Al Baghdadi
si autonomina califfo e va alla
caccia di nuovi proseliti. Prosegue intanto la battaglia per il controllo di Tikrit.
Arrivano i primi jet russi. L’Iran promette “le stesse misure prese
in Siria”, l’Arabia Saudita sta alla
finestra.
di Chiara Cruciati
Roma, 30 giugno
2014, Nena News – E califfato sia. Ieri, primo giorno di Ramadan, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha compiuto il passo che
mancava: il leader della milizia estremista
sunnita, il temibile Abu Bakr al-Baghdadi, ha
dichiarato la nascita del califfato
da Aleppo a Diyala, dalla Siria all’Iraq.
Cancellate le frontiere, nell’immaginario del gruppo,
un unico Stato islamico fondato sulla Sha’ria sotto cui far cadere le province irachene e siriane in mano ai miliziani dell’Isil.
Il messaggio, pubblicato su diversi forum islamisti in rete, è stato tradotto in numerose lingue e minaccia le comunità sciite mediorientali, considerate
eretiche e complici dei poteri occidentali.
Un annuncio che va letto
per quello che è:
propaganda. Ma che invia un
messaggio chiaro: l’Isil non intende retrocedere ed è alla caccia di nuovi
membri e adepti da lanciare nel
fronte aperto in Siria e Iraq.
Cresce il
peso della figura di al-Baghdadi, ex qaedista ribelle che ha lasciato la rete di Zawahiri per crearsi un gruppo tutto suo. Nel
video, si fa chiamare Califfo Ibrahim, il leader a
capo del nuovo califfato, una sorta di
impero musulmano il cui ordinamento riprende quello dei governi ottomani
in Turchia dal XV al XX secolo. La vera preoccupazione è che tribù o comunità sunnite irachene e siriane possano decidere di allearsi
con l’Isil ed entrare a far
parte del
“califfato”, nel tentativo di sganciarsi
da regimi sciiti considerati discriminatori.
Nella capitale irachena la reazione alla dichiarazione
di al-Baghdadi si traduceva nella spinta verso la formazione di un governo prima dell’incontro di domani del
parlamento eletto ad aprile. I parlamentari, domani, saranno chiamati a eleggere il loro presidente
a cui spetterà il compito di indicare
il capo del
governo. Le fazioni
sciite, sunnite e curde si organizzano
nel tentativo di individuare una possibile formazione
governativa che eviti l’avanzata islamista e la spaccatura definitiva del
paese. Di certo, non saranno ore facili per l’attuale premier, Nouri al-Maliki, da due settimane sulla graticola interna e internazionale per la testarda intenzione di non lasciare la poltrona occupata da otto anni.
Sul campo la battaglia prosegue violenta: terreno
di scontro è ancora Tikrit, città natale di
Saddam Hussein, vuoi per i simboli che rappresenta,
vuoi per la presenza ancora radicata di milizie fedeli
all’ex rais e per la
sua posizione strategica. Nella provincia di Salah-a-Din,
caduta nella prima settimana di offensiva
nelle mani islamiste, Tikrit è metà strada tra
Mosul e Baghdad, a pochi chilometri dalla raffineria di Baiji.
Venerdì Baghdad ha avviato un’ampia operazione militare per riconquistare la città, con le truppe via terra e i bombardamenti dall’alto. Epicentro degli scontri resta
l’università, che l’Isil intende trasformare nel suo quartier generale.
Discordanti le versioni fornite: secondo
i generali dell’esercito iracheno, Tikrit e la sua università sono sotto il controllo di
Baghdad, ma le testimonianze che
giungono dal posto parlano della
presenza ancora forte dei miliziani islamisti
e di bandiere nere che sventolano
sui principali palazzi governativi.
E mentre nella roccaforte baathista si combattono
i nuovi alleati
dei sunniti iracheni e lo Stato, droni armati statunitensi
sorvolano la capitale per proteggere i 300 consiglieri militari inviati a coordinare le operazioni anti-terrorismo. Per ora la Casa Bianca, però, non intende usare i
droni per bombardare i jihadisti, decisione
che a Baghdad
non piace: da due settimane il premier Maliki chiede agli
Stati uniti un’azione forte, ricevendo come risposta la carta diplomatica. E così Baghdad si guarda intorno:
ha accolto con favore le
bombe siriane contro le postazioni jihadiste nella provincia sunnita di Anbar,
ha aperto le porte ai pasdaran e ai consiglieri militari iraniani e i cieli ai
droni di Teheran, ha firmato un accordo per l’acquisto di jet russi e ora si
rivolge al Palazzo di Vetro. Ieri
sono arrivati in territorio iracheno i primi sette
jet Sukhoi russi (ne seguiranno altri
cinque) che, secondo la tv nazionale,
saranno utilizzati nei prossimi giorni
“per bombardare le postazioni
dei terroristi”.
Ormai gli attori impegnati
nel devastato palcoscenico iracheno sono tanti, e sono
potenti. Oggi il vice capo dell’esercito
iraniano, Massoud Jazayeri, ha fatto sapere che Teheran intende prendere tutte le misure necessarie a fermare l’avanzata jihadista, “le stesse utilizzate in Siria”. Ovvero, armi e consiglieri militari: un approccio già messo in pratica
da giorni, con tonnellate di equipaggiamento
militari arrivati a Baghdad e droni di ricognizione
in volo sopra tutto il territorio.
Si muove anche Riyadh
che ha promesso a Washington di impiegare la sua influenza sui leader sunniti iracheni perché partecipino alla formazione di un governo di
unità nazionale. Un piccolo
cambio di rotta dell’Arabia saudita che nei
giorni scorsi aveva posto come condizione l’allontanamento di Maliki. Ma ora re Abdallah al-Saud sa di
non poter rischiare: l’avanzata dell’Isil – finanziata, prima in Siria e poi
in Iraq, proprio dai paesi del Golfo – può rappresentare un terremoto per gli equilibri di potere
regionali, con l’asse sciita Siria-Iran-Hezbollah intenzionata ad approfittare della situazione per rafforzare i propri
interessi strategici e con gli Usa che
– per la prima volta dopo decenni – condividono con Teheran
e Damasco la preoccupazione
per l’avanzata dei radicali sunniti. Nena News