La resistenza del popolo di Kobane contro i miliziani
dell'Isis ha provocato un'ondata di solidarietà internazionale che,
però, rischia di essere selettiva. Tanto nella scelta della parte da
sostenere quanto nella narrazione di quanto sta succedendo sul campo.
L'eroica resistenza del popolo di Kobane, fin dalla
metà di settembre impegnato a respingere l'assalto Da'esh (Isis
in arabo, ndt), ha provocato un'ondata di solidarietà
internazionale.
Un'infinità
di articoli e
dichiarazioni sono
state scritte, e manifestazioni
di protesta sono state organizzate in varie città in
tutto il mondo.
I curdi hanno cercato di attraversare il
confine turco per aiutare i propri compatrioti nei combattimenti, nonostante il
rischio di essere respinti brutalmente
dalle forze turche (l'articolo è stato pubblicato il 20 ottobre
scorso, prima della decisione turca di consentire il passaggio dei peshmerga
curdo-iracheni verso Kobane, ndt), e altri, compresi i compagni turchi del
DAF (Azione anarchica
rivoluzionaria), sono andati fino al confine per aiutare a tenerlo
aperto per il fiume di rifugiati che cercavano salvezza in Turchia. Ci sono stati
appelli ad armare le
forze curde e appelli per appoggiare Daf e
mandare aiuti per i profughi.
Eppure
questa solidarietà con i curdi siriani non è stata estesa ai
gruppi non curdi che nello stesso paese stanno combattendo, e morendo, per
liberarsi del fascismo e della repressione violenta, per la libertà e
l'autodeterminazione.
Viene spesso ripetuto, a torto, che il settarismo
è al cuore del conflitto siriano. È necessario allora capire fino
a che punto il settarsimo guida anche le nostre risposte a quanto succede.
Il
movimento di protesta esploso contro Bashar al-Asad nel 2011 aveva unito persone di tutto lo
spettro etnico e religioso siriano in una lotta comune
per la libertà. Kobane non faceva eccezione.
I curdi, che sono la maggioranza in città, avevano
sofferto per molto tempo le politiche di arabizzazione forzata del regime
baathista, e sono stati tra i primi a sollevarsi quando è iniziata la
rivoluzione siriana. In questa protesta di
metà 2012, i curdi e gli arabi di Kobane, assieme, chiedono la fine del
regime e cantano a favore dell'Esercito libero
siriano, innalzando la bandiera curda in un momento in cui farlo era un
pericoloso atto di sfida.
Ma
dopo i primi giorni, il movimento di protesta siriano a Kobane come altrove non
è riuscito a guadagnare il sostegno internazionale. Se così non
fosse stato, il paese non sarebbe stato distrutto a un tale livello da
consentire all'Isis di prendere il controllo di vaste aree.
Negli ultimi tre anni, le relazioni tra gli
arabi siriani e i curdi sono state fragili e mutevoli, soggette sia alla politica
del regime di Asad di manipolare le divisioni etniche, sia alle manovre dei
politici dell'opposizione, che hanno messo l'interesse e le agende personali
davanti alla libertà per il popolo.
Eppure,
nonostante questo, gli attivisti sul terreno hanno continuato a sottolineare
l'importanza dell'unità
popolare tra arabi e curdi e a opporsi alle divisioni settarie
ed etniche. Ben poche dichiarazioni internazionali hanno rispecchiato questi
appelli.
L'assenza di arabi sunniti dalla narrazione della lotta contro Da'esh è notevole. Ben pochi
articoli hanno menzionato che i combattenti dei battaglioni dell'Esercito libero siriano (Esl) stanno rischiando le
proprie vite per unirsi ai propri compatrioti curdi nella difesa di Kobane
dagli estremisti religiosi, o che nelle ultime settimane c'è stato un
maggiore coordinamento tra le formazioni militari arabe e curde.
Il 10 settembre 2014, una brigata locale dell'Els si è unita alle
forze dell'Ypg (Unità di Protezione Popolare, curda, ramo militare
del partito Pyd, ndt) per lanciare un'operazione comune
contro Da'esh chiamata Burkan al Firat. I battaglioni
coinvolti comprendevano la Brigata rivoluzionaria di Raqqa, Shams al Shamal,
Al Tawhid, Saraya Jarablus e altre unità minori.
Questa
alleanza strategica non solo rafforza l'unità tra arabi e curdi in un
momento così critico, ma porta anche ai combattenti di Kobane
l'esperienza dei combattenti dell'Esl che hanno combattuto contro
Da'esh dall'inizio di quest'anno.
In una dichiarazione del
19 ottobre, il Pyd ha scritto che “la resistenza mostrata dalle
nostre unità Ypg e da quelle dell'Esercito libero
siriano è una garanzia per la sconfitta di Isis nella regione. La lotta contro il terrorismo e l'impegno a costruire una Siria
libera e democratica sono state le basi per l'accordo con l'Esl. E possiamo
vedere che il successo della rivoluzione dipende dallo sviluppo di questa
relazione tra tutte le fazioni e le forze del bene in questo paese”.
Come i
loro compatrioti curdi, i battaglioni dell'Esercito libero
siriano hanno resistito a
Da'esh a Kobane, con un armamento decisamente inferiore.
Mentre Da'esh ha l'armamento pesante americano
conquistato in Iraq, i combattenti siriani (arabi e curdi) hanno solo un
armamento leggero e poche munizioni. Sia l'Ypg che l'Els hanno chiesto alla
comunità internazionale di rifornirli di armi pesanti. Appoggiare
l'appello a mandare armi alla resistenza è imprescindibile per
consentire alla popolazione locale di difendersi dall'annichilimento.
Riduce
anche il bisogno percepito di un intervento militare diretto delle potenze
esterne che operano secondo i propri interessi, spesso diametralmente opposte a
quelli della lotta popolare.
Nell'appoggiare questo tipo di appelli, bisogna
distinguere tra il supporto a un'ampia coalizione di forze locali contro il
fascismo, per una lotta popolare che cerca di distruggere
il vecchio regime e al diritto di autodifesa di tutto il popolo dal rischio di
massacri di massa, dall'appoggio a qualsiasi gruppo o progetto politico che
pensa già alla divisione del potere nella fase post-rivoluzionaria.
Quest'ultimo aspetto deve essere evitato.
Gran
parte della solidarietà internazionale per la lotta
dei curdi viene dall'appoggio per la rivoluzione sociale di Rojava.
Le zone a maggioranza curda di Afrin, Jazira e Kobane
sono state in grado di organizzarsi in Regione
autonoma dopo il ritiro delle forze di Asad, a luglio del 2012.
Un Contratto
Sociale è stato sviluppato per sottolineare il desiderio
di costruire “una società libera dall'autoritarsimo, dal
militarismo, dal centralismo e dall'intervento delle autorità religiose
negli affari pubblici”.
Afferma il principio dell'autogoverno locale per tutte le
zone della regione dove sarebbero stati creati, con elezioni dirette in un
sistema decentralizzato, dei consigli di governo e nuove istituzioni pubbliche.
Il
testo comprende l'unità e le coesistenza tra i diversi gruppi etnici e
religiosi della regione, il rispetto per i diritti umani, la fine della
discriminazione di genere, e afferma il diritto del popolo
all'autodeterminazione.
In una radicale riorganizzazione sociale verso un confederalismo
democratico, il popolo di Rojava ha stabilito consigli e
comuni attraverso tutto il Kurdistan occidentale per far
autogovernare le comunità in campi come la salute, l'educazione, il
commercio e affrontare le questioni rilevanti per la società.
Questa
esperienza fornisce un potente esempio di forme alternative di organizzazione
sociale come contrappunto al controllo centralizzato e autoritario.
Sebbene questi sviluppi in direzione di una democrazia
radicale siano un raggio di luce in quella che sta diventando fin troppo
velocemente una regione di oscurità, i libertari non dovrebbero
idealizzare il partito curdo dell'Unione democratica (Pyd).
A proposito della creazione della Regione autonoma,
l'anarchico curdo-siriano Shiar Neyo, diceva:
"Dal punto di vista del Pyd si trattava di un'opportunità
magnifica per imporre la propria autorità ed espandere la propria sfera
di influenza nelle aree curde della Siria. Questo pragmatismo politico e questo
desiderio di potere sono due elementi importanti per capire i rapporti del
partito con il regime, la rivoluzione, l'Els e anche con i curdi stessi".
Spiegano
anche molti fenomeni che sembrano stupire i
commentatori e gli analisti, come la repressione da parte delle forze del Pyd
degli attivisti indipendenti e di quelli che criticavano le politiche del
partito.
Per esempio, si potrebbe citare il massacro di
Amuda a luglio del 2013, quando le Unità di Protezione del
Popolo (Ypg) hanno aperto il fuoco contro manifestanti disarmati, o la chiusura
della radio indipendente Arta, a febbraio del 2014, con il pretesto
che non aveva la licenza per trasmettere.
Le forze del Pyd hanno anche assalito membri di altri
partiti politici curdi e ne hanno arrestato alcuni, con una pletora di
pretesti; controllano il cibo e le risorse finanziare nelle aree curde e ne
dispongono in modo ingiusto, sulla base di un favoritismo partitico, e si
potrebbe continuare. Tutte queste pratiche ricordano alle persone, e a ragione,
gli stessi metodi oppressivi del regime di Asad.
Esiste
un'ovvia tensione, dunque, tra l'autoritarismo della vecchia guardia del Pyd
che mantiene una visione verticale, e le migliaia di curdi che credono e stanno
cercando di costrurire una democrazia radicale dal basso, e che dovrebbero
essere appoggiati in questo obiettivo.
Ma la regione curda della Siria non è l'unico
posto dove una rivoluzione sociale sta mettendo in piedi modi di organizzazione
radicalmente nuovi, sebbene essa abbia beneficiato di una maggiore estensione e
di una relativa stabilità rispetto ad altre aree del paese.
Esperimenti
di autonomie locali e auto-organizzazione sono stati un elemento definitorio
della rivoluzione siriana, e centinaia di comitati locali
e consigli locali sono stati creati per gestire servizi di base
e coordinare le attività rivoluzionarie.
Eppure queste persone non sembrano meritevoli della
solidarietà internazionale perché non hanno leader che si siano
convertiti al municipalismo
libertario. Il fatto puro e semplice è che non hanno leader e
che queste forme di organizzazione orizzontale sono nate spontaneamente dal
basso come risposta alla dissoluzione dello Stato.
Inoltre,
mentre l'attenzione del mondo si concentra su Kobane, le battaglie di altre
zone non sono riuscite a raggiungere i riflettori dei media. Ad agosto, il
popolo di Deir al Zour, soprattutto della tribu al Sheitat, ha condotto una coraggiosa
resistenza contro Da'esh.
Nei giorni successivi, da soli contro i fascisti, la
resistenza è stata quasi sconfitta, e circa 700 persone della
tribù al Sheitat sono state
giustiziate da Da'esh, con ben poca indignazione
mondiale. Il popolo di Deir al Zour non ha però abbandonato la battaglia
contro gli estremisti di Isis.
Nelle ultime settimane, il Sudario Bianco (Kufn
al Abyaad) ha ucciso un centinaio di combattenti di Da'esh con
tattiche da guerriglia. Il gruppo di resistenza popolare segreto è
composto da circa 300 persone locali, la maggior parte dei quali non aveva mai
combattuto prima, ma ha preso le armi per proteggere la propria famiglia e la
propria comunità dal massacro.
Mentre il mondo si concentra sull'avanzata di Da'esh
nel nord della Siria, le comunità di altre zone del paese stanno
continuando a resistere contro il maniaco genocida Bashar al-Asad e le sue
milizie settarie che hanno aumentato gli assalti contro le aree liberate da
quando i raid aerei statunitensi hanno consentito al regime di spostare le
proprie forze.
C'è stata ben poca solidarietà con il
popolo del quartiere Al Waer di Homs, l'ultima roccaforte dei ribelli nella
città che è stata l'anima della rivoluzione. Ad Al Waer vivono
400mila persone, la metà dei quali sono civili sfuggiti dalla guerra in
altre zone del paese.
L'area
è stata assediata per mesi dalle forze del regime e nelle ultime due
settimane, il regime di Asad ha aumentato i bombadamenti di artiglieria
causando una grave crisi umanitaria.
Gli appelli degli
attivisti siriani per il sostengo agli abitati di Al Waer sono caduti nel
vuoto.
Rimane aperta la questione se la solidarietà
internazionale per Kobane nasca dall'identità dei suoi difensori curdi,
ovvero non arabi sunniti, o dall'appoggio per le posizioni politiche di un
partito (il Pyd/Pkk) o dal riconoscimento del principio che tutti i popoli
hanno il diritto di difendersi dal terrore, sia esso fascismo nazionalista o
religioso, e di autodeterminare come organizzare la propria vita e quella delle
proprie comunità.
Se davvero sorge da questo riconoscimento, allora la
solidarietà per curdi di Kobane dovrebbe essere estesa a tutti i siriani
rivoluzionari.
*Leila al Shami è un'attivista e blogger di
origine siriana. E' tra le fondatrici di "Tahrir-ICN", network che
riunisce le lotte antiautoritarie in Medio Oriente, Nord Africa ed Europa. La
versione originale di questo articolo è qui.
27 Ottobre 2014
di:
Leila al Shami*
2014-10-27-OI La battaglia di Kobane. Un esempio di solidarietà selettiva