October 15, 2014
In una recente intervista dal
fronte realizzata dalla reporter australiana Tara Brown, una donna combattente
curda delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) ha dichiarato che lo
Stato Islamico è un nemico dell’umanità. Per lei e per le
donne della sua brigata Kobane è il confine globale che separa la
civiltà dalla barbarie.
C’è qualcosa di
spiazzante in queste parole perché sono le stesse che, soprattutto dopo
l’11 settembre 2001, hanno preteso di giustificare una guerra combattuta
senza frontiere, dall’Afghanistan all’Iraq alle periferie delle
città americane ed europee, in nome della «duratura
libertà» di un Occidente minacciato dal terrorismo globale.
Ma è altrettanto
spiazzante il radicale cambiamento di prospettiva che impongono il contesto e
la posizione di chi parla: se ci muoviamo dalle stanze blindate del Pentagono a
una terra di passaggio in Medioriente non abbiamo più davanti un
manipolo di uomini che pretende di guidare una guerra giusta per la libertà
– anche quella delle donne oppresse dall’integralismo talebano
–, ma donne protette soltanto da sottili muri di pietra e dalle proprie
armi che combattono per liberare se stesse. Quest’osservazione,
però, non basta a quietare il senso di spiazzamento.
È davvero sufficiente che
sia una donna a pronunciare quelle parole per cambiare il loro significato, per
rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione e per
trasformarlo in una canzone per la libertà? Il fatto che siano le donne
a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che
abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense
dell’Afghanistan, a farci riconoscere le ragioni della guerra?
Le fila delle Unità di
protezione del popolo contano 45mila unità, il 35% sono donne. Quasi
16mila guerriere contraddicono praticamente ogni legame sostanziale tra il
sesso, la guerra o la pace. Si tratta, per la maggior parte, di curde siriane,
ma ogni giorno nuove combattenti provenienti dalla Turchia e dalla Siria, non
soltanto curde, si uniscono alle YPJ. Un detonatore per questa ondata di
reclutamenti è stata la presa del Sinjar da parte dello Stato islamico,
lo scorso 3 agosto.
Migliaia di donne curde yezidi
sono state catturate. Quelle che non sono state uccise per essersi ribellate o
aver tentato di fuggire e quelle che non si sono uccise per scampare al proprio
destino sono state stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a
combattenti ed emiri al solo scopo di soddisfare le loro esigenze sessuali e la
necessità di produrre e allevare martiri jihadisti. Centinaia di bambini
sono stati catturati e rinchiusi in scuole coraniche per essere trasformati in
combattenti.
Dietro all’odio sfrenato
dell’IS nei confronti delle donne – obbligate da norme ferree che
regolano il loro abbigliamento e limitano la loro mobilità, che le
dichiarano «disponibili allo stupro» – c’è la
loro riduzione a strumenti di riproduzione di un ordine violentemente
patriarcale secondo una logica che, per quanto estremizzata e connotata
confessionalmente, ha un carattere terribilmente globale.
A Kobane si sta perciò
combattendo una «guerra di posizione» e questa definizione non ha
nulla a che fare con le strategie militari. Il fatto è che in gioco
c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le
guerriere delle YPJ sono orgogliose di avere imbracciato le armi, come lo sono
le loro madri organizzate nel gruppo Şehîd Jîn’.
L’etica della cura di cui queste donne sono portatrici assume forme del
tutto impreviste per chi, da questa parte del mondo, fa della cura qualcosa che
riguarda la vita e che, per sua natura, nega la guerra.
A Kobane, però, la guerra
è la scelta obbligata per chi intende curarsi della propria vita e della
propria libertà, della vita e della libertà dei propri compagni e
compagne, della propria regione, delle proprie idee. Intervistata da Rozh
Ahmad, che ha realizzato un bellissimo documentario dal fronte della Rojava, la
madre di una combattente, che indossa il velo, racconta: «due delle mie
figlie sono andate via nella stessa settimana. Una è entrata nelle YPJ,
l’altra si è sposata.
Per fortuna non mi preoccupo per
quella che è nelle YPJ. Hanno buone idee e per noi è un onore
avere una figlia nelle loro fila. La mia figlia sposata sta bene, ma sono
ancora preoccupata per lei». Questa madre non dice quale sia la sua
preoccupazione, ma possiamo immaginarlo dal racconto della sua figlia
combattente: «la nostra società guardava le donne solo come buone
casalinghe, le donne erano fatte su misura per gli uomini e rinchiuse in casa
come schiave.
Ora abbiamo appreso questa
realtà amara. Ora siamo cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo.
Siamo soldatesse ora […] viviamo pienamente la nostra
diversità».
Le donne combattenti di Kobane, in primo luogo, sono diverse da ciò che
sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto
all’inesausta continuità della tradizione e forse anche rispetto
alla «Carta del contratto sociale» della Rojava, che alle donne
garantisce l’uguaglianza e la partecipazione attiva a ogni organo di
autogoverno.
Si tratta di un cambiamento che
è dovuto, in una certa misura, alla spinta politica del PKK, nella cui
«ideologia» si riconosce pienamente l’Alto consiglio delle
donne del movimento di liberazione del Kurdistan. Come spiega Handan Çağlayan,
la persistenza di consuetudini come il namus, l’obbligo di sorvegliare i
corpi, i comportamenti e la sessualità delle donne da parte degli
uomini, costituiva un grosso limite alla mobilitazione di massa in favore della
causa curda. Il nesso stabilito da Öcalan tra la liberazione delle donne e
la rivoluzione sociale (Woman and Family Question, 1992) non può
comunque essere letto esclusivamente alla luce delle «strategie di
mobilitazione», ma deve essere considerato allo stesso tempo una risposta
a un massiccio protagonismo delle donne, anche nella guerra, a partire dalla
fine degli anni ’80. Inoltre, il mancato riconoscimento della minoranza
curda da parte della Siria ha prodotto nelle donne un sentimento di oppressione
e, con esso, il senso della possibilità e della necessità della
ribellione.
Lo racconta chiaramente a Rozh
Ahmad una delle combattenti intervistate: «noi ragazze curde eravamo
costrette a parlare arabo tra di noi a scuola. Noi curdi eravamo oppressi, lo
Stato controllava completamente le nostre vite. Ma ci siamo sempre ribellati
contro tutto questo». Al di là dell’identificazione di
queste donne con la causa curda c’è, però, qualcosa di
più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le combattenti
«sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso
le armi.
A loro risponde con orgoglio che,
assieme alle sue compagne, ha «una vita molto più ricca di quello
che loro possono pensare». Con orgoglio un’altra afferma che alcuni
uomini, che non hanno avuto il coraggio di combattere, abbassano la testa al
loro passaggio. Benché ciò passi in secondo piano rispetto
all’impressionante resistenza che stanno opponendo all’IS, sembra
che queste donne stiano portando avanti anche una battaglia sul fronte interno
per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà.
È stata la partecipazione
alla guerra che le ha portate a sentirsi uguali. Contro ogni retorica
nazionalistica costruita sulla «difesa delle nostre donne», le
guerriere delle YPJ hanno preso a difendere se stesse e hanno accettato il
rischio di morire, senza per questo avere una felice propensione al martirio.
Contro l’incredulità dei loro padri e dei loro fratelli che
dubitavano della loro forza e ben oltre il formale riconoscimento della loro
uguaglianza espresso nella costituzione della Rojava, queste donne hanno
dimostrato di avere non solo la forza, ma anche il coraggio.
A loro non piace la guerra, a
loro non piace uccidere, a loro non piacciono le armi e lo ripetono nelle loro
interviste. Una combattente racconta che pulire il suo fucile non era poi
così difficile, ma per sparare ha dovuto superare la paura. Ognuna di
queste donne ha combattuto prima di tutto contro una parte di sé, la
propria «passività», come la chiama qualcuna,
l’ignoranza di che cosa possa significare «essere una donna»,
per andare sul fronte di Kobane. Nessuna di loro era già libera,
ciascuna di loro ha dovuto conquistarsi un pezzo di libertà.
Convinte che la guerra e la
pratica della violenza non siano proprie delle donne, alcune potrebbero
arrivare a negare che queste donne siano davvero tali. È già
accaduto di fronte alle immagini di Lynndie, la fiera torturatrice di Abu
Grahib. Tra lei e le combattenti della Rojava c’è un abisso, ma in
entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come
donne, al di là di qualsiasi destino tracciato dall’ordine
simbolico del padre o da quello della madre. Convinte che l’uguaglianza
non sia altro che l’espressione politicamente corretta del perpetuarsi di
un potere sessuale sulle donne, altre potrebbero vedere in queste guerriere la
riproduzione di un «modello maschile» di autonomia.
Eppure, queste combattenti sono
donne e per le donne combattono, contro una schiavitù che non indossa
solo le maschere nere dell’IS e del suo fondamentalismo, ma che, come
ricorda una di loro, arriva in Europa nelle vesti accettabili e colorate del
capitalismo. Forse, allora, non è la storia di queste donne a essere
inadeguata rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono
i discorsi che donne e femministe hanno a disposizione a non essere all’altezza
della storia delle combattenti di Kobane.
Non si tratta, evidentemente, di
fare della lotta armata il paradigma di ogni percorso di liberazione, né
di dimenticare quanta oppressione e quanto sfruttamento passano per
l’uguaglianza formale. Non si può neppure ignorare, però,
che mentre rivendicano di essere «una brigata di sole donne che vivono in
modo completamente indipendente», combattendo al fianco dei loro compagni
sul fronte queste donne rivendicano e praticano l’uguaglianza e insegnano
qualcosa agli uomini.
C’è, in questo,
qualcosa di profondamente sovversivo, che forse non sarà decisivo dal
punto di vista militare ma senz’altro lo è dal punto di vista
politico. Duemila donne, miseramente equipaggiate e con scarso appoggio
internazionale, danno un contributo fondamentale alla difesa di una
città asserragliata da novemila jihadisti ben armati. La loro forza
– come ha ricordato la combattente delle YPJ Xwindar Tirêj –
non è nei fucili ma nella determinazione. Certo, anche i loro compagni
sono determinati, ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa
di più. È il volto e il corpo di quella determinazione a
terrorizzare i combattenti dello Stato islamico convinti che, se saranno uccisi
da una donna, non andranno in paradiso.
Così, mentre i miliziani
dell’IS aspirano al paradiso, le donne di Kobane pretendono di portarlo
sulla terra e, nel farlo, pongono domande davvero scomode al di qua di Kobane.
Forse questo spiega il muto e fragoroso silenzio di molte donne e femministe di
fronte a questa guerra e al ruolo delle Unità di protezione delle donne.
Forse è più facile
schierarsi nella guerra quando la parte delle donne è quella di vittime,
quando il loro corpo è un terreno di battaglia, quando si fanno
mediatrici e ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che
subiscono la discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando
possono essere guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce
il genere umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio,
Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali.
Forse è più
difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere che le stesse
che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che
incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare al fronte, che le stesse
che si prendono cura possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare
il potere lottano per prendere potere e lo fanno come donne.
Mentre ridono e sparano, mentre
riposano e danzano con tute mimetiche e foulard colorati, le donne combattenti
di Kobane sembrano indicare il punto in cui ogni discorso formulato fin qui da
donne e femministe rischia di sbriciolarsi sul fronte delle contraddizioni. Per
questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale forse la pena ascoltare e
provare a capire la posta in gioco globale della guerra delle donne di Kobane.
di Paola Rudan
Connessioni Precaqrie
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2013 UiKi ONLUS Team
2014-10-15-U
Viviamo, impariamo e
combattiamo. Le donne di Kobane sul fronte delle contraddizioni