominava i governatori delle province, i segretari regionali del partito, i responsabili dell’Esercito, degli organi di sicurezza, delle corporazioni dei mestieri e delle organizzazioni popolari. Di questa struttura, il ra’īs āfiz al-Asad era l’unico vertice, al di sotto del quale operavano i capi dei servizi di sicurezza e delle forze speciali, «gli occhi e le orecchie di al-Asad»4.

A un livello più basso vi erano i membri del Comando regionale del Ba‘5, un corpo consultivo con scarse funzioni decisionali, nel quale però figuravano personaggi considerati potenti e influenti all’interno del regime. La loro principale funzione era quella di controllare più da vicino l’operato del quarto livello: ministri, alti funzionari, governatori di province, capi delle organizzazioni popolari 6.

La struttura del regime creato da āfiz al-Asad era fondata su tre istituzioni fondamentali: gli organi di controllo, l’Esercito, l’apparato del partito7.

La struttura istituzionale formale ne celava un’altra nella quale erano situati gli organi di controllo. Le personalità a capo degli uffici più sensibili dei servizi di sicurezza, dell’Esercito e del Ba‘ costituirono il vero nucleo di potere attorno ad al-Asad padre. Questi controllava in totale non più di una dozzina di ufficiali dell’intelligence, delle Forze armate e della burocrazia del partito, subordinati al presidente ma a lui «legati per sangue o per vincoli economici».

La struttura di questo gruppo, nonostante i mutamenti, rimase estremamente stabile e coesa, tanto che alcuni attribuiscono proprio alla solidità degli apparati di controllo la forza politica espressa per decenni dal regime di āfiz al-Asad, sia all’interno sia all’esterno del paese. A differenza del passato, il «padre della Siria» riuscì a costituire un blocco di ufficiali omogenei, lontano dalle tentazioni separatiste degli anni precedenti. Determinanti per assicurare tale coesione erano e restano i legami di parentela e lealtà e l’intreccio di interessi politici ed economici tra le personalità che compongono questo nucleo di potere.


3. Baššār al-Asad comincia la sua ascesa politica nel 1994, in occasione dell’improvvisa morte del fratello maggiore Bāsil e del conseguente avvio della fase di transizione avviata dal padre malato āfiz. Nominato sei anni più tardi presidente della Repubblica di Siria con un referendum confermativo dopo aver ricevuto l’investitura formale dai vertici del Ba‘, Baššār al-Asad ha mostrato in questo decennio di saper guidare il paese con mano ferma, mantenendo la tradizionale stretta del regime contro ogni forma di dissenso interno. In un quadro generale di continuità, la struttura del potere siriano presenta oggi delle novità significative rispetto al passato.

Rimane pressoché intatta la sovrapposizione tra potere formale e reale, ma quest’ultimo non è più dominato da un solo capo indiscusso, bensì da un’oligarchia formata da membri della famiglia al-Asad, da alcuni loro parenti e alleati e da un pugno di ufficiali dell’apparato di controllo. A differenza di āfiz al-Asad, Baššār non è l’autorità indiscussa, ma un primus inter pares. I membri di questa potente oligarchia politico-affaristica, di cui fa parte anche Rāmī Malūf, imprenditore miliardario e cugino del presidente, hanno di fatto l’ultima parola su ogni decisione cruciale di politica interna ed estera.

Per la gestione degli affari più sensibili, il ra’īs non si serve più di rappresentanti sunniti originari delle regioni rurali, ma si affida esclusivamente ai suoi parenti o a membri dei clan alauiti alleati. I servizi di sicurezza diventano dunque sempre più organi familiari. I membri sunniti dell’establishment siriano gravitano tutti nella sfera del potere formale, non di quello reale. Sono attori che recitano un copione scritto da altri autori, dietro le quinte.

Il Ba‘ ha perso gradualmente il suo ruolo di perno tra potere reale e formale; i suoi vertici servono ormai solo a dare legittimità e continuità al potere occulto. Il partito rimane decisivo solo a livello locale, assicurando tramite le sue sezioni un capillare controllo del territorio e una forte capacità di mobilitazione, per lo più coatta.

Altra vittima illustre di questo silenzioso processo di familizzazione del sistema siriano è l’esercito regolare: esclusi da piani di ammodernamento e rilancio seguiti al crollo dell’Urss, col ritiro completo dal Libano (nella primavera del 2005) i reparti tradizionali delle Forze armate, un tempo tra i più validi nella re­gione, sono ormai un mero strumento del potere formale. Le Forze speciali e la Guardia repubblicana, entrambe affidate a uomini degli al-Asad, escono invece rafforzate e si confermano come vero scudo militare del regime.


4. Lo scorso 17 marzo ‘Āif Nağīb, uno dei numerosi cugini di Baššār al-Asad e capo della sicurezza politica (Amn siyāsī) di Dar‘a – città a 120 km a sud di Damasco ed epicentro della violenta repressione contro le proteste anti-regime scoppiate il 18 marzo – ha respinto in malo modo i tentativi di mediazione dei capi clan locali per la scarcerazione di quindici bambini, di età compresa tra gli otto e i dieci anni e appartenenti a un’unica influente tribù della provincia, gli abāzīd. I ragazzini erano stati arrestati alla fine di febbraio perché sorpresi a scrivere sui muri della scuola cittadina l’ormai noto slogan: «Il popolo vuole la caduta del regime!» (aš-ša‘b yurīd isqā al-nizām). Questa offesa è stata la scintilla dell’incendio non ancora domato.

In due settimane di mobilitazione, è a Dar‘a che si sono avute le proteste più massicce, inizialmente estese anche alla lontana Dayr al-Zawr, capoluogo della regione orientale dell’Eufrate. Dar‘a e Dayr al-Zawr sono realtà rurali dominate da clan tribali, che da secoli rappresentano di fatto l’autorità locale. La mobilitazione è riuscita dove si sono imposte le tribù, in grado di mobilitare in poco tempo tutti i loro membri e di proteggerli in parte dalla repressione del regime. Questo ha optato fin da subito per la linea dura, inviando in massa forze di sicurezza (si parla della presenza della Guardia repubblicana di Māhir al-Asad) e reparti dell’Esercito, che hanno cinto d’assedio Dar‘a e i villaggi limitrofi.

Dar‘a e tutto l’awrān, il granaio della Siria, assistono da anni a un crescente malcontento popolare causato dall’assenza dello Stato, che non avrebbe sostenuto la regione afflitta da sei anni di siccità e da una massiccia immigrazione proveniente dalle province orientali dell’Eufrate, i cui raccolti sono i più colpiti dall’assenza di precipitazioni. A ciò si aggiungono tensioni più recenti, in primis la controversia tra Syriatel (compagnia di telefonia mobile di proprietà di Rāmī Malūf, cugino del presidente) e la cittadinanza di Dar‘a, che rifiuta l’installazione di alcuni ripetitori. I residenti denunciano inoltre numerosi episodi di corruzione, tanto che il sindaco, membro di uno dei clan locali, si sarebbe schierato con gli abitanti contro il governatore, Fayal Kulūm , rappresentante di Damasco e primo bersaglio delle proteste di piazza.

Qualche giorno prima dello scoppio della rivolta nell’awrān, nella confinante regione di Suwaydā’, a maggioranza drusa, si era recato a parlare con i leader dei clan locali il presidente al-Asad in persona, accompagnato da sua moglie Asmā’. L’obiettivo della visita era quello di assicurarsi che le tribù del basaltico altipiano druso (Ğabal al-Durūz) rimanessero fedeli al regime e che non si unissero ai turbolenti clan di Dar‘a. Che già davano preoccupanti segni di irrequietezza.

Ma i drusi del Sud (poco più dell’1% dei 22 milioni di siriani) potrebbero in futuro scendere in strada se il loro status di protetti dovesse essere minacciato. Idem per i curdi (poco meno del 10%), in attesa di capire se gli eventi possono facilitare o meno il raggiungimento dell’agognata «autonomia culturale e politica». Diverso il caso dei cristiani (circa il 10%), che da decenni si sentono protetti dal regime degli al-Asad e che oggi si considerano le prime vittime di un’eventuale guerra intestina a sfondo confessionale.

Quanto agli alauiti (il 12% circa della popolazione), minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle pianure costiere a sud della città portuale, sono spesso associati alla famiglia al-Asad e ai clan ad essa alleati, come se la Siria fosse «dominata dagli alauiti». Da quanto si sa dell’attuale struttura del regime, l’unico vero fattore che assicuri l’accesso al circolo più ristretto di potere (vertici della Guardia repubblicana, delle Forze speciali, delle Brigate di difesa, della Sicurezza presidenziale, dei Servizi d’informazione militari, di quelli dell’Aeronautica, della Sicurezza politica e della Sicurezza dello Stato8) è l’appartenenza alla famiglia al-Asad o a uno dei pochi clan alleati.


5. Dopo una prima fase d’ascesa della comunità alauita (montagnarda e tradizionalmente malvista dai siriani di città, per lo più sunniti), a partire dai primi anni Cinquanta se n’è registrata una seconda e altrettanto significativa, in corrispondenza con l’arrivo al potere di āfiz al-Asad. Il «fattore alauita» giocò un ruolo determinante nel mantenimento del potere da parte del presidente: al-Asad incoraggiò la creazione di forze speciali e paramilitari quasi esclusivamente alauite e affidate al comando dei suoi stretti alleati e familiari.

Ciò avvenne nell’esercito regolare, dove reclutamento e promozioni favorirono in larga parte i membri della comunità a scapito non solo dei sunniti, ma anche delle altre minoranze etniche e confessionali. Anche le unità militari dell’Esercito considerate più vitali, perché deputate al controllo della capitale e strumento dei precedenti colpi di Stato vennero affidate a personalità alauite9.

Così nel partito, al governo e nelle amministrazioni locali: di congresso in congresso, i seggi del comando regionale del Ba‘ furono occupati per la metà da alauiti. Agli inizi degli anni Ottanta, un terzo delle province era affidata a governatori provenienti da clan alauiti, mentre a capo di tutti i dicasteri chiave vennero nominati ministri alauiti. Anche l’economia e la finanza del paese passarono gradualmente sotto la gestione di personalità appartenenti a questa minoranza10.

Nonostante una netta supremazia alauita ai vertici del regime, la composizione di questo non seguiva esclusivamente una logica confessionale. Gli studiosi concordano nel sottolineare l’importanza di altre comunità in seno al sistema e di una base ampiamente dominata da rappresentanti sunniti. Il loro ruolo fu per decenni quello di assicurarsi il sostegno della borghesia urbana e delle periferie, per evitare che questi ambienti potessero tornare ad appoggiare il fronte sunnita più estremista, come avvenne durante le insurrezioni del 1979-8211.

Al riguardo, Hannā Baāu ha misurato il ruolo dei sunniti presenti nel secondo livello di potere, immediatamente al di sotto del ra’īs : si tratta di una decina di persone, alcuni dei quali rimasti per anni fedeli ad al-Asad, come Muṣṯafā lās, ikmat al-Šihābī, Nāğī Ğamīl, Subī addād, ‘Alī Maalafğī, Fārūq al-Šara‘. Sono uomini legati al presidente da un rapporto personale e professionale (molti hanno frequentato l’accademia militare negli stessi anni) di lunga data, spesso antecedente alla presa del potere nel novembre 1970. Le prossime settimane ci diranno se questo collaudato sistema è in grado di reggere all’onda d’urto delle rivolte nordafricane.

1. B. HADDAD , «Syria’s Curious Dilemma», Middle East Report , n. 236, Autunno 2005, www.merip.org/mer/mer236/haddad.html

2. Questi termini sono stati introdotti per la prima volta da M. ĀDIQ, iwār awla Sūriyā, Beirut 1993, pp. 71-77.

3. E. ZISSER , Nel nome del padre: Bashar al-Asad e i primi anni di governo , Il Cairo, 2004, p. 52.; R. HINNEBUSH , Authoritarian Power in Ba’thist Syria: Army, Party and Peasant , Boulder 1990, Westview, pp. 145-146.

4. P. SEALE , Asad: The Struggle for the Middle East, London 1988-90, I.B. Tauris, p. 216; H. B ATATU , Syria’s Peasantry, the Descendants of Its Lesser Rural Notables, and Their Politics , Princeton 1999, Princeton University Press, pp. 217-231.

5. Il Comando regionale ( Qiyāda quriyya ) è l’organo supremo del partito. Il termine «regione» ( qu r ) resta ancora a indicare la divisione, ormai superata, tra il Ba‘ siriano e quello – disciolto – iracheno. L’ideologia baatista panaraba mira all’unificazione delle varie regioni/ aq ā r (gli Stati nazionali creati dal colonialismo straniero) in un’unica patria/ wa an . Per decenni i due organi «regionali» siriano e iracheno sono stati nominalmente gestiti da un Comando nazionale ( Qiyāda waaniyya ), i cui poteri effettivi sono andati scemando.

6. A. HIROYUKI, «History Does Not Repeat Itself (Or Does It?!): The Political Changes in Syria after Hafiz al-Asad’s Death», Middle East Studies Series , n. 50, febbraio 2001, pp. 13-20.

7. R. HINNEBUSH, op. cit., p. 156; H. BATATU, op. cit., p. 206; V. PERTHES, The political economy of Syria under Asad , London 1997, I.B. Tauris, pp. 180 ss. Syria under Bashar al-Asad: Modernisation and the Limits of Change , International Institute for Strategic Studies, Oxford 2004, Oxford University Press, p. 11; A. HIROYUKI, art. cit., p. 30.

8. Storicamente, il «fattore alauita» ha svolto un ruolo determinante nel mantenimento del potere da parte di āfi‰ al-Asad, ma nel corso degli ultimi quarant’anni gli equilibri interconfessionali e i rapporti di potere tra la minoranza sciita e le altre comunità sono più volte mutati. Il quadro sociale e politico odierno è assai più complesso di quello che si tende a descrivere affermando che la «Siria è dominata dagli alauiti». Cfr. A. CHOUET , «L’Espace tribale des alaouites à l’épreuve du pouvoir: la desintegration par la politique», Maghreb-Machrek , n. 147, 1995, p. 109; H. B ATATU , op. cit. , p. 99; F. BALANCHES, La région alaouite et le pouvoir syrien, Paris 2006, Karthala.

9. A. CHOUET, art. cit., p. 109.

10. Negli anni successivi all’indipendenza, il potere economico era stato in mano a 4-5 mila famiglie della borghesia sunnita e cristiana, che da decenni si spartivano i mercati (P. SEALE, op. cit., pp. 364 ss.). Il nuovo regime baatista, dominato sempre più dall’ala militare proveniente dagli ambienti rurali e dalle montagne della regione alauita, avviò una politica di trasferimento sotto la tutela statale di una parte importante delle imprese industriali, delle banche e delle società di credito e assicurazioni. Questa tendenza si era già accentuata sotto il governo Šalā Ğadīd (1966-69), mentre cresceva il risentimento comunitario da parte degli alauiti, fino ad allora esclusi dalla gestione della ricchezza. La borghesia urbana risultò indebolita da queste misure e non vide altra scelta che cedere i suoi affari o cercare alleati e protettori influenti tra i nuovi ricchi (A. CHOUET , op. cit. , p. 99). Dal 1973 al 1993 i dirigenti alauiti riuscirono a operare il trasferimento della ricchezza nazionale, in molti casi passando poi la gestione delle varie aziende e società ai loro figli e assicurandosi così il mantenimento del monopolio (A. CHOUET, art. cit., pp. 101 ss.).

11. R. HINNEBUSH, op. cit., p. 161.