Un’altra democrazia
September 05, 2014
Le
comunità curde del Rojava (Siria settentrionale)
e una nuova forma di autogoverno popolare.
Intervista al presidente dell’UIKI Onlus, Ozlem Tanrikulu.
[Anna Lami]
In queste settimane, dopo anni di oblio, la
questione curda è tornata alla ribalta. L’avanzata delle forze IS (stato
islamico) è stata infatti arginata grazie al fondamentale apporto dei
guerriglieri dell’YPG, vicini al PKK turco di Ocalan, i primi ad intervenire in
Iraq per difendere le minoranze yazide e cristiane dalla furia fondamentalista,
mentre l’esercito regolare iracheno e i peshmerga del governo regionale del
Kurdistan iracheno erano in rotta. Nella cosiddetta “zona libera del Rojava”
(Siria settentrionale), dal 2011 le comunità curde sono riuscite a farsi
espressione politica sperimentando un’interessante forma di autogoverno
popolare radicalmente democratico, a-confessionale e aperto a tutte le etnie
che abitano quei territori. Per saperne di più abbiamo intervistato Ozlem
Tanrikulu, presidente dell’ UIKI Onlus (Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia,
http://www.uikionlus.com) (a.l.)
Potete spiegare ai nostri lettori in
cosa consiste il confederalismo democratico nei tre cantoni della zona libera
del Rojava (parità di genere, pluralismo politico, diritti delle minoranze)?
La democrazia del popolo che si è sviluppata
e che, giorno dopo giorno, si consolida sempre di più in Rojava si basa sul
sistema ideologico del “Confederalismo Democratico” annunciato da Abdullah
Öcalan nel 2005. Il paradigma del confederalismo democratico consiste nella
“libertà democratica, ecologica e di genere”. Con il termine “democrazia” qui
non ci si riferisce al sistema parlamentare: la democrazia parlamentare
(rappresentativa) ritiene necessaria la partecipazione popolare solo ogni 4-5
anni e, inoltre, lascia la popolazione alienata, alla mercè delle frange
lobbistiche dei deputati eletti. Questa “democrazia elementare/semplice” si
basa sugli interessi del governo centrale e delle grandi aziende e non è mai
venuta incontro alle reali esigenze della società, in nessuna parte del mondo.
Diversamente, una vera democrazia, altrimenti definibile “democrazia del
popolo”, richiede approcci diversi, molto zelo e tempi lunghi. Uno sforzo in
questa direzione è proprio quello che centinaia di migliaia di persone stanno
facendo da tre anni in Rojava. Naturalmente ciò non è nato dal nulla, ma è il
risultato di una lunga serie di precedenti e di un movimento politico
pluriennale.
Negli anni ’90 la popolazione di svariate
città iniziò a formare assemblee e comitati di autogoverno, limitata però dalla
necessità di agire clandestinamente. Questo sistema conobbe grande diffusione
tra il 2000 e il 2004 come effetto dell’incremento della repressione del
governo, quindi, nel 2011, l’istituzione di qualsiasi attività fu resa più
agevole. Il secondo terreno di esperienza è rappresentato dall’avvio di
assemblee popolari in Kurdistan settentrionale nel 2007, la cui organizzazione
ombrello era il DTK (“Demokratik Toplum Kongresi”, Congresso della Società
Democratica). Nella primavera del 2011 ad Afrin, Aleppo, Kobani, Cizire e
Damasco, ossia in tutti i luoghi abitati da un numero elevato di curdi, ci fu
un breve periodo di fermento, ma la realizzazione concreta del confederalismo
democratico si ebbe solo con il tempo e con l’acquisizione di una maggiore
esperienza. Tale processo è tuttora in corso. Inizialmente venivano convocate
riunioni a partire da realtà come i quartieri o i villaggi in cui si dibatteva
con il popolo sulla formazione del movimento. In breve tempo furono create
assemblee a livello rionale e nei villaggi, i quali spesso si coalizzavano per
formare assemblee uniche di grado più elevato, analogo a quello delle assemblee
dei quartieri delle città. Il passo successivo, corrispondente al secondo
(terzo) gradino del modello piramidale, consiste nell’istituzione delle
assemblee a livello regionale. L'”assemblea regionale” comprende una città e
uno svariato numero di villaggi del suo hinterland. Ad esempio, l’assemblea
popolare di Serêkaniye rappresenta sia le assemblee dei quartieri delle città
che le assemblee dei villaggi situati nelle aree rurali, spesso densamente
popolate. L’organismo più piccolo era rappresentato dall’assemblea del
villaggio delle aree rurali: a causa del fatto che, in proporzione, le
assemblee rionali delle città erano troppo grandi dal punto di vista della
popolazione, si generò un dibattito che portò alla nascita delle “assemblee
della strada”. In un secondo momento sorse un’organizzazione collocabile su un
gradino ancora più basso, che consentiva alle persone di relazionarsi più
agevolmente e di non sentirsi escluse.
Quest’organismo, che si formò nelle città,
venne denominato “comune” (komun in curdo). Se pensate che questo termine sia
un prestito dalle lingue europee, vi sbagliate: in curdo la parola “kom”
significa “società”. In una comune, a seconda dei casi, vi è un numero di
abitazioni variabile da
Un altro organismo altrettanto importante è
costituito dalle Assemblee delle Donne, istituite a livello rionale o cittadino
solitamente da parte del movimento politico delle donne “Yekitiya Star”. Le
donne, nel tempo, si organizzano in maniera più completa e le assemblee delle
comuni/popolari avvertono la necessità di risolvere le questioni riguardanti il
genere femminile insieme alle assemblee delle donne. In base al livello di
organizzazione, i comitati e le assemblee giovanili vengono fondate con il nome
di “Ciwanen Şoreşger” (“Giovani Rivoluzionari”). In ogni assemblea rionale o
delle comuni vi è necessariamente anche un comitato addetto all’economia, che
si occupa dei bisognosi, offrendo sostegno alimentare, risolvendo il problema
della corrente elettrica, organizzando i lavori di distribuzione di beni
all’interno della comune o del quartiere e raccogliendo periodicamente aiuti.
L’assemblea rionale è composta dalle amministrazioni di tutte le comuni della
propria area.
Tutte queste regioni del Rojava e i curdi di
Aleppo (a Damasco e nella altre città della Siria il sistema MGRK non ha potuto
essere creato, poiché con l’inasprirsi della guerra gli organismi esistenti si
sono dissolti), si riuniscono insieme ai delegati da loro eletti nell’Assemblea
del Popolo del Kurdistan Occidentale (MGRK). L’MGRK è stato annunciato
nell’estate del 2011. Nel 2013, con le aggressioni da parte di gruppi armati
contro le tre regioni del Rojava e la conseguente interruzione dei collegamenti,
queste tre regioni (e Aleppo) hanno fondato una propria organizzazione dove
comunque di solito agiscono in maniera piuttosto autonoma. L’MGRK, nel suo
grado più elevato, è rappresentato da due co-presidenti (Abdulselam Ahmed e
Sînem Muhammed) e si avvale di un’amministrazione di 33 membri incaricata di
coordinare le attività ai livelli più alti. Il sistema della co-presidenza
intende garantire una rappresentanza paritaria per genere.
È importante sottolineare che il sistema
descritto non vale solo per i curdi: tutti gli abitanti dei tre cantoni sono
rappresentati, perchè si tratta di un sistema che non si basa sull’appartenenza
etnica, bensì sulla rappresentanza dal basso, e chiunque vive nel territorio ne
fa parte ed è coinvolto. E’ una soluzione che potrebbe essere potenzialmente
risolutiva di molti dei conflitti etnico-religiosi che attualmente
caratterizzano in negativo il Medio oriente così come altre parti del globo.
Si parla molto delle guerrigliere
curde, in primo piano nella lotta contro l’IS. Quando è iniziato il processo
emancipativo delle donne curde? Potete spiegarci qual è il ruolo delle donne
nella cultura curda e nella lotta armata, rispetto a quello che ricoprono nel
resto del mondo mediorientale attualmente?
Il Presidente Abdullah Ocalan ha sempre dato
molta importanza al ruolo delle donne per il cambiamento della società. Anche
su questo terreno è stato fatto un enorme lavoro fin dagli anni ’70, lavoro
iniziato in Kurdistan settentrionale fra l’altro da Sakine Cansiz, e che ha
portato in questi decenni i suoi frutti anche in Rojava. Bisogna premettere che
la donna, nella cultura curda, ha sempre goduto di uno statuto un po’
differente rispetto alle altre comunità; storicamente però ha poi prevalso
l’oppressione, e contro questo sistema il movimento ha lottato strenuamente,
portando le donne ad assumersi direttamente delle responsabilità in esso.
Ecco perché la forte presenza e il ruolo
delle donne anche nella difesa della popolazione (solo uno fra le attività che
coinvolgono le donne) non giunge inatteso, e può stupire solo chi non conosce
il movimento curdo. Le donne si sono organizzate autonomamente sia nelle forze
di difesa sia nei restanti settori della società. Lo vivono sia come un dovere
patriottico ma anche come un modo per emanciparsi dal retaggio feudale che le
vorrebbe a casa a occuparsi della famiglia e basta.
Le donne sono rappresentate in misura almeno
del 40% nei consigli e nelle comuni, oltre ad essere parte attiva di centinaia
di associazioni e organizzazioni della società civile. Ricordo quindi il già
citato sistema co-presidenziale. Questo naturalmente fa ancora paura e c’è
ancora molto da fare per il raggiungimento di una piena liberazione delle
donne. Ma l’esempio pratico vale molto più di tante teorie: oggi ci sono anche donne
ad istruire i combattenti peshmerga del Kurdistan regionale (ndr. iracheno)
sulle tecniche da utilizzare al meglio contro IS, e perfino gli anziani yezidi
chiedono che siano loro a comandare le unità di difesa congiunte perché
sostengono che siano molto più affidabili. (nt. I “Pesmerga” sono le forze
armate del governo regionale del Kurdistan; invece i “guerriglieri” sono le
forze armate popolari).
Si sta verificando una situazione
paradossale, che vede da un lato il PKK protagonista assoluto della lotta
contro IS, dall’altro l’organizzazione è tuttora inserita nelle liste
antiterrorismo di Usa e Ue. Qual è la vostra opinione in proposito?
E’ bene ribadire che le forze di difesa del
PKK, insieme alle forze delle YPG e delle YPJ che combattono contro IS da due
anni e mezzo, hanno respinto con successo gli attacchi di IS per proteggere la
popolazione civile minacciata di morte dai criminali jihadisti che stavano
operando e tutt’ora operano massacri indiscriminati. In primo luogo dunque stiamo
parlando di un impegno per fermare crimini contro l’umanità che rischiavano di
continuare impuniti. Il mondo ha potuto e può vedere la forza organizzativa
delle HPG e delle YPG: mentre i peshmerga abbandonavano la popolazione yezida
al suo destino, quest’ultime hanno dato prova di capacità notevoli e di
rapidità di risposta nonostante fossero equipaggiate con armamenti più leggeri
rispetto a quelli in possesso dell’IS.
Unitamente al percorso negoziale in corso
attualmente in Turchia con il Presidente Ocalan, l’importanza delle HPG e delle
YPG nel contrastare l’IS dovrebbe spingere a riconoscere il PKK come
interlocutore ed a toglierlo senza ulteriori indugi dalla lista delle
organizzazioni terroristiche. La pace si può fare, dialogando con l’interlocutore
su un piano di parità. L’evidente sostegno popolare a questo processo è ormai
venuto alla luce. Per questo è stata promossa una campagna che finirà entro il
9 dicembre (invitiamo tutti a firmare l’appello)
Gli Stati Uniti ed altri stati
occidentali stanno dando armi al governo di Baghdad ed al Governo regionale
kurdo. Negli Usa c’è già chi parla di una nuova coalizione di volenterosi per
intervenire anche in Siria. Come valutate l’intervento delle potenze
occidentali nell’attuale crisi?
Piuttosto che aumentare le armi in
circolazione nella regione, o decidere interventi armati esterni che finiscono
per rafforzare alcune parti a scapito di altre, si dovrebbe ricercare una
soluzione politica stabile che finalmente consenta ai popoli del Medio Oriente
di vivere in pace insieme, nella diversità. Certo, fino a quando perdurerà l’
attuale situazione è evidente la sproporzione di forze sul campo: le forze
congiunte curde combattono con kalashnikov e altre armi leggere, mentre IS ha
armi pesanti, grazie all’appoggio che gli hanno fornito Arabia Saudita, Qatar,
Turchia e altri paesi. Quindi se si mandano armi allora bisognerebbe
distribuirle a tutte le forze che stanno combattendo e fronteggiando IS. Il
ruolo delle potenze occidentali sembra essere la ripetizione degli interventi
neocoloniali: fino a quando si continuerà a destabilizzare la regione per i
propri interessi, i popoli del Medio Oriente ne subiranno le conseguenze.
Andrebbero piuttosto sostenuti anche con un riconoscimento ufficiale gli
esperimenti di autogoverno democratico come in Rojava, che come si diceva prima
potrebbero rappresentare una soluzione durevole per la convivenza democratica
nell’intera regione.
di Anna Lami
megachip.globalist.it
(5 settembre 2014)