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LO STATO ISLAMICO VISTO DA VICINO

Pubblicato in: LE MASCHERE DEL CALIFFO - n°9 - 2014

Origini e struttura delcaliffato’ a cavallo di Siria e Iraq, ormai capace di autofinanziarsi.
Un peculiare sistema di welfare offre servizi e relativa sicurezza in cambio della sottomissione al rigorismo religioso. Che fare?

di Alberto NEGRI

Redazione Limes

1. ERA IL 2 GIUGNO 2014 QUANDO VENNE avvistata per la prima volta la bandiera nera dell’Isil sulla via del ritorno a Damasco da Ma‘lūlā, la città cristiana distrutta dalle milizie islamiche sunnite e liberata dagli izbullāh, il movimento sciita libanese alleato del regime di Baššār al-Asad. «Quello è Dā‘iš, ossia al-Dawla al-Islāmiyya Iraq wa al-Šām, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che voi chiamate Isil», disse il generale siriano Suhayl puntando il binocolo verso l’estrema periferia di Dūma, uno dei sobborghi della capitale, roccaforte dei ribelli già all’inizio della rivolta contro al-Asad. «Avevamo avviato trattative con alcuni gruppi jihadisti per un cessate-il-fuoco ad arastā ma l’Isil», aggiunse il generale, «ha bloccato il negoziato attaccando i militanti di Ğabhat al-Nura che fino a qualche tempo fa erano i più forti in questa area».

Qualche giorno dopo a Damasco un rappresentante della compagnia petrolifera statale Fūrqan confermava una voce in circolazione da qualche settimana: erano in corso negoziati con i ribelli islamisti di Dayr al-Zawr per avviare una corretta manutenzione dei pozzi petroliferi passati sotto il controllo dell’Isil. I jihadisti erano diventati petrolieri ed esportavano sul mercato iracheno.

Della ricchezza dell’Isil, nel frattempo ridenominato Stato Islamico (Is), si è molto favoleggiato. Come si mantiene il «califfato» e che possibilità ha di consolidarsi? A questa domanda ha provato a rispondere il giornalista palestinese Mīdān Dayriyya che per tre settimane ha girato in Siria un documentario vivendo con i jihadisti dello Stato Islamico. «Forse la sequenza nel mio film che colpisce di più è quando uno di loro, che si fa chiamare il Belga, chiede al figlio di dieci anni cosa preferisce tra il jihād e un attentato suicida. “La Guerra Santa contro gli americani e gli infedeli”, risponde il bambino. Il califfato è questo: punta sulle future generazioni, è l’investimento forse meno visibile sui campi di battaglia ma il più preoccupante». L’Is ha tentato di creare un nuovo Afghanistan talibano che dal cuore del bacino della Mesopotamia lambisce le coste del Mediterraneo, costituendo già una mini-potenza economica. La sua brutalità è ormai leggendaria come quella della sètta medioevale degli ašīšiyyūn, gli «assassini» di Alamut. Decapitazioni e crocifissioni servono a spingere intere città ad arrendersi senza combattere. Eppure c’è un livello di sofisticazione senza precedenti in un movimento jihadista, come dimostra la brochure online denominata «Stato di Aleppo», «Wilāyat alab», una pubblicazione a metà tra il manifesto ideologico e un survey dedicato alla raccolta di investimenti. Densa di infografica e di foto di vita sociale, campi di grano, ragazzi sorridenti, non menziona le usuali atrocità ma fa un bilancio dell’attività del «califfato» nella zona: si descrivono i tribunali islamici, i servizi di base, la distribuzione di cibo e acqua, le 20 scuole dedicate alla šarī‘a la legge islamica – con oltre 2.500 alunni. Insomma, si dà conto di come vengano bene impiegati i denari dei contributi versati allo Stato Islamico a favore di una popolazione (si afferma) di 1,2 milioni di persone. Contribuite, sono soldi ben spesi, è il messaggio.

Il network internazionale che sfrutta il Web è secondo Dayriyya la fonte più importante di propaganda: dalla Rete affluiscono le donazioni del mondo arabomusulmano e dei simpatizzanti che vivono in Occidente.

Il «califfato», secondo gli americani, è dotato di enormi risorse finanziarie: «Sono la più ricca organizzazione di jihadisti di sempre», ha sentenziato il Washington Institute nel giorno in cui si è scoperto che l’Is aveva messo le mani su 425 milioni di dollari custoditi nella filiale della Banca centrale di Mosul. Ma in agosto alāl Ibrāhīm, direttore dell’Union Bank of Iraq, ha dichiarato che neppure un centesimo sarebbe uscito dalla filiale fino a che i jihadisti avessero continuato a distribuire i salari ai dipendenti pubblici.

Gli unici dati certi provengono da un colpo di fortuna messo a segno due giorni prima della caduta di Mosul, quando è stato arrestato un corriere del «califfato», Abū ağar, al quale sono state sequestrate 160 chiavette con la contabilità e informazioni dettagliate sui militanti. Da questo materiale emerge che lo Stato Islamico dispone di 875 milioni di dollari in contanti e asset vari. A differenza di altri gruppi islamici rivali che combattono in Siria – come Ğabhat al-Nura, sostenuta apertamente da Arabia Saudita, Qatar e monarchie del Golfo – il «califfato» non dipende per la sua sopravvivenza dall’estero. I soldi da fuori arrivano ma non sono vitali. Insomma si autofinanzia. Oltre a praticare saccheggi, riscossione di tasse rivoluzionarie, estorsioni e rapimenti soprattutto ai danni delle minoranze non musulmane, il «califfato» ha organizzato una raccolta di denaro che può essere paragonata al pagamento delle tasse: a Raqqa, per esempio, si paga una zakāt (tassa religiosa) del 10% sui redditi, una pressione fiscale vantaggiosa rispetto alla media locale.

Cosa fosse l’Is fino a qualche mese fa non era ancora ben chiaro (e forse non lo è neppure oggi). Non si era d’accordo neppure su come chiamarlo. Il 14 maggio il dipartimento di Stato aveva annunciato che lo avrebbe denominato ufficialmente nei suoi documenti «Isil» mentre sui media si trovava anche l’acronimo «Isis» (dove la S sta per Šām, la Grande Siria). «Sono separatisti di al- ā‘ida, nemici nostri e degli altri jihadisti», sentenziò il generale Suhayl. «Per ora non ci stanno attaccando, forse per cominciare aspettano soldi e armi», aggiunse con una smorfia definitiva con cui intendeva chiudere la questione. Tre settimane dopo, il 29 giugno, con la caduta di Mosul avvenuta il 10, Abū Bakr al- Baġdādī proclamò il «califfato» e battezzò la nuova denominazione: Stato Islamico (Is). Chi si fosse ostinato a chiamare il gruppo Dā‘iš sarebbe stato frustato sulla pubblica piazza.


2. Dal punto di vista militare un dato era però evidente: l’Isil da tempo aveva fatto della Siria e dell’Iraq un unico campo di battaglia. Nel gennaio 2014 l’Isil, sconfiggendo i rivali di Ğabhat al-Nura, controllava in Siria Raqqa, città di oltre 200 mila abitanti, 160 chilometri a est di Aleppo, nell’ottavo secolo capitale del califfo abbaside Hārūn al-Rašīd, ispiratore delle Mille e una notte, mentre in Iraq si era impadronito di vaste porzioni delle province di al- Anbār e di Ramādī, oltre che della città di Falluğa, a 70 chilometri da Baghdad, emarginando le tribù sunnite ostili ad al-Qā‘ida.

In giugno, mentre il generale Suhayl scrutava spazientito e preoccupato l’orizzonte di Dūmā alla periferia di Damasco, l’Isil aveva fatto sfilare a Raqqa, con una parata spettacolare e rumorosa, carri armati e Humvee americani catturati in territorio iracheno. Una dimostrazione di forza accompagnata da attività di proselitismo e di governo per rafforzare il controllo sulla popolazione. A Raqqa e nella periferia di Aleppo l’Isil aveva organizzato la Dawa, letteralmente «la Chiamata», sessioni pubbliche per la recitazione del Corano e sermoni religiosi, ma anche distribuzioni di cibo e bevande alla popolazione. Erano stati insediati gli istituti per la šarī‘a, la legge coranica: 22 soltanto nella provincia di Aleppo. E per renderne ancora più efficace l’applicazione, oltre a punizioni corporali e sommarie esecuzioni, l’Isil aveva inaugurato le ronde della polizia religiosa, al-isba, con il compito di «promuovere la virtù e prevenire il vizio», contrastando ogni possibile manifestazione di disobbedienza. «Lo hiğāb è un obbligo come la preghiera» veniva scritto sui muri delle scuole femminili, rigorosamente separate da quelle maschili.

Cose del resto già viste altrove, in Afghanistan, in alcuni periodi in Iran, in Yemen, in Somalia, e all’ordine del giorno in Arabia Saudita dove mentre si condannava lo Stato Islamico e la barbara uccisione del reporter americano James Foley venivano eseguite nel mese di agosto 19 condanne a morte per decapitazione, secondo quanto riportato dal giornale degli Emirati Gulf News.

Ognuno ha i suoi orrori quotidiani, ma alcuni vengono sistematicamente ignorati: forse perché l’Arabia Saudita è un alleato di ferro da oltre sessant’anni degli Usa? L’Is potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è una delle cause che portano all’ascesa del jihadismo.

Conoscendo perfettamente il quadro sconsolante della condizione mediorientale, l’Is non ha mai trascurato l’aspetto propagandistico, utilizzando i video postati su Internet. In uno di questi, intitolato La migliore Umma – la comunità musulmana ideale – vengono mostrati tutti gli obblighi cui devono sottostare i musulmani devoti, compresa la partecipazione alla demolizione di monumenti «politeisti», chiese cristiane comprese, talvolta risparmiate soltanto per diventare immediatamente istituti della šarī‘a.

L’altra priorità dell’Is, oltre alla propaganda religiosa, è insediare nei territori occupati le corti islamiche, come avevano del resto già fatto altri gruppi jihadisti quali Ğabhat al-Nura. Le corti sono anche un mezzo di propaganda: l’obiettivo è rassicurare la popolazione riportando l’ordine in zone sprofondate nel caos. Senza però dimenticare di accompagnare le sentenze con l’applicazione dell’udūd, dall’amputazione degli arti alla fustigazione. Questo apparato rivela che l’Is ha una strategia di lungo termine per governare il territorio siriano. Le risorse e la retorica dedicate al sistema educativo suggeriscono che l’obiettivo è quello di addestrare ed educare la prossima generazione di cittadini del «califfato». Lo Stato Islamico, per quanto noi possiamo ritenere il contrario, non si considera un’organizzazione terroristica ma uno Stato sovrano che pensa al benessere morale e materiale dei suoi cittadini.

Un messaggio che non ha mancato di attirare, insieme ai successi militari, l’adesione di una parte della popolazione sunnita. Il reclutamento di nuovi militanti è affidato a uffici dedicati aperti ad Aleppo, Raqqa, al confine turco, dove vengono accolti gli aspiranti combattenti dall’estero. I centri di reclutamento e addestramento non vengono nascosti ma pubblicizzati, come quello denominato «Club Zarqāwī» a Ġūa, a est di Damasco, bersaglio degli attacchi chimici del regime di al-Asad nel 2013.

Il nome di Zarqāwī ricompare in Siria ma ci porta in Iraq, la casa madre dell’Is. In agosto entro a Mamūr, mezz’ora d’auto da Arbīl, appena dopo l’offensiva dei jihadisti nel Kurdistan iracheno. La città, meno di ventimila abitanti, è deserta, i segni dei combattimenti quasi trascurabili: prova evidente che i peshmerga erano stati colti di sorpresa dall’avanzata dell’Is e avevano abbandonato le postazioni quasi senza combattere. E senza combattere se ne sono andate pure le milizie dell’Is, impegnate dai bombardamenti aerei americani e dalla controffensiva dei peshmerga sul fronte della diga di Mosul. Ma per l’Is il Kurdistan è un diversivo, una regione dove cacciare le minoranze cristiane e yazide della regione di Mosul (carta 1).

Muammad āli, giornalista di Arbīl che scrive per al-Monitor e Foreign Policy, espone le strategie del «califfato»: «Nell’Isil, che ora si fa chiamare soltanto Is, Stato Islamico, ci sono molti stranieri: in Siria ne sono entrati oltre 12 mila dall’inizio della rivolta contro Baššār al-Asad. Alcuni erano già venuti qui dieci anni fa, attirati dalla guerra agli americani e da al-Zarqāwī». Non è un caso che si trovino capi militari ceceni, tunisini, libici. C’è anche una sorta di divisione del lavoro: i leader locali siriani e iracheni sono i rappresentanti sul territorio del «califfa­to», mentre settori come la propaganda religiosa, il reclutamento e la produzione mediatica sono stati lasciati a jihadisti stranieri.

Abū Mu‘ab al-Zarqāwī, che si proclamò emiro di al-Qā‘ida in Iraq, spiega āli, è il vero ispiratore del «califfo» Ibrāhīm, Abū Bakr al-Baġdādī. «Giordano di origini palestinesi, era un reduce dell’Afghanistan che rivaleggiava con bin Laden. Il suo obiettivo era scatenare una guerra civile settaria su larga scala e creare un califfato sunnita». Al-Zarqāwī venne ucciso dagli americani nel 2006. Al-Baġdādī ha ereditato la sua idea quando nel 2013 ha trasformato al- Qā‘ida in Iraq in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil)».

IbrāhīmAwa al-Qaršī, il vero nome di al-Baġdādī, nato a Sāmarrā’ nel 1971, si vanta di essere un imam con dotti studi coranici sufi e un’origine che affonda secondo lui nella tribù di Maometto. Ma nel suo oscuro percorso di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 in maniera inspiegabile: l’anno dopo era il capo locale di al-Qā‘ida.

Il «califfato» è stato presentato spesso come una legione straniera islamica. «È una visione parziale», dice āli. «Le stime parlano di 20 mila uomini armati, insufficienti a prendere città come Mosul, minacciare il Kurdistan, puntare verso Baghdad e stringere d’assedio Aleppo in Siria, spianando la strada ad altre conquiste, tra pulizie etniche, religiose e atrocità. In due settimane il «califfato» tra giugno e luglio ha aperto cinque fronti: contro l’esercito iracheno, i peshmerga curdi, il regime di al-Asad, l’opposizione islamica rivale e l’esercito libanese. Un raggio d’azione troppo vasto per poche migliaia di jihadisti». Il «califfato» ha messo a segno successi militari ma anche un risultato politico concreto, spiega āli: «Lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo, ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baatisti degli ex di Saddam Hussein che avevano con i jihadisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere il primo ministro sciita Nūrī al-Mālikī. Cosa che gli è riuscita mettendo pressione sul governo di Baghdad e i suoi alleati, dagli Usa all’Iran. Senza questa azione devastante Haider al-Abadī oggi non sarebbe premier: con al-Mālikī si rischiava un colpo di Stato e una guerra anche all’interno degli sciiti».

Abū Bakr al-Baġdādī ha sfruttato il caos iracheno, come aveva già fatto prima saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere cause della rivolta sunnita sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Baghdad, una formidabile propaganda per l’Is nelle province sunnite di al-Anbār, Ramādī, Falluğa.

Sfugge a volte la dimensione globale di alcune situazioni locali: era stato proprio in queste zone che il generale Petraeus aveva avuto successo nel 2007 con la sua strategia di controinsurrezione, collaborando con le tribù sunnite locali che mal sopportavano l’estremismo di al-Qā‘ida. Al-Mālikī, con il suo radicalismo settario, ha sgretolato il lavoro di Petraeus e aperto la via al «califfato». Un vizio che al-Mālikī non si è tolto neppure con la controffensiva delle forze irachene e dei peshmerga appoggiati dall’aviazione americana.

Dopo la rottura dell’assedio di al- Amirlī, città turcomanna sciita, al-Mālikī è comparso in tv fiancheggiato da Hādī al-‘Āmirī, capo delle brigate Badr fondate in Iran negli anni Ottanta durante la guerra contro Saddam. «Questa è una nuova Karbalā », ha proclamato il premier uscente tracciando un parallelo provocatorio tra al-Amirlī e la battaglia del 680 che segnò lo scisma tra sciiti e sunniti. Naturalmente non ha citato il contributo alla vittoria dato dai peshmerga curdi e dai caccia Usa, rafforzando l’impressione di quanto sia difficile colmare il divario religioso e settario che rappresenta la vera metastasi dell’Iraq.


3. Se è vero che l’Is ha dimostrato un’efficacia quasi sospetta nelle tattiche della guerriglia, la conoscenza del terreno gli deriva dal sostegno di alcuni clan sunniti. Altrimenti non sarebbero caduti come un castello di carte in Iraq una città di due milioni di abitanti come Mosul, e in Siria un centro come Raqqa, insieme alla provincia di Dayr al-Zawr con i suoi pozzi di petrolio e le basi militari. Anche gli ex baatisti hanno dato una mano: lo dimostra il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui è riafforato alle cronache il braccio destro di Saddam,Izzat Ibrāhīm al-Dūrī, da un decennio imprendibile latitante tra Siria e Iraq.

«Agli occhi dei sunniti, almeno di alcuni sunniti, il califfato rappresenta una chance imperdibile per tornare sulla scena da padroni», dice āli. Secondo una mappa del gruppo di vertice dell’Is stilata dal ricercatore iracheno Hišām al-Hašimī, al-Baġdādī ha 25 rappresentanti tra Siria e Iraq, circa un terzo dei quali erano ufficiali nelle Forze armate di Saddam Hussein o della Guardia repubblicana prima che il proconsole americano Paul Bremer a Baghdad decidesse nel 2003 di scioglierle – uno degli errori più gravi commessi dagli Stati Uniti in Iraq: quasi tutti gli ex ufficiali durante l’occupazione furono messi in carcere, dove ebbero modo di cominciare a collaborare con qaidisti e altri jihadisti. Questi uomini con esperienza militare si sono rivelati assai utili all’Is anche per i loro estesi legami tribali e la conoscenza del territorio.

Al-Qā‘ida, che in Iraq si era già strutturata negli anni come uno Stato nello Stato, riscuotendo la tassa rivoluzionaria, praticando estorsioni e sequestri, ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti, una minoranza che sotto Saddam deteneva tutto il potere nelle Forze armate e nell’intelligence. Da un giorno all’altro con l’occupazione americana i sunniti sono stati trattati come paria. L’Is ha saputo sfruttare il profondo malcontento sunnita. Mentre in Siria sono state fondamentali le tribù beduine orientali, divise artificialmente dai confini coloniali, che hanno molto in comune con i sunniti iracheni. Questo è il piano di al- Baġdādī: con la fusione tra sunniti di due nazioni frantumate si colma il divario demografico in Iraq e si costruisce il «califfato».


4. «Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Mamūr il generale dei peshmerga Sa‘dī per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti sono rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente che si sta inabissando. E anche un breve sguardo al passato ci può aiutare a comprendere: magari non può suggerire al presente soluzioni geopolitiche ma racconta una storia da conoscere.

La vicenda dell’Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso, tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già dalla prima fase post-ottomana erano comparsi sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa, delle quali l’ultima, con effetti dirompenti, si è avuta nel 2011.

Ci fu un tempo in cui l’idea del «califfato» sembrò una buona soluzione geopolitica anche all’Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell’Is può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro britannico delle Colonie, Winston Churchill: con l’espediente dei «califfati» e degli sceicchi mise a capo degli Stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Hussein, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania. Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi Stati succubi dell’Occidente, che oggi si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticati dallo Stato Islamico di Abū Bakr al- Baġdādī sono adesso funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo «califfato».

È evidente che niente può giustificare i massacri e le esecuzioni dell’Is. Ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono maggioranza in una Siria dominata per quarant’anni dal clan degli alauiti di al-Asad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddam Hussein è stata fino a un decennio fa al potere nelle Forze armate e nell’amministrazione. Sia la Siria che l’Iraq oggi sono ex Stati, presenti solo sulla mappa geografica. Nessuno né in Occidente né in Medio Oriente, a parte l’Is, ha un piano geopolitico alternativo al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale.

Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione del Medio Oriente. Gli europei, che hanno assistito senza fare nulla di positivo alla disintegrazione della Jugoslavia e ora appaiono angosciati e impotenti di fronte alla guerra in Ucraina, sono in materia degli esperti.

In Siria, per mantenere in vita lo Stato si deve trattare con il regime alauita: continuare a ripetere che Baššār al-Asad deve andarsene, come fanno americani, europei, arabi e turchi, non serve e non è servito a nulla. Il crollo secco del regime, come avvenuto in Iraq e in Libia, trascinerebbe il paese in un’anarchia ancora più profonda, facendo soltanto il gioco del «califfato».

In Iraq l’unica via è quella di riportare i sunniti al governo e dentro le stanze del potere. E insieme rifare l’esercito con ufficiali sunniti nei posti di comando, per evitare che intere divisioni si sciolgano come gelati al sole senza combattere davanti all’avanzata di alcune centinaia di miliziani. La soluzione di armare i peshmerga è utile soltanto a tamponare la situazione: i curdi possono difendere il loro territorio ma non imporre l’ordine nel resto dell’Iraq. Sono una minoranza non troppo popolare e per di più non araba.

La soluzione geopolitica, necessaria per rendere efficace anche quella militare, richiede l’impegno delle potenze straniere che stanno combattendo da diversi anni una guerra per procura in Siria e in Iraq. Gli arabi hanno visto nello Stato Islamico una buona carta da giocare per contrastare, con il beneplacito occidentale e della Turchia, l’influenza iraniana in Iraq, Siria, Libano.

Anche per questo il «califfato» si affronta soltanto agendo sui due fronti, siriano e iracheno, con una coalizione regionale sostenuta dall’Occidente, naturalmente se gli attori locali riusciranno a mettere da parte le rivalità e gli interessi che hanno fatto esplodere il Medio Oriente.

Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria. L’Iran e gli izbullāh libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Baghdad. L’Iran, che sta negoziando sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nūrī al-Mālikī. La Turchia deve bloccare il passaggio dei jihadisti alle sue frontiere e le monarchie del Golfo devono prosciugare i fondi elargiti ai movimenti radicali: mentre il «califfato» oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno concorrenza per foraggiare i loro protetti.

La nascita del «califfato» tra Iraq e Siria non è esattamente una buona notizia per queste monarchie assolute, che l’Occidente si ostina ad appoggiare rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti. Come non era per loro una buona notizia l’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto. Non a caso Riyad sostiene a mani piene (di dollari) il generale al-Sīsī. Se si fa un colpo di Stato popolare in Egitto per far fuori Mursī, eletto dalle urne, si può anche combattere un «califfo» che non ha votato nessuno. In questo senso va letto il recente riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, le due potenze del Golfo.

Ma c’è anche l’altra soluzione. Lasciare che il «califfato» faccia il suo corso, annientando le minoranze religiose, sfidando l’Occidente e i regimi avversari, al fine di frantumare la regione. Adesso ci appare una soluzione orribile, ma siamo sicuri che questa alternativa qualche mese fa non sia stata accarezzata in più di qualche cancelleria?

Un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 – il «califfato» era già in piena azione – prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni Stati arabi in unità più piccole (carta 2). L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti, mentre in Medio Oriente nascevano congetture su un nuovo piano dell’Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli Stati arabi in entità più piccole e più deboli. Congetture? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno.