October 27, 2014
Da quando le donne curde del
Rojava (il Kurdistan siriano) in mimetica e kalashnikov in spalla hanno fatto
irruzione sui media, sono diventate il simbolo della strenua resistenza del
popolo curdo all’offensiva dello Stato islamico (Is) in Siria e in Iraq.
Sono osannate come le paladine della libertà contro l’oscurantismo
e la brutalità dei jihadisti, particolarmente spietati e vigliacchi con
le “infedeli” che incontrano sulla propria strada, considerate un
bottino di guerra da vendere nei bazar della schiavitù o da distribuire
tra i miliziani. Le combattenti curde hanno persino ispirato (loro malgrado)
una linea d’abbigliamento di un noto marchio svedese (H&M). Cosa che
le ha fatte indignare e arrabbiare. Ma tutta questa attenzione, che nelle
ultime settimane si è concentrata sull’assedio della città
siriana di Kobane, sotto l’attacco jihadista da luglio, ha un sapore
quasi sensazionalistico -“L’Is teme le curde”- e si concentra
sugli elementi superficiali di una lotta, quella del popolo curdo e delle sue
donne, che viene da lontano, che riguarda la sopravvivenza di una
comunità, e del suo progetto politico, che vive in un territorio
complesso e che ha una storia travagliata.
Ancora una volta, le donne sono
state ridotte al loro corpo, ad affascinanti amazzoni disposte al sacrificio
estremo pur di non cadere nelle grinfie dei predoni jihadisti (ha fatto notizia
il suicidio della 19enne Ceylan Ozalp, definita “kamikaze” per
essersi sparata pur di non cadere nelle mani dell’Is). Ma nelle teste e
nei cuori delle curde c’è una visione della società basata
su un progetto di emancipazione politica davvero innovativo e per molti aspetti
rivoluzionario, se si considera il contesto patriarcale in cui si sviluppa e
l’anticapitalismo di cui è intriso, e che affonda le sue radici
anche nell’ideologia del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan,
considerato da Stati Uniti e Unione europea una formazione terroristica, proprio
come lo Stato islamico.
Da tre anni nel Rojava combattono
le Unità di Difesa del Popolo (YPG) e le Forze di Difesa delle Donne
(YPJ), bracci armati del Comitato supremo curdo (l’organismo di governo
del Kurdistan siriano), legate al partito fondato da Abdullah Ocalan.
Combattono non soltanto per respingere l’avanzata jihadista, ma anche per
far sopravvivere un sistema di regioni autonome democratiche (i cantoni di
Kobane, Afrin e Cizre), basato sulla Carta del Rojava. Un testo che parla di
autonomia regionale, di democrazia partecipativa praticata attraverso i
consigli popolari, di confederazione democratica, di inclusione delle diverse
etnie della regione (curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni,
armeni, ceceni), di autogoverno (ai cui istituti partecipano alla pari uomini e
donne), di libertà, di uguaglianza, di dignità, di giustizia, di
ecologia. Principi che si tenta di applicare, tra mille difficoltà e
contraddizioni, nel Rojava e che stonano all’interno di un Medio Oriente
scosso dalla furia dell’oltranzismo confessionale ed etnico. Aspetti
spesso tralasciati, se non volutamente ignorati, per fare spazio
all’immagine (riduttiva e più comoda) della bella guerrigliera
curda, che ha preso il posto della altrettanto comoda immagine della donna vittima,
abusata e venduta.
L’attacco jihadista a
Kobane spiega anche questo. È un attacco a un sistema alternativo, agli
antipodi rispetto al progetto egemonico dello Stato islamico foraggiato dagli
Stati ultraconservatori del Golfo (Arabia Saudita in testa). E che non piace
neanche alla vicina Turchia (che dispone dell’esercito Nato più
potente della regione), rimasta immobile davanti al massacro per timore di un
risveglio delle ambizioni indipendentiste dei circa 15 milioni di curdi che
vivono nel Paese, nonostante la svolta anti-nazionalista del Pkk. Ankara ha
lasciato passare dalle sue frontiere decine di volontari della jihad
intenzionati a unirsi all’Is, ma ha sbarrato la strada ai volontari curdi
che volevano unirsi alla resistenza di Kobane. Questa alternativa,
anticapitalista, è guardata con sospetto anche dalle potenze occidentali
coinvolte nel conflitto, che in effetti le hanno offerto solo un timido
sostegno. In fin dei conti, che piaccia o meno, spiega Dilar Dirik, attivista
curda ricercatrice all’Università di Cambridge e qualche giorno fa
ospite della Casa internazionale delle donne a Roma, la resistenza del Rojava
affonda le sue radici anche nel Pkk, un’organizzazione
“terroristica” (il cui leader è detenuto nell’isola-prigione
turca di İmralı) e all’inizio marxista-leninista, quindi
comunista.
“Kobane potrebbe modificare
il corso della storia. È una battaglia cruciale che va oltre l’Is.
L’intero sistema del Rojava offre una prospettiva nuova alla popolazione
e lo fa proprio nel mezzo di un conflitto orribile, che sta costando troppe
vite”. Per Dirik l’alternativa proposta dai curdi sfida lo status
quo, in particolare per il ruolo centrale assunto dalle donne. “Le donne
curde che hanno preso le armi, simboli tradizionali del potere maschile –
continua l’attivista – sfidano l’ideologia dell’Is. Non
rappresentano una minaccia per la loro capacità bellica, ma per il
potere trasformativo del loro progetto di emancipazione politica e sociale.
Vogliono cambiare la società e vogliono essere incluse. Queste donne
lottano per la propria esistenza e per il proprio futuro, e la loro lotta
è una sfida all’ordine sociale e alla mentalità
patriarcale. Per questa va sostenuta seriamente, è più efficace
dei bombardamenti Usa contro l’Is”.
L’attenzione che di recente
si è concentrata su queste combattenti non è accompagnata da un
sostegno reale anche per Nursel Kılıç, membro della
rappresentanza internazionale del movimento delle donne curde (Kjk).
“Dobbiamo chiarire che il movimento delle donne curde ha una lunga esperienza
di lotta, è nato attraverso la lotta del Movimento nazionale curdo e ha
sempre goduto di autonomia decisionale all’interno del Movimento per
È dunque meglio parlare
delle guerrigliere curde che di un sistema, quello del Rojava, che fa paura,
continua Nursel Kılıç: “Stato islamico, Turchia e
comunità internazionale sono contrari al sistema chiamato autonomia
democratica del Kurdistan siriano. Per loro, ostacola la dominazione della
regione”. Un’area, quella mediorientale, su cui si giocano gli
interessi di diverse potenze regionali e internazionali nella cui agenda non
paiono avere posto né modelli di governo alternativi né la
questione femminile.
di Sonia
Grieco
Reset-Dialogues on Civilizations
CORREZIONE di web
uiki: Invece di Ceylan Ozalp dovrebbe essere ARIN MIRKAN!
©
2013 UiKi ONLUS Team
2014-10-27-U
Isis, quella guerra delle
donne curde ecco perché è molto più di un’avventura