ŞENGAL: lo Stato islamico,
l’(in)dipendenza curda, l’ipocrisia occidentale e il fallimento del paradigma
dello Stato-nazione
September 03, 2014
Un giorno, il
mondo si è svegliato e ha improvvisamente realizzato che esiste una comunità
religiosa chiamata Yezidi e che un gruppo jihadista chiamato Stato islamico, IS
(precedentemente noto come ISIS, Stato islamico in Iraq e in Levante), che sta
schiavizzando la popolazione in Iraq.
Evidentemente,
gli allarmi lanciati dai curdi di Rojava (“Rojava” è il termine curdo per
“occidente”, cioè Kurdistan occidentale / Siria del nord), che stanno
combattendo contro i gruppi islamisti radicali quali Al-Nusra e IS fin dal
2012, e che da allora subiscono attacchi e massacri senza che nessuno se ne
preoccupi, i loro appelli, evidentemente, non facevano notizia.A quanto pare IS
avrebbe “sbaragliato” la regione prendendoci alla sprovvista, all’improvviso,
sbucando dal nulla in maniera imprevedibile! E così, la prima cosa che salta in
mente per far fronte alla crisi è l’intervento militare occidentale, i
bombardamenti, ecc.
Del resto,
dicono, tale situazione di emergenza non è certo il momento per fare critiche o
rinfacciare colpe – ed è davvero un’ottima via d’uscita per tutti quei partiti,
istituzioni, Stati che hanno attivamente o passivamente contribuito alla
nascita, alla diffusione e all’affermazione dello Stato islamico. Davvero un
dolce zuccherino per annebbiare la vista su un’altra ingiusta guerra in Iraq,
sul dirottamento e la strumentalizzazione internazionale delle cosiddette
“primavere arabe”, sul traffico internazionale di armi, il settarismo,
l’islamofobia, la “guerra al terrorismo”, e per allontanare ogni
responsabilità, lontano… fino all’arrivo della prossima “imprevedibile”
tragedia!
Al contrario, il
rispetto delle vittime di questo moderno genocidio richiede un’analisi aperta e
critica, che ne individui con chiarezza i responsabili. Quanto di quest’inferno
che sta incendiando il Medo Oriente era davvero imprevedibile? L’IS è davvero
emerso dal nulla? E quanto è realistico credere che scomparirà in seguito a un
po’ di bombardamenti americani?
Leggee la crisi
in corso come il portato delle politiche dell’ordine mondiale dominante, la cui
governance dell’area si fonda sui parametri di Stato, potere, egemonia, può
aiutarci a comprendere l’ipocrisia del “complesso del salvatore” degli Stati
Uniti e la perversione del “dovere morale” dell’Europa, i quali armano i loro
alleati contro l’IS, dopo aver entusiasticamente venduto armi a Paesi come
Arabia Saudita e Qatar, che apertamente supportano gli jihadisti, e mentre
Ciò ci
aiuterebbe anche a comprendere come mai il partito curdo sostenuto dagli USA,
che persegue da tempo l’indipendenza dall’Iraq in modo arrogante e sciovinista
a spesa dei curdi delle altre regioni, ha ritirato così rapidamente le proprie
forze da Şengal (Sinjar) senza combattere, lasciando gli Yezidi alla mercé di
IS, e come mai invece sono stati quei curdi privi di ogni appoggio dall’estero
che hanno salvato decine di migliaia di Yezidi, pur essendo etichettati come
terroristi e marginalizzati dalla comunità internazionale.
In che modo la
catastrofe umanitaria di Şengal mostra il vero volto dello status quo, in
particolare quello del paradigma dello Stato-nazione, con le sue fondamenta
capitaliste, scioviniste, patriarcali?
E che fine ha
fatto il partito curdo per l’“indipendenza”, così dipendente da forze
straniere, mentre quei partiti curdi che non lottano più per uno Stato (poiché
rifiutano lo Stato in quanto di per sé fonte di oppressione – e che vengono
perciò accusati dai nazionalisti di aver rinunciato all’“indipendenza”),
salvavano un’intera comunità fornendogli un’alternativa sul campo, una ben più
significativa forma d’indipendenza fuori dai parametri precostituiti di un
nuovo Stato?
Prima di tutto,
il contesto: lo Stato islamico non è una novità. Ci sono stati diversi massacri
in Rojava negli ultimi due anni, commessi precisamente da tale gruppo
jihadista, senza alcun segnale di scandalo da parte della comunità
internazionale. Il totale silenzio e l’assoluta mancanza di consapevolezza da
parte dell’opinione pubblica rispetto alla catastrofe umanitaria in Rojava, a
dispetto degli instancabili sforzi degli attivisti per coinvolgere i politici e
l’opinione pubblica, sono indicativi del fatto che molte delle attuali
preoccupazioni non sono mosse da un genuino impegno etico per i diritti umani.
Dopo aver
brutalmente massacrato migliaia di civili in Siria, in particolare in Rojava,
IS ora compie incredibili massacri in altre zone del Kurdistan, come in Iraq e
in Siria. Gente decapitata, crocifissa, fucilata, torturata e costretta a
sfollare. Donne stuprate, rapite, vendute al mercato come schiave, bambini
lasciati morire di fame e di sete. Case e luoghi sacri bruciati, depredati,
distrutti, violati. Pulizie etniche e religiose sistematiche rischiano di
distruggere intere comunità del Medio Oriente. La ferocia di tali massacri è
qualcosa di indescrivibile.
Nell’aggressione
dell’IS di inizio agosto, migliaia di curdi Yezidi – membri di una antica
comunità religiosa che ha già affrontato 72 massacri nella sua storia ed ora si
trova ad affrontarne un altro – sono stati vittime di una campagna genocida a
Şengal, un loro luogo sacro. Decine di migliaia di persone sono state costrette
a lasciare le loro case e a rifugiarsi sui vicini monti Şengal. Molti, in
particolare bambini e anziani, sono morti nella fuga e a migliaia sono rimasti
bloccati sulle montagne per giorni, morendo di fame e disidratazione, mentre IS
perpetrava i suoi sporchi massacri nei villaggi circostanti. Ci sono
testimonianze agghiaccianti sui mercati del sesso e sui suicidi di massa di
donne che hanno preferito uccidersi piuttosto che cadere in mano a IS. La lista
dei morti si allunga ogni giorno che passa…
Gli Yezidi di
Şengal avrebbero dovuto essere protetti dalle unità di peshmerga (combattenti
curdi, letteralmente “coloro che affrontano la morte”) del KDP (o PDK, Partito
democratico del Kurdistan), il partito che amministra il KRG (Governo regionale
del Kurdistan) nel Sud Kurdistan (Nord Iraq). Ma nei fatti, di fronte
all’attacco di IS su Şengal, tali forze si sono immediatamente ritirate senza
combattere e senza preavviso, lasciando la popolazione in balia dell’IS e, come
riportano le testimonianze, rifiutando di fornire alla gente le armi per
difendersi.
Al contrario,
sono state le Unità di difesa del popolo (YPG) e le Unità di difesa delle donne
(YPJ) – che già hanno difeso il Rojava negli ultimi due anni dagli attacchi del
regime di Assad e dai jihadisti dell’IS – ad oltrepassare l’ormai dissolta
frontiera tra Siria e Iraq per difendere la popolazione Yezida, teoricamente
protetta dal molto meglio equipaggiato PDK. Creando un corridoio umanitario, le
YPG/YPJ sono riuscite a salvare decine di migliaia di sfollati in fuga. Ora,
costoro hanno raggiunto il Campo per rifugiati Newroz, in Rojava, dove
innumerevoli rifugiati attendono aiuti umanitari.
Subito dopo
l’intervento delle YPG/YPJ, i guerriglieri del PKK (Partito dei lavoratori del
Kurdistan – dalla Turchia) sono anch’essi entrati nell’area dai monti Qandil
per unirsi alla battaglia contro IS e proteggere la popolazione delle regioni
sotto attacco. Il PYD, il Partito dell’unione democratica in Rojava, – che è
stata la forza trainante nella creazione dei cantoni autonomi in Rojava a
inizio 2012, così come delle Unità di difesa YPG/YPJ, – è un partito
ideologicamente affiliato al PKK, che è un’organizzazione di guerriglia che
combatte da anni contro lo Stato turco per il riconoscimento dell’identità
curda e l’uguaglianza dei diritti. Nonostante abbia abbandonato l’obiettivo di
creare uno Stato curdo, dichiarando diversi cessate il fuoco unilaterali, ed
essendo oggi coinvolto in un processo di pace con lo Stato turco, il PKK è
tuttora considerato un gruppo separatista ed è etichettato come
un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dall’Unione europea e dagli Stati
Uniti (posto che
Questa è una
delle ragioni che hanno portato alla criminalizzazione e all’isolamento dei
cantoni progressisti del Rojava da parte della comunità internazionale. Un
esempio di ciò è l’esclusione dei curdi dalla Conferenza di pace sulla crisi
siriana (Ginevra II), nonostante il Rojava sia l’unica regione siriana che è
riuscita a creare delle strutture di autogoverno laico, democratico, inclusivo
nel mezzo di una guerra civile malgrado gli attacchi del regime di Assad e dei
gruppi jihadisti.
Ora i rifugiati
Yezidi, scioccati e delusi dal ritiro delle milizie peshmerga, in precedenza
largamente idealizzate, maledicono il PDK e li si sente affermare cose del
tipo: «Dio e il PKK ci hanno salvati!», «Se il PKK non ci avesse salvato, ora
non vedreste uno Yezida vivo!», «Tutti devono sapere chi è il PKK: sono stati
loro a liberare le montagne di Şengal!». Molti Yezidi si sono uniti alle
milizie delle YPG/YPJ per riconquistare e liberare i propri luoghi sacri.
A beneficio del
PDK, i media mainstream hanno applaudito ai “combattenti curdi” per aver
salvato gli Yezidi dalle montagne, rappresentando i curdi come una realtà
monolitica. Anche se ora le forze dei peshmerga stanno ottenendo vittorie
strategiche con il supporto USA, il PDK, dopo aver deriso l’esercito iracheno
per aver abbandonato Mosul e Kirkuk di fronte all’avanzata di IS a giugno, ha
fatto lo stesso con gli Yezidi a Şengal. Ci sono articoli di giornale e
programmi TV che hanno miracolosamente realizzato interi reportage sulla
situazione a Şengal senza mai menzionare il ruolo chiave delle YPG/YPJ e dei
guerriglieri del PKK, il cui ruolo centrale nell’opera di salvataggio è
confermato in tutte le testimonianze dei rifugiati.
Alcuni articoli
hanno marginalmente menzionato i “curdi siriani” in una o due frasi, prima di
tornare a argomentare sul perché «i curdi iracheni, alleati degli USA e filo
occidentali, devono essere riforniti di armi» per combattere l’IS. In un
resoconto, le parole “YPG/YPJ e PKK” pronunciate da un testimone, vengono
tradotte con “peshmerga”. Una sorprendente mole di articoli è uscita fuori
sulle donne peshmerga senza esperienza di combattimento che vogliono combattere
l’IS. Le intenzioni di tali donne sono senza dubbio lodevoli, ma è interessante
notare come le donne delle milizie YPG/YPJ – che hanno una solida esperienza
nella lotta contro IS, essendo almeno due anni che combattono e muoiono in
questa lotta – non hanno affatto ricevuto una tale attenzione mediatica.
Nazionalismo
vetusto, faide politiche fratricide e (in)dipendenza
Da lungo tempo,
il PDK e il suo leader, il presidente del KRG Masud Barzani, sono impegnati in
una campagna a favore di uno Stato curdo indipendente. Facendo ciò, essi stanno
attivamente isolando i curdi di Turchia, Siria e Iran. Uno dei più stretti
alleati del PDK è infatti
Ad aprile, il
partito (PDK) è giunto al punto di scavare una trincea sulla frontiera tra
Kurdistan meridionale e Kurdistan occidentale, e i peshmerga hanno puntato le
armi sulla gente che protestava sul confine. La gente ha vissuto tale
atteggiamento come un pesante tradimento, definendolo “una seconda Losanna”
(con il Trattato di Losanna, nel 1923, il Kurdistan venne smembrato in quattro
parti). È alquanto ironico rivendicare uno Stato curdo indipendente ed essere
chiamati “una seconda Losanna” dai propri concittadini curdi.
La concezione di liberazione del PDK è fondata sulla crescita economica e
capitalistica, concepita mediante la vendita “indipendente” del petrolio, gli
hotel di lusso, i centri commerciali, con il contemporaneo rafforzamento delle
frontiere sancite a Losanna e, con esse, dell’oppressione degli altri curdi.
Tenuto conto di
ciò, la ritirata dei peshmerga non risulta molto sorprendente. I peshmerga sono
stati strumentalizzati dalla propaganda indipendentista, trasformati nel
simbolo della mascolinità e della “invincibilità” dello Stato de-facto. È una
mistificazione dell’identità peshmerga, che si fonda sul tradizionale coraggio
e spirito di libertà del popolo curdo; ma se ciò è stato vero per chi ha
“affrontato la morte” contro l’esercito di Saddam Hussein, oggi il peshmerga si
è trasformato in un impiegato pubblico salariato. Al di là di ciò, le unità dei
peshmerga operano principalmente sulla base di fedeltà di parte, al comando dei
due partiti dominanti, PDK e PUK, che hanno le proprie milizie.
Perciò, non c’è
da sorprendersi se molti vecchi peshmerga smobilitati si sono fatti avanti per
combattere l’IS, mentre le giovani generazioni senza esperienza di
combattimento non erano molto motivate, specialmente perché molti di loro non
sono stati regolarmente pagati, in seguito ai tagli di budget del KRG fatti dal
governo di Baghdad. La protezione del popolo, glorificata quando utile alla
propaganda, si è ora ridotta a una normale voce di spesa per l’apparato
burocratico statale.
Sul piano
teorico, l’impianto conservatore e tribale/feudale del PDK è in un contrasto
siderale con l’ideologia di sinistra e femminista del movimento politico curdo
affiliato al PKK, storico rivale del PDK. La rivoluzione in corso in Rojava è
ideologicamente affine al PKK e il sistema che vi è stato instaurato si fonda
sul concetto di “Confederalismo democratico” elaborato dal principale teorico
del PKK, Abdullah Öcalan. Se alla fine degli anni Settanta, quando nacque, il
PKK rivendicava il conseguimento di uno Stato curdo indipendente, da tempo ha
superato questa visione, e ora promuove l’autogoverno dal basso delle comunità
locali, l’uguaglianza di genere e l’ecologismo, al cui fine propone di
considerare come insignificanti le attuali frontiere arbitrariamente imposte
dagli Stati.
Tale progetto
rifiuta l’istituzione di un nuovo Stato in quanto entità intimamente oppressiva
ed egemonica, e rigetta il nazionalismo in quanto concezione vetusta e
superata. Ciò è all’origine delle accuse che settori nazionalisti quali il PDK
hanno lanciato contro il PKK e il suo movimento, accusati di aver rinunciato al
“sogno curdo”.
Ma è proprio
vero, come molti sostengono, che in politica non contano le idee? No. Anche se
le situazioni critiche spesso richiedono pragmatismo, i fatti di Şengal
dimostrano, in più sensi, il fallimento del paradigma dello Stato-nazione e
l’efficacia sul campo del Confederalismo democratico. Cercando di fondare la
liberazione sul piano dello sviluppo capitalista, gloriandosi della vendita del
petrolio che non fa che arricchire poche multi-milionarie tribù invece di
sostenere in modo costruttivo la società, e cercando di affermare la propria
indipendenza soltanto nei ristretti parametri dello Stato-nazione, che
necessita il sostegno di altri poteri, il PDK si è completamente asservito e
reso dipendente da potenze straniere.
A dispetto dei
suoi virili sforzi per dichiarare l’indipendenza, sulle spalle degli altri
curdi e degli altri popoli della regione, ha fallito proprio nel compito di
proteggere i propri concittadini, dimostrando che la sottoscrizione dell’ordine
mondiale dominante significa precisamente il contrario dell’indipendenza. Coloro
che ora sono nel pallone in seguito alla ritirata dei propri eroi, cercano di
salvare la faccia rifiutando ogni critica nei confronti del PDK, appellandosi a
una misteriosa cosa chiamata “unità curda”. Fa senz’altro comodo bollare ogni
critica al PDK come un tentativo di promuovere discordia. Ma in realtà, è fin
troppo chiaro ed evidente chi è che ha fomentato divisione tra i curdi con le
proprie politiche opportuniste.
Il PDK ha
contribuito al successo di IS con la sua ostilità nei confronti del Rojava. Quando
IS massacrava i curdi in Rojava, il PDK ha trincerato le proprie frontiere e
puntato le armi sulla popolazione. E ora che IS minaccia il KRG, non sono le
sue frontiere trincerate, né la vendita di petrolio o le ricchezze del partito
di Stato curdo, il PDK, impiantato e sostenuto dalle potenze mondiali, a
salvare migliaia di vite nel suo territorio, nonostante il suo arrogante
discorso “indipendentista”. Sono coloro che rifiutano lo stato-nazione ad aver
dato vita autonomamente a una missione di salvataggio, ad aver autonomamente
mosso guerra contro IS senza alcun supporto militare, economico, politico
dall’estero, e ad aver autonomamente costituito un campo profughi per decine di
migliaia di Yezidi, in quanto grazie alla loro concezione di
autodeterminazione, libertà, autonomia, indipendenza, hanno riconosciuto la
funzione oppressiva e vessatoria con cui operano le istituzioni statali.
Il loro
concentrarsi sul mutuo appoggio e sul sostegno reciproco ha realizzato un ben
più significativo concetto di indipendenza, contemporaneamente criticando il
nazionalismo in quanto principio superato, e concretizzando una reale unità sul
campo. Del resto, i guerriglieri del PKK e i combattenti loro alleati – come le
YPG/YPJ dal Rojava e il PJAK dal Rojhelat (Est Kurdistan / Ovest Iran) – hanno
fin da subito dichiarato il proprio sostegno alla popolazione del Sud
Kurdistan, fin dagli attacchi su Mosul e Kirkuk, che ora infatti stanno
proteggendo, noncuranti dell’opportunismo del PDK. La loro ideologia e pratica
politica, del resto, prevede l’unità di tutti i popoli, non un’unità nazionale
dei soli curdi. Si evidenziano così, sul campo, le diametralmente opposte
concezioni di “indipendenza” e di “unità”.
La politica del
PDK sfrutta il comprensibile legame emozionale della gente, che si identifica
nella memoria collettiva del genocidio vissuto sotto il regime di Saddam
Hussein. Questa mentalità è talmente radicata in modo distorto nella coscienza
delle persone che ogni tentativo di cambiamento del suo corrotto regime viene
dipinto come una “volontà di distruggere ciò che è stato duramente
conquistato”. Questa concezione della libertà si traduce nel voler avere ciò
che gli altri hanno, ovvero il potere, le istituzioni, l’egemonia, quando in
realtà nessuno Stato in Medio Oriente possiede una reale autonomia e
indipendenza.
Come fa la gente
a pensare che il KRG – un pezzo del governo iracheno il quale a sua volta è una
marionetta degli USA – possa meritare l’appellativo di “indipendente”? Se la
gente vuole sottoscrivere un simile sistema, basato su un nazionalismo vuoto e
sciovinista e completamente in balia delle potenze straniere, nell’illusione di
essere indipendenti, allora dovranno accettare il paradigma dello Stato-nazione
con tutta la sua corruzione e iniquità. Dovranno decidere se è un desiderabile
“sogno curdo” quello in cui un’ambasciata iraniana nel KRG può proclamare che
«il curdo non è una lingua»; o se è fonte di orgoglio vedere il ministro degli
esteri turco Davutoglu rivolgersi in curdo alla gente del Sud Kurdistan, mentre
nel suo Paese ci sono migliaia di prigionieri politici perché rivendicano il
riconoscimento della lingua curda in Turchia.
Se è questo il
tipo di Kurdistan che la gente sogna, non dovrebbe poi sorprendersi per il
fatto che in una simile “indipendenza” sia compresa la disperata attesa
dell’aiuto americano quando i propri cittadini Yezidi vengono massacrati. E non
dovrebbe neppure deridere l’esercito iracheno per aver disertato in massa a
Mosul e a Kirkuk. O, forse, dovrebbe smettere di abusare della parola
“indipendenza”. Ma l’astuta propaganda di Stato del PDK, che usa il termine
“indipendenza” – un concetto che chiaramente nessun curdo ragionevole
rigetterebbe – per affermare il proprio potere, dovrebbe suonare come un
insulto per quel popolo che ha coraggiosamente combattuto contro Saddam Hussein
nella speranza di conquistare la libertà.
Non sorprende
che la medesima mentalità ossessivamente statalista ha entusiasticamente lodato
Netanyahu quando, a giugno, ha dichiarato il suo supporto alla creazione di uno
Stato curdo. Per quanto i curdi dovrebbero comprendere molto bene le sofferenze
che i palestinesi subiscono sotto l’apartheid dell’occupazione fascista dello
Stato israeliano, è ancora una volta il dogma dello Stato che definisce la
morale in termini di interesse, portando alla singolare conclusione di doversi
alleare con Israele. È probabile che i curdi che hanno applaudito Netanyahu si
saranno vergognati di sé, quando Israele ha lanciato la campagna militare di
sterminio contro il popolo palestinese subito dopo la presa di posizione di
Netanyahu in favore di un nuovo Stato curdo.
Questa stessa
mentalità, che si fonda sull’illusione di un’indipendenza in forma statale,
conduce la gente a una condizione di falsa coscienza che la porta a dire
«Grazie, America, per le vostre bombe!», come se la politica estera degli USA
era quella di gettare bombe a casaccio, per l’amore incondizionato che nutre
per il popolo curdo.
Prima di tutto,
il discorso dominante nei media internazionali, che tratta i curdi come oggetti
sacrificabili, mentre soppesa quanto possano essergli utili in base a quanto
“leali” sono nei confronti dell’Occidente, è assolutamente spudorato, spietato
e umiliante. Gli analisti occidentali speculano, sulla testa di gente che sta
di fronte a un genocidio, su quali popolazioni saranno più disponibili a
servire gli interessi dell’Occidente e quali invece meritano di essere vittime
delle armi che loro stessi hanno preventivamente venduto a un governo corrotto
che le ha poi passate agli jihadisti.
In secondo
luogo, il traffico mondiale di armi e le politiche USA sono tra i principali
fattori all’origine di questa situazione terrificante, che è ormai in tutto –
tranne che nel nome – una Terza guerra mondiale. Perciò è davvero difficile
pensare come essi possano rappresentarne la soluzione. Le armi pesanti in mano
a IS provengono per la gran parte dalla presa di Mosul; e sono armi americane. È
una follia credere che IS potrà essere sradicato da qualche bombardamento aereo
o armando qualche regime fantoccio sul terreno. Ciò, al limite, potrà servire a
coloro che vogliono convincersi di aver fatto qualcosa di utile per poter
dormire con la coscienza tranquilla. Ma per le potenze dominanti non è che la
maniera migliore per la riproduzione dei propri interessi nell’area.
Basta lasciare che affondino in un attimo: dopo aver scatenato un’iniqua guerra
in Iraq, combattuto una seconda guerra fredda in Siria, ignorato i cantoni
curdi in Rojava, che hanno costruito strutture sociali estremamente avanzate a
dispetto della gravità della situazione, e chiuso gli occhi di fronte
all’evidenza del supporto militare fornito agli jihadisti dai propri alleati,
ora gli USA bombardano nuovamente l’area per contrastare un gruppo “islamista”
che impugna armi americane e non sarebbe mai arrivato dov’è senza il supporto
straniero (in particolare di Turchia, Arabia saudita e Qatar – tutti alleati
USA); e così troppi chiudono deliberatamente gli occhi, gli USA lanciano nuove
operazioni militari, continuando a classificare come terroristi coloro che
hanno difeso gli Yezidi… e ci si aspetta pure di vederci fare il tifo ed
applaudire! E malgrado siano giunti sui monti Sinjar molto dopo che i
“terroristi” avevano salvato la popolazione, gli americani sono ancora una volta
– kafkianamente! – lodati come i salvatori del Medio Oriente.
A parte ciò, i
bombardamenti aerei non sono altro che un operazione a brevissimo termine, che
tutt’al più rimanderà di qualche tempo la data del tracollo della regione. L’ottusità
delle azioni militari non tiene conto del fatto che l’IS gode di un discreto
appoggio presso le comunità sunnite che sono state escluse e marginalizzate dal
regime sciita di Al-Maliki come da quello alawita di Al-Assad. La politica
dell’Europa e degli Stati Uniti, del resto, ha attivamente tratto profitto da
tali divisioni settarie. Bisogna anche tener conto del fatto che l’IS ha potuto
appropriarsi così agevolmente dell’artiglieria pesante statunitense a Mosul,
proprio grazie a tali tensioni settarie.
E che l’IS non è
affatto un manipolo di banditi pazzi e irrazionali, ma un’organizzazione ben
strutturata e capace di un utilizzo raffinato della retorica e delle
tecnologie. Inoltre, i cosiddetti “danni collaterali” delle ingiuste guerre
condotte contro paesi a maggioranza islamica sono centinaia di migliaia di vite
umane, persone in carne ed ossa le cui comunità ora vogliono vendetta. Parecchi
degli jihadisti arruolatisi nelle fila dell’IS provengono dai Paesi europei,
spinti dall’islamofobia e dalla xenofobia di Paesi che insegnano l’uguaglianza
di opportunità. Chiaramente, nessuna di queste cose giustifica le barbariche
stragi compiute da IS; ma risulta ovvio che un mero bombardamento del sintomo
non potrà aver ragione della causa del male. Un male che è stato alimentato
dalla politica estera di USA e UE, dal mercato globale delle armi, dal supporto
dato agli jihadisti dagli alleati della NATO, sulle tensioni settarie
esistenti. I popoli del Medio Oriente, così come i cittadini di Stati Uniti ed
Europa, non possono ignorarlo.
La soluzione non
può consistere nel bombardare l’IS; la soluzione deve essere radicale e
politica, deve includere il riconoscimento degli attori in campo, quali i
cantoni del Rojava così come il PKK (che sono in prima fila contro gli
jihadisti da almeno due anni, oltre ad aver portato in salvo gli Yezidi). Non
perché “si meritano” il supporto, ma perché hanno la legittimità popolare,
attraverso il sostegno di milioni di persone che li riconoscono come propri
rappresentanti. Ciò deve includere la cancellazione del PKK dalla lista delle
organizzazioni terroristiche stillata da USA e UE. Come per altri casi di
“liste del terrore”, la definizione del PKK come “terrorista” è uno strumento
politico di controllo e pacificazione, un regalo della NATO alla Turchia. Per
lo meno, tale cancellazione dovrebbe alleviare un po’ la confusione del
pubblico e dei media, che si scervellano per capire come dei terroristi stiano
combattendo altri terroristi, dopo esser stati condizionati a leggere il mondo
in bianco e nero. La definizione di “terrorismo” non fa differenza tra crimini
inumani, crudeli, barbari, e attori politici che minacciano gli interessi dello
status quo. E nel caso del PKK tale definizione criminalizza intere comunità di
popolazione. Anche il Rojava deve ottenere un riconoscimento. Il co-presidente
del PYD in Rojava ha tentato di costruire dei contatti diplomatici con altri
attori politici, ma gli è stato più volte negato il visto da alcuni Paesi
europei così come dagli Stati Uniti.
Indipendenza e
libertà
Bombardare
l’area in vista di un rimedio a breve termine, ma perseverando nelle solite
strategie politiche, non farà che perpetuare lo stesso corrotto e settario
sistema di dipendenza nella regione e prolungare il processo di morte lenta del
Medio Oriente. L’affrancamento dai dogmi dello Stato-nazione e del potere
egemonico porta con sé anche la potenzialità di liberare i popoli del Medio
Oriente dalla camicia di forza della Sindrome di Stoccolma, che guarda a
Occidente ogni volta che emerge una crisi. Indubbiamente, la condizione senza
Stato di intere comunità è posta in una condizione di vulnerabilità in un
sistema che nega ogni altra forma di vita e riconosce soltanto quelle forme di
potere istituzionalizzate denominate Stati. I curdi lo sanno perfettamente. Il
problema è lo Stato, non la sua assenza. Ripudiarlo non significa affatto
arrendersi, in quanto il termine “Stato” non va affatto confuso con i termini
“autonomia”, “libertà” o “indipendenza”. Al contrario, gli eventi di Şengal
mostrano chiaramente il fallimento di tale idea.
Come ha
affermato Duran Kalkan, comandante del PKK: «L’essenza dello Stato sta
nell’essere una forza organizzata per la repressione e lo sfruttamento. Lo
Stato è un sistema, essere Stato significa fare parte del sistema; e ciò
comporta dipendenza e collaborazione. Piccoli Stati dipendono da Stati più
grandi, e tutti dipendono dal sistema statale. È assolutamente certo che uno
Stato non può essere libero e indipendente; nel paradigma statalista non c’è
spazio per l’indipendenza e la libertà. Soltanto le società con una libera e
indipendente consapevolezza possono essere davvero libere e indipendenti. Ciò
può essere raggiunto soltanto da individui e società organizzati, i quali
realizzeranno una società e degli individui democratici».
L’istituzione
dello Stato ha talmente condizionato i nostri modelli di pensiero da renderci
incapaci di concepire un sistema alternativo. Eppure, quando osserviamo i
cantoni di Rojava, nonostante i limiti dovuti a inesperienze e i problemi di
risorse dovuti all’embargo politico ed economico, possiamo vedere un
promettente esempio di come possono evolvere strutture autodeterminate
democratiche, laiche e fondate sull’uguaglianza di genere. Nel mezzo della
guerra civile siriana, il popolo di Rojava ha costituito tre cantoni con
ventidue ministeri ciascuno, in cui ogni ministero ha due deputati, un curdo,
un arabo, un assiro, almeno uno dei quali dev’essere una donna. Hanno costruito
dei consigli popolari di città, di villaggio, di quartiere, come anche cooperative
agricole e abitative, consigli di donne, e accademie femminili. Viene applicato
il principio della co-presidenza, elaborato dal PKK, secondo il quale tutti gli
incarichi, e ad ogni livello amministrativo, devono essere spartiti al 50% tra
uomini e donne.
Nonostante i
media continuino a sostenerlo, la rivoluzione del Rojava non mira a una
secessione dalla Siria, semplicemente perché considera i confini (imposti
dall’accordo Sykes-Picot, 1916) come non più validi. Questa sorta di
indipendenza e autonomia trova in se stessa il proprio fondamento, noncurante
delle arbitrarie formazioni statali imposte dall’esterno. È in conseguenza di
ciò che – nonostante l’isolamento internazionale e i pesanti scontri con Assad
e IS – combattenti del Rojava [Siria] hanno raggiunto il Sud Kurdistan [Iraq]
per soccorrere gli Yezidi. Dovrebbe essere uno scopo ben più desiderabile che
non quello di poter dire: «Abbiamo uno Stato, siamo parte del sistema!».
Infine, ma non
per ultimo, le bande femminicide dello Stato Islamico, stanno conducendo una
guerra contro le donne. In particolare, stanno dis-umanizzando le donne
trasformandole in strumenti, schiavizzandole attraverso cosiddetti “matrimoni
jihadisti” della durata di una o due ore, di fatto per violentarle con l’avallo
di una presunta “legittimazione religiosa”. In questa loro guerra alle donne,
hanno dichiarato “halal” (cioè “consentito”) lo stupro delle donne del campo
nemico, sancendo così l’uso della violenza sessuale come arma di guerra. Si
stima in alcune migliaia il numero di donne sequestrate, stuprate, vendute come
schiave da IS; mentre alcune centinaia – secondo le delegazioni che hanno
raggiunto Şengal – hanno scelto di suicidarsi piuttosto che cadere nelle loro
mani. A fronte di questo inferno ultra-patriarcale, il progetto del
Confederalismo democratico e l’ideologia della liberazione delle donne promossa
dal PKK costituiscono un forte e radicale sbarramento contro la disgustosa
mentalità di IS. Peraltro, secondo le testimonianze dei/delle combattenti delle
YPG-YPJ, i jihadisti sono convinti che non raggiungeranno lo status di martiri
nel caso in cui siano uccisi per mano di una donna.
Il movimento
delle donne curde, comunque, non combatte la mentalità ultra-patriarcale dei
jihadisti esclusivamente sul terreno militare; è una lotta di più ampio
respiro, un progetto di emancipazione sociale che ha già sfidato e cambiato il
patriarcato in Kurdistan a un livello considerevole. Trasformare la coscienza
di genere della società e fondare la sua libertà su princìpi basilari quali
l’uguaglianza di genere, come dimostrato da tutti gli elementi del movimento [è
quanto sta avvenendo nell’amministrazione di Rojava o in Nord Kurdistan (Est
Turchia) dove le donne curde costituiscono oltre il 60% delle donne sindaco
dell’intera Turchia (oltre l’80% se si contano le co-presidenze), grazie agli
sforzi del movimento per cambiare la società – qualcosa che sta, ancora una
volta, in una contrapposizione siderale con il carattere tribale e
feudale-patriarcale del PDK], è una forma di lotta molto più sostenibile contro
la mentalità di IS. Dopo tutto, IS ha sfruttato il concetto reazionario di
“onore” come controllo sulla sessualità e sul corpo delle donne – già
predominante nella regione – per affermare le proprie pratiche femminicide. Sfidare
lo Stato in quanto prolungamento istituzionale del patriarcato ha contribuito
immensamente alla liberazione delle donne nel Kurdistan. È, questa, l’ideologia
propria delle donne combattenti, che hanno seminato così tanta paura tra le
fila dei jihadisti dello Stato Islamico da portarli a dichiarare guerra alle
donne.
I combattenti
delle forze di difesa curde del Rojava (Kurdistan occidentale / Siria del
nord), che subiscono da due anni l’ostracismo e l’isolamento internazionale, e
i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che sono
etichettati come organizzazione terroristica, hanno dato una lezione di
intervento umanitario alla comunità internazionale. Hanno, inoltre, insegnato
al PDK, i “macho” dello statalismo, cosa significa la vera indipendenza e
autonomia. Il popolo può liberarsi soltanto da sé, e questi ultimi giorni hanno
dimostrato che essere una marionetta dell’ordine globale fondato su Capitale e
Stato-nazione, una strategia del partito di Barzani, porta alla completa
dipendenza e sottomissione, mentre coloro che sono fuori dal sistema dominante
hanno saputo salvare migliaia di vite umane con grande efficienza.
È tempo di
riconsiderare qual è il tipo di libertà che immaginiamo. Credo sia qualcosa di
dovuto nei confronti di tutti gli uomini e le donne che stanno soffrendo in
questo Inferno sulla Terra.
di Dilar Dirik – 23 agosto 2014