October 30, 2014
Nel Rojava da
mesi i curdi resistono valorosamente all’avanzata dell’ISIS. Ma per
l’Occidente i combattenti sono alleati compiacenti solo se compatibili
alle strategie delle grandi potenze; rimangono “terroristi” quando
osano parlare di autonomia democratica della Regione e autorganizzazione della
popolazione. Il 1 novembre, in Italia e nel mondo, una giornata di
mobilitazione in sostegno di Kobané.
Alcuni giorni
fa, Remzi Kartal, co-presidente del Kongra-gel (Congresso del popolo) e
rappresentante del movimento di liberazione curdo in Europa, ha evidenziato
l’effetto enorme che gli avvenimenti in corso in Rojava (Kurdistan
occidentale) stanno avendo sulle relazioni internazionali. Ha parlato della
necessità di una “politica post-Kobanê”: la minaccia
globale rappresentata da ISIS dovrebbe spingere anche il cosiddetto Occidente a
rivedere le sue disastrose politiche mediorientali, le quali non sono riuscite
ad assicurare né stabilità né pace nella regione.
Kobanê come “fenomeno globale” perché la resistenza
messa in atto dalla sua popolazione, dalle sue forze di difesa del popolo, YPG
e YPJ (le unità femminili), ha avuto il merito di cambiare il corso di
una storia che sarebbe dovuta andare in un altro modo. I calcoli di tutte le
potenze in grado di fare qualcosa per la città, suggerivano di lasciarla
al suo destino. Per Stati Uniti e alleanza anti-ISIS, una città non
abbastanza strategica; per
Dietro questo
“fenomeno globale”, dietro questa icona della resistenza curda che
combatte dove altri (esercito iracheno, peshmerga del Kurdistan autonomo
regionale) si sono volatilizzati, abbandonando intere popolazioni al proprio
destino, ci sono elementi che i governi e media mainstream hanno deciso di
omettere. Volutamente. E allora se si tessono le lodi della resistenza fiera di
un popolo, delle donne giovani e belle che combattono con il kalashnikov in
mano (appassionando mezzo mondo dietro lo schermo di un televisore o di un
computer come si trattasse di un gioco un po’ cruento) e di altri
parametri compatibili con gli schemi orientalistici… è vietato
parlare di autonomia democratica, di gente che si organizza dal basso in comuni
e comitati per decidere da sé come amministrarsi, di parità di
genere negli organismi elettivi, di partecipazione di tutte le componenti
linguistiche, etniche e religiose, non si parli insomma dei cantoni del Rojava
e della loro carta del contratto sociale. Potrebbe essere contagioso.
È per
questo che il PKK è ancora considerato un’organizzazione
“terrorista”. Nonostante la proposta politica del confederalismo
democratico avanzata da Abdullah Öcalan per risolvere la questione curda,
che si ispira il Partito di Unione Democratica del Kurdistan siriano. Ma se per
Un fragile velo
si è dunque temporaneamente squarciato. Grazie a quella resistenza che,
contro tutte le previsioni, ha impedito la cattura della città simbolo
di Kobanê. Grazie alla straordinaria interposizione fisica della
popolazione al confine turco-siriano. Grazie alle vaste mobilitazioni in tutto
il Kurdistan: turco, dove sono costate una cinquantina di morti, iracheno e
perfino iraniano, dove solo partecipare a una manifestazione espone al rischio
di venire uccisi. E grazie alle manifestazioni della diaspora curda in Europa e
nel mondo. Anche in questa occasione i confini mostrano così chiaramente
il loro portato di violenza, sopraffazione e potere esercitato contro intere
popolazioni.
Insomma, i curdi
sembrano benvoluti solo come alleati compiacenti o come vittime silenziose,
fino a quando non danno fastidio, rimanendo delle pedine delle politiche delle
grandi potenze. Diventano “terroristi”, invece, quando alzano la
testa, quando si oppongono, quando documentano i reiterati aiuti e il passaggio
di armi dalla Turchia a ISIS, il passaggio di feriti jihadisti che vanno a
curarsi in territorio turco, mentre viene sbarrata la strada a coloro che vogliono
andare a Kobanê a difendere la città unendosi alle YPG. O se
praticano l’autodifesa dal regime di Assad e da quelle frange
dell’Esercito Siriano Libero da cui sono stati ripetutamente attaccati in
questi ultimi tre anni.
C’è
da dire che anche fra la sinistra europea e nostrana qualcuno accusa i curdi di
essere diventati “filoimperialisti”, perché hanno chiesto e
accettato il limitato aiuto occidentale. Ma accettare questo limitato aiuto
quando si è a rischio di un genocidio è “vendere” i
propri principi? Lo sarebbe se vi fosse stata una rinuncia all’autonomia
democratica, allo straordinario esperimento in atto nei cantoni del Rojava
(così come in alcuni territori del Nord Kurdistan in Turchia, o ad
esempio nel Kurdistan regionale iracheno, nel campo di Maxmur, dove vivono da
un paio di decenni profughi curdi costretti a fuggire dalla politica di
sistematica distruzione dei villaggi della Turchia negli anni ’90). Ma i
curdi non hanno chiesto un intervento dall’esterno, solo la parità
militare con il nemico, per impedire un genocidio, e il riconoscimento
internazionale del proprio esperimento confederale.
Una delegazione
della sinistra del Parlamento europeo, presente in questi giorni al confine con
Per questo,
è importante partecipare alla giornata globale di azione per
Kobanê e per l’umanità del 1° novembre: una giornata di
sostegno a una visione del mondo ottimistica, che elabora e tenta di praticare
soluzioni positive, pacifiche e inclusive, paritarie fra i generi e le
componenti diverse della società, contro una visione uniformatrice,
oppressiva, totalitaria che non accetta alcuna diversità, perseguita da
ISIS e visibile nei luoghi amministrati dal “califfato”. Una
visione che è alternativa anche alle politiche di sfruttamento e rapina
del capitalismo neoliberale.
Il primo
novembre in tutta Italia, così come nel resto del mondo, sono previste
manifestazioni in molte città: Milano, Torino, Brescia, Firenze, Udine,
Bologna, Cagliari, Lecce, Reggio Calabria, Catania, Messina, Ragusa. A Roma un
corteo partirà da piazza dell’Esquilino alle 15.30, per arrivare a
piazza SS. Apostoli. Scendere in piazza il 1° novembre è il minimo
che si possa fare per sostenere Kobanê, un’utopia che ci riguarda
tutti.
di Alessia
Montuori e Giansandro Merli
TEMI REPUBLICA
© 2013 UiKi ONLUS Team
2014-10-30-U
La resistenza di
Kobané, tra silenzi ed omissioni