Oltre le frontiere. La
resistenza delle comunità federaliste e libertarie tra Siria e Iraq
September 03, 2014
La notizia della
decapitazione di un giornalista statunitense, il trentunenne Steven Sotloff
occupa le prime pagine dei giornali, sia pure con enfasi minore rispetto alla
decapitazione del collega James Foley, che metteva in scena per la prima volta,
uno spettacolo comunicativo il cui obiettivo è ben al di là della minaccia agli
Stati Uniti, per investire direttamente una più vasta platea internazionale, la
stessa da cui provengono i miliziani dell’IS.
La coreografia
(la tunica arancio che richiama le tute dei prigionieri di Guantanamo), la
demolizione del mito del “nero” Obama e le sue promesse mancate, le minacce
all’islam sciita, sono messaggi semplici ma potenti, capaci di dare forza
all’immaginario dell’islam radicale.
Sui media main
stream ci sono diversi attori: i feroci seguaci del califfo Al Baghdadi, i
“curdi”, “l’imbelle” governo iracheno. Più sullo sfondo il regime dell’alawita
Bashar el Hassad, contro il quale gli Stati Uniti hanno armato le formazioni
islamiste che concorrono alla conquista del paese, il maggior sponsor di
Hassad,
Il termine
“curdi” nasconde più di quanto non riveli. I curdi di cui narrano i media
nostrani – diversa è l’informazione negli stessi Stati Uniti – sono quelli
della zona dell’Iraq sotto il controllo del PDK di Mas’ud Barzani, alleati con
gli Stati Uniti, e “naturali” destinatari delle armi promesse anche dal governo
italiano.
Mai entrate
nella scena mediatica le formazioni guerrigliere del Rojava (Siria nord
orientale) protagoniste della controffensiva che ha liberato numerose zone
occupate dell’IS, che, curiosamente, ha interrotto la propria marcia su Baghdad
per attaccare le zone curde controllate dalle formazioni libertarie, federaliste
e femministe del Rojava e di alcune zone dello stesso Iraq.
Non per caso nel
mirino dell’IS è entrato il campo profughi di Makhmur, che da vent’anni ospita
curdi sfuggiti alle persecuzioni contro il PKK in Turchia.
Per capirne di
più ne abbiamo parlato con Daniele Pepino, un compagno che conosce bene le zone
curde che stanno sperimentando il confederalismo democratico.
Ascolta
l’intervista:
Di seguito un
lungo articolo di Daniele che ci fornisce il lessico essenziale per meglio
capire la partita che si sta giocando tra Siria, Iraq. E non solo.
Per la prima
volta da decenni il percorso intrapreso in Rojavà narra una storia che apre
prospettive che vanno ben al di là delle montagne curde.
Le notizie dal
Vicino e Medio Oriente si susseguono a un ritmo incalzante. Il Kurdistan si
trova, ancora una volta, nell’occhio del ciclone, dilaniato dall’esplodere
delle tensioni tra le potenze regionali che si spartiscono il suo territorio.
Non è semplice,
in un simile scenario, fornire un quadro della situazione che non sia
immediatamente superato dall’incedere degli eventi. I quintali di notizie,
parole, immagini, vomitati dai mass media, invece di chiarire la complessità
dello scenario mediorientale, contribuiscono a spargere una confusione che è
tutt’altro che casuale.
Perciò ci sembra
prioritario – nei limiti di quanto è possibile fare in un breve articolo –
provare a fornire qualche strumento interpretativo utile a comprendere le
dinamiche in corso con uno sguardo di più lungo periodo rispetto alla cronaca
emergenziale del giorno dopo giorno.
Da un lato, è
necessario ricordare come quel che accade in Kurdistan (e più in generale in
Medio Oriente) sia sempre, anche, il precipitato dell’interazione di forze
esterne, a cominciare dagli Stati che ne occupano il territorio, ossia
Dall’altro, è
bene sottolineare come ciò non precluda l’esistenza di specifiche dinamiche
locali, le quali, anzi, dimostrano sempre più spesso come proprio questi
momenti di crisi e disfacimento possano rappresentare le crepe da cui emergono
nuovi percorsi di autonomia, rivolta e protagonismo popolare.
L’immagine
costruita dal discorso mediatico dominante racconta, sostanzialmente, di una
folle guerra di fanatici terroristi musulmani contro i quali l’Occidente è
costretto a intervenire (per ragioni umanitarie, ça va sans dire!) appoggiando
le uniche forze al momento in grado di opporvisi, ovvero “i curdi”. Per fornire
qualche antidoto alle ambiguità e ai silenzi che caratterizzano tale
ricostruzione, ci pare utile, in primo luogo, delineare chi sono realmente le
forze in campo, cosa rappresentano, quali identità e progettualità incarnano
(in particolare nel campo curdo). In secondo luogo [nella prossima “puntata”],
proveremo a sondare i percorsi di autonomia popolare che nonostante tutto –
compresa una censura mediatica impressionante – resistono e rappresentano una
forza di rottura per niente trascurabile (sia da un punto di vista politico che
militare), in particolare nel Kurdistan siriano (Rojava). Infine, cercheremo di
abbozzare qualche riflessione di portata più generale sul senso degli eventi in
corso
Gli attori in
campo
15 agosto 2014. Le televisioni del mondo intero riportano con orrore i
massacri, le esecuzioni, i rapimenti di bambini e donne venduti come schiavi,
le pulizie etniche e le angherie di ogni tipo dispiegate dalle bande dello
“Stato Islamico” (I.S.) in nord Iraq contro minoranze religiose e oppositori,
ad esempio contro i curdi yezidi a Sinjar (Şengal in curdo). Tale escalation di
violenza settaria sarebbe, ufficialmente, all’origine del sostegno militare che
Stati Uniti ed Europa si apprestano a fornire (apertamente) “ai curdi” – dopo
averlo fornito a lungo (dietro le quinte) alle milizie “jihadiste”. Peccato
però che l’espressione “i curdi” non significhi nulla, essendo “i
kurds_mapcurdi” una realtà nient’affatto omogenea. Oltre al fatto – tutt’altro
che trascurabile – che il popolo curdo è diviso da circa un secolo dalle
frontiere artificiali di Turchia, Siria, Iraq e Iran, nel movimento curdo si
sovrappongono, com’è ovvio che sia, profonde divisioni che hanno origini
storiche, linguistiche, tribali, religiose, oltre che contrapposizioni
politiche talvolta laceranti e foriere di conflitti anche armati. Quando,
dunque, gli Stati Uniti parlano di “armare i curdi”, si riferiscono ovviamente
ai loro alleati sul campo, ovvero ai filo-americani del PDK, e non certo ai
“terroristi” del PKK e ai suoi alleati. E ciò anche se, come emerge sempre più
chiaramente dalle fonti sul campo e dalle testimonianze dei sopravvissuti, ad
accorrere per aiutare le minoranze aggredite e a organizzare la resistenza
armata contro le bande paramilitari di I.S., sono stati proprio quelli che
Washington e Bruxelles definiscono “terroristi”, e non i miliziani fedeli a PDK
e USA, i quali hanno invece lasciato campo libero all’avanzata di I.S.,
sostanzialmente spartendosi le spoglie del territorio abbandonato dallo
squagliarsi dell’esercito di Baghdad. Del resto, anche i tanto decantati quanto
limitati bombardamenti finora sferrati dagli Stati Uniti non sembrano proprio
avere l’obbiettivo di stroncare le forze “islamiste”, quanto piuttosto quello
di contenerle e indirizzarle (altrimenti, con le tecnologie e le informazioni
in mano all’aviazione USA, sarebbe stato un “gioco da ragazzi” annientarne le
postazioni e le colonne nel campo aperto del deserto iracheno).
È proprio per
cercare di dissipare tali ambiguità che riportiamo qui di seguito, in modo
inevitabilmente sintetico e schematico, una descrizione delle organizzazioni
coinvolte a vario titolo nel conflitto in corso, una sorta di glossario per
aiutare a districarsi nella confusione mediatica.
PKK – Partito
dei lavoratori del Kurdistan (Turchia). Le sue ali militari sono: HPG (Forze di
difesa del popolo) e YJA-Star (Unità delle donne libere – Star). Opera nel
Kurdistan settentrionale (in curdo “Bakûr”, sud-est della Turchia) da oltre
trent’anni, per sostenere l’autodeterminazione e la stessa sopravvivenza del
popolo curdo contro l’occupazione militare da parte dello Stato turco. È stato
inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata da USA ed
Europa. Dagli anni Novanta, in particolare grazie all’elaborazione teorica del
suo presidente Abdullah Öcalan (tuttora detenuto nell’isola-prigione di Imrali
in Turchia), il PKK ha superato l’originaria ideologia nazionalista e
marxista-leninista attraverso una radicale critica degli stessi concetti di
Stato, Nazione, Partito, e abbandonando l’obiettivo della costruzione di uno
Stato curdo indipendente. La sua proposta politica, denominata Confederalismo
democratico, auspica la costruzione di una federazione di comunità autogovernantisi
al di là dei confini nazionali, religiosi, etnici, le cui colonne portanti sono
la partecipazione dal basso, la parità di genere e il rispetto della natura. Il
suo esercito di guerriglia (HPG e YJA-Star) conta diverse migliaia di uomini e
donne nelle montagne del sud-est della Turchia (sui confini con Siria, Iraq e
Iran) e sui monti Qandil in territorio iracheno. Attualmente in un precario
cessate il fuoco unilaterale con
PYD – Partito
dell’unione democratica (Siria). Le sue ali militari sono: YPG (Unità di difesa
popolare) e YPJ (Unità di difesa delle donne). È il partito maggioritario nel
Kurdistan occidentale (“Rojava”, Siria del nord). Stretto alleato del PKK, sia
dal punto di vista militare che politico, ne condivide la proposta del
Confederalismo democratico, prospettiva che sta concretizzando nei territori
del Rojava. Qui, dall’insurrezione contro il regime siriano, non si è schierato
né con il regime di Al-Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una “terza
via” consistente nel liberare e difendere il proprio territorio per
amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società civile non
solo curda, in una sorta di “democrazia cantonale dal basso”. La sua forza
militare (YPG e YPJ) oltre a difendere il Rojava da chiunque l’attacchi
(lealisti di Al-Assad, “ribelli” siriani, I.S. e “jihadisti” vari) ha
recentemente operato in territorio iracheno contro i tentativi di pulizia
etnica di I.S. – in particolare nelle aree di Sinjar, Makhmour (Maxmur, in
curdo) –, soccorrendo la popolazione in fuga e organizzando anche lì, come in
Siria, una resistenza armata di autodifesa popolare.
KCK –
Raggruppamento delle comunità del Kurdistan. È il coordinamento che raggruppa i
vari partiti e organizzazioni della società civile delle quattro parti del
Kurdistan per portare avanti il progetto del Confederalismo democratico. Oltre
a PKK e PYD, ne fanno parte anche il PÇDK (Iraq) e il PJAK (Iran).
PÇDK – Partito
della soluzione democratica in Kurdistan (Iraq), per il Kurdistan meridionale
(“Başûr”, nord Iraq); forza attualmente minoritaria anche a causa della
repressione che subisce da parte del governo regionale del PDK.
PJAK – Partito
della vita libera del Kurdistan (Iran), per il Kurdistan orientale (“Rojhelat”,
nord-ovest dell’Iran). La sua ala militare è composta dalle HRG (Forze di
difesa del Kurdistan orientale) e quella femminile dall’YJRK (Unione delle
donne del Kurdistan orientale), le cui forze sono anch’esse attualmente
impegnate nella resistenza contro l’I.S. in Iraq e in Rojava.
PDK – Partito
democratico del Kurdistan (Iraq). È il partito di Mas’ud Barzani, che governa
il Kurdistan meridionale (“Başûr”, nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG)
in seguito all’invasione americana del 2003 e alla caduta del regime di Saddam
Hussein. La famiglia Barzani, leader storici del movimento nazionalista curdo,
governa di fatto la regione come un proprio feudo, rappresentando una vera e
propria mafia del petrolio, in grado di garantire l’ordine nella regione e
perciò sostenuta e armata dagli Stati Uniti, oltre che da Israele e Turchia
(con cui ha importanti rapporti economici e a cui vende il petrolio). L’ala
militare del PDK è formata dai «peshmerga», in parte integrati nell’esercito
regolare iracheno, ma soprattutto nelle milizie che costituiscono le forze di
sicurezza del KRG (Governo regionale del Kurdistan). La politica nazionalista e
filo-americana del PDK è radicalmente in contrasto con le posizioni di PKK,
PYD, KCK, in quanto principale stampella del neo-colonialismo e della
balcanizzazione del Medio Oriente. Di fronte all’offensiva di I.S., i peshmerga
di Barzani si sono distinti per una politica opportunista, che non ha
sostanzialmente ostacolato l’avanzata di I.S. (fortemente sponsorizzata – tra
gli altri – dall’amica Turchia) fino a quando non ha toccato i propri
interessi, e anzi approfittando del conseguente indebolimento del governo
centrale iracheno per allargare i confini del Kurdistan federale (ad esempio
occupando la città petrolifera di Kirkuk quando I.S. occupava Mosul). Molteplici
testimonianze dei civili scampati ai massacri di I.S., in particolare a Sinjar
e a Makhmour, riferiscono di essere stati abbandonati dai miliziani di Barzani
e di essersi salvati soltanto grazie all’intervento dei guerriglieri del PKK e
del PYD. Diversi analisti inoltre – a proposito dell’immobilismo dei peshmerga
del PDK – hanno sottolineato il fatto che mentre le forze del PKK dagli anni
Ottanta non hanno mai smesso di combattere e di addestrarsi alla guerriglia, le
truppe di Barzani, a oltre dieci anni dalla caduta di Saddam Hussein, si sono
trasformate in un apparato burocratico di impiegati più che di guerriglieri.
«Peshmerga».
Significa genericamente «guerrigliero» o «soldato» curdo, ed è quindi il
termine che, storicamente, definisce ogni combattente del Kurdistan. Col tempo
però (con la formazione di un governo de facto nel nord Iraq e le profonde
spaccature nel movimento curdo) questo termine è andato a definire in modo
specifico i miliziani del PDK di Barzani, come quelli del PUK di Talabani, di
Gorran e degli altri partiti curdi d’Iraq, mentre i partigiani del PKK o del
PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni (o “gerîlla”,
“partîzan”…). La genericità del termine «peshmerga» comunque rimane, ed è anche
sulla sua ambiguità che si è costruita molta della confusione diffusa dai media
internazionali.
In campo
avverso, tra i protagonisti del conflitto in corso, il califfato fondato da Abu
Bakr Al-Baghdadi nei territori del Bilad ash Sham (a cavallo tra Siria e Iraq)
si è ormai affermato come una vera e propria potenza militare, fondata sul
terrore nei confronti delle popolazioni civili e dotata di una forza
paramilitare più simile a un esercito mercenario che non a una “tradizionale”
organizzazione “jihadista”.
I.S. – Stato
islamico. Nasce dall’arcipelago della resistenza islamista sunnita contro
l’occupazione americana dell’Iraq nel 2003, nello specifico dal gruppo “Al-Tawḥīd wa-al-Jihād” fondato
dal giordano Abu Musab Al-Zarkawi (ucciso da un bombardamento USA nel 2006),
poi divenuto Al Qaida in Iraq (AQI), poi Stato islamico in Iraq (ISI), in Siria
(ISIS) e infine Stato islamico (IS). Ha praticato fin dagli esordi una politica
ferocemente settaria, attaccando principalmente gli sciiti e le altre minoranze
dell’area (ragione del disaccordo e delle continue frizioni con la dirigenza di
Al Qaida), riuscendo a serrare le fila sunnite con migliaia di militanti
soprattutto stranieri (dimostrando una capacità di attrattiva effettivamente
internazionale). Nello scenario della guerra civile siriana, si è distinto per
la ferocia dei suoi attacchi (e non solo contro le forze lealiste ma anche e
soprattutto contro ogni fazione rivale del fronte dei “ribelli”) riuscendo a
imporsi, dal 2013, come principale kurds_vs_Isisforza del campo fondamentalista
sunnita (scalzando anche Jabat Al Nusra, ovvero il referente di Al Qaida in
Siria). Qui controlla ormai diverse aree nel nord e nell’est del Paese, in
particolare nelle zone petrolifere e lungo il corso dell’Eufrate, in guerra
aperta contro le forze curde del Rojava. Nel 2014 incomincia l’avanzata in
Iraq, dove trova l’appoggio di diverse forze sunnite emarginate e represse dal
governo iracheno, il cui esercito a luglio si ritira disordinatamente
abbandonando nelle mani dell’I.S. un vero e proprio arsenale (tra cui fucili M4
e M16, lanciagranate, visori notturni, mitragliatrici, artiglieria pesante,
missili terra-aria Stinger e Scud, carri armati, veicoli corazzati Humvies,
elicotteri Blackhawks, aerei cargo…). È così che l’I.S., sotto la guida di Abu
Bakr Al-Baghdadi, si costituisce in Califfato, strutturandosi di fatto come un
nuovo Stato che riscuote le tasse, paga i suoi miliziani e dipendenti,
amministra centrali elettriche, depositi di grano, dighe, pozzi petroliferi,
affrancandosi così anche dalla dipendenza da finanziamenti di Stati stranieri.
In questa rapida
escalation dello Stato Islamico, l’appoggio logistico, economico, militare
fornitogli dalla Turchia perlomeno dall’inizio della “crisi” del regime
siriano, insieme all’atteggiamento delle milizie peshmerga di Barzani, e alla
“vigile distanza” degli USA, potrebbero far sorgere ai più malfidenti qualche
sospetto sull’esistenza di un disegno pro I.S. condiviso da tale “asse”. Ciò
anche senza scomodare le voci secondo cui il califfo Al-Baghdadi (che risulta
essere stato in un campo di prigionia statunitense in Iraq dal 2004 al 2009,
per poi esserne rilasciato ed assumere la leadership di ISIS in seguito
all’uccisione del precedente leader da parte di forze statunitensi) sarebbe
stato addestrato da Mossad, CIA e MI6. Anche senza bisogno di perdersi nelle
immancabili elucubrazioni su complotti e cospirazioni a tavolino, non è affatto
impensabile un’alleanza di fatto, una convergenza di interessi (che si saldano
nel sollecitare alcune dinamiche, nel non ostacolarne altre…) tra Turchia, USA,
PDK (oltre ad Arabia saudita, Qatar…), per “suscitare” e impiantare una
presenza fondamentalista sunnita nel cuore del Medio Oriente (uno nuovo Stato,
o un Califfato, o un territorio in guerra permanente…) in funzione anti Iran (e
dunque anti Al-Assad, Hezbollah… e Russia); qualcosa che – già che c’è – vada a
spezzare sul campo ogni tentativo di rivolta, di autogoverno, di gestione
diretta, e diversa, del territorio…
Una
controrivoluzione preventiva, insomma, contro quella resistenza popolare che
costituisce oggi (fuori dalle menzogne della propaganda) l’unica vera
resistenza sul campo contro lo Stato Islamico; una resistenza che vede in prima
fila le milizie autorganizzate dalle donne, e in cui stanno confluendo gli
abitanti delle regioni sotto attacco rompendo le divisioni etniche, religiose,
culturali, in una prospettiva politica che assume un significato universale… Questo
movimento, che partendo dai curdi di Rojava rischia di dilagare oltre confini
che non tengono più, è qualcosa di dirompente nel panorama mediorientale,
comprensibilmente preoccupante per qualsiasi potere con mire di controllo o
egemonia nell’area, e proprio perciò, per noi, tanto più interessante.
L’informazione
di Blackout
http://radioblackout.org/2014/09/oltre-le-frontiere-la-resistenza-delle-comunita-federaliste-e-libertarie-tra-siria-e-iraq/