Ankara pensa a
una buffer zone lungo i suoi confini con la Siria e l’Iraq per difendersi dai
jihadisti dell’Isil che un tempo servivano per sconfiggere il nemico al-Asad.
Gli Usa hanno cominciato
l’estensione dei bombardamenti a sud di Baghdad
mentre continuano le mattanze in Siria (255 vittime solo ieri). Intanto, dal
Golan siriano quasi interamente occupato dai ribelli siriani e qaedisti,
scappano i soldati dell’Onu
di Roberto Prinzi
Roma, 16 settembre 2014, Nena News – L’esercito
turco sta pensando di stabilire una buffer zone lungo i suoi confini con la
Siria e l’Iraq a causa delle minacce poste dallo Stato Islamico d’Iraq e Siria
(Isis) al suo territorio. A renderlo noto è stato oggi il Presidente turco
Recep Tayyip Erdogan.“Le forze armate turche stanno preparando il
piano. Una volta presentato, noi decideremo se sarà necessario [attuarlo, ndr]”
ha detto Erdogan citato dal quotidiano Hurriyet. Una paura dei fondamentalisti,
quella turca, un po’ tardiva. Sin dall’inizio della guerra civile
siriana, Ankara
ha aperto i suoi confini permettendo l’accesso in Siria di centinaia di
jihadisti stranieri. Ma allora i combattenti non rappresentavano una minaccia
ma erano un’opportunità per Erdogan per sbarazzarsi del nemico al-Asad.
Nei tre anni e mezzo di guerra civile Damasco
ha ripetutamente accusato la Turchia di finanziare, addestrare e armare i
miliziani “terroristi” mandando persino lettere alle Nazioni Uniti per
denunciare il ruolo “distruttivo” che stava svolgendo la Turchia nel conflitto siriano.
In una lettera del 2013 inviata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e al
Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, il Ministro degli Esteri siriano
Walid al-Muallim scriveva: “la Turchia supporta e giustifica pubblicamente i
terroristi e le azioni disastrose contro la Siria trasformando il suo
territorio in campi per ospitare, addestrare, finanziare e infiltrare gruppi
armati terroristici, tra cui il qaedista Fronte an-Nusra”. Protesta simile fu
ripetuta nel 2014 dal rappresentante siriano alle Nazioni Uniti, Bashar
al-Jafaari. Ankara
ha sempre negato queste accuse.
Recentemente la Turchia ha assunto una
posizione molto prudente circa la “coalizione dei volenterosi” promossa e
allestita dal Presidente statunitense Barack Obama in questi giorni. Ankara
è riluttante a prendere parte attiva ai bombardamenti in Iraq e in Siria, così
come a concedere alle forze internazionali l’utilizzo delle sue basi aeree per
compiere i raid sulle aeree occupate dallo Stato Islamico.
L’organizzazione fondamentalista ha 49
ostaggi turchi rapiti durante l’occupazione del
consolato di Ankara a Mosul
lo scorso giugno. Tra i prigionieri vi sono il console
generale, soldati delle forze speciali, diplomatici e bambini. La Turchia,
almeno a parole, teme per il destino dei suoi cittadini e pertanto cerca di non
esporsi in una guerra frontale contro lo Stato Islamico. Un importante
ufficiale turco ha dichiarato all’AFP la scorsa settimana: “le nostre mani e
braccia sono legate a causa degli ostaggi”. Anche Erdogan ha detto che il suo
Paese vuole risolvere la crisi degli ostaggi attraverso “contatti” confermando
che il ruolo che svolgerà Ankara nella coalizione contro l’Isis sarà solo
umanitario. Quello, però, che principalmente teme la Turchia (così come
i Paesi del Golfo e in primis l’Arabia Saudita) sono
le ripercussioni jihadiste sul suo territorio. Non sono pochi i
militanti dello Stato Islamico che considerano il governo islamista turco
“secolare” e “traditore” perché ormai non più schierato nettamente con
l’organizzazione fondamentalista.
Il neo presidente Erdogan si dice però pronto
ad ospitare i leader della Fratellanza Musulmana costretti a lasciare il Qatar. “Se ci
chiedono di venire da noi – ha detto ai giornalisti i ritorno da una visita
ufficiale in Qatar – noi accoglieremo la loro richiesta”. Un membro della
Fratellanza musulmana aveva infatti dichiarato sabato che alcuni esponenti
dell’organizzazione islamista dovevano lasciare entro una settimana il piccolo
emirato a causa delle pressioni fatte su Doha
dagli altri paesi arabi del Golfo infastiditi dal sostegno dell’emiro Tamim bin
Hamad al-Thani ai Fratelli musulmani.
Intanto in Iraq e Siria continuano le
violenze. Il Comando Centrale Usa
ha detto ieri che i caccia americani hanno bombardato per la prima volta una
postazione dell’Isis nell’area a sud ovest di Baghdad
dando così il via all’espansione dei bombardamenti aerei (finora in totale 162)
promessa dal Presidente Usa
Obama la scorsa settimana nel tentativo (dichiarato) di sconfiggere
l’organizzazione terroristica. Sui raid promessi (ed in parte iniziati) dagli
americani, è intervenuto anche l’Onu. Parlando al Consiglio dei Diritti umani,
il presidente della Commissione d’Inchiesta Onu sui crimini di guerra Paulo
Pinheiro ha invitato “tutte le parti ad attenersi alle leggi di guerra e, in
particolare, ai principi di proporzionalità”. “Seri sforzi devono
essere fatti – ha aggiunto Pinheiro – per preservare la vita dei civili”. Una
richiesta fuori luogo e che sa di beffa per chi, come i civili iracheni sunniti
delle aree occupate dall’Isil, ha visto morire i propri cari nei bombardamenti
in corso del
governo iracheno sponsorizzato dagli occidentali.
Ma se allarmante è la situazione in Iraq, è
difficile trovare una parola dalle tinte ancora più cupe quando si parla di Siria.
Nella città siriana di Raqqa, saldamente in mano all’Isil, i
combattenti jihadisti hanno dichiarato stamane di aver fatto cadere un jet
militare siriano. Una foto postata sull’ account del gruppo fondamentalista sembrerebbe
confermare la notizia. Si tratterebbe del
secondo aereo dell’aviazione siriana abbattuto da forze ribelle dall’inizio
della guerra civile siriana.
I combattimenti nel Paese continuano senza
sosta e così, contemporaneamente, sale il bilancio inarrestabile delle vittime
Scontri ovunque: a sud a Quneitra nel Golan, così come ad Aleppo a nord, ad est a Deir Ezzor. Ieri
si sono contate 255 vittime (77 tra le file del regime e tra i gruppi armati che lo
sostengono). Secondo l’osservatorio siriano dei diritti umani soltanto ad
agosto sono morte in Siria 8.000 persone. Una mattanza indescrivibile
e per cui nessun leader occidentale si è indignato. Perché bisogna “augurarsi”
solo che rotoli al più presto una testa decapitata di un occidentale in un
video prima che qualcuno in Occidente possa aprire gli occhi e accorgersi dei
massacri in corso in Siria e Iraq
da tempo.
Situazione calda anche a sud. Centinaia di
soldati dell’Onu si sono ritirati dal lato siriano delle Alture del Golan per
entrare in quello israeliano (territorio annesso da Israele nel
1981 ma non riconosciuto dalla comunità internazionale). I gruppi
armati ribelli siriani pongono una “minaccia diretta alla sicurezza e alla
salvezza delle Forze di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite
[UNDOF, ndr]” ha detto il portavoce Stephane Dujarric. Alla fine di
agosto i ribelli siriani, tra cui i qaedisti di an-Nusra, avevano occupato il
valico di Quneitra e rapito più di 40 militari Onu delle Fiji. Li hanno
rilasciati soltanto pochi giorni fa, sembrerebbe grazie alla mediazione (si
legga milioni di dollari) del Qatar. L’UNDOF
monitorava il cessate il fuoco del
1974 tra la Siria e Israele sulle Alture del Golan. Golan, che per l’80% è
ormai occupato dai ribelli siriani dove, a farla da padrone, sono i qaedisti di
an-Nusra. Nena News