November 04, 2014
Nella zona est di Londra un
gruppo di donne curde porta avanti una raccolta fondi per i combattenti e i
profughi curdi
LONDRA.”Immagina di vedere
un incendio con fiamme altissime in lontananza, e tu hai solo una piccola tazza
rotta per provare a spegnerlo. Molta dell’acqua che trasporterai
cadrà mentre corri verso il fuoco, ma quell’unica goccia che sarai
riuscita a portare sarà il segno di un cambiamento.”
Oya, una donna curda minuta sulla
cinquantina crede e pratica la sorellanza. Insieme a Cennet, Fatma, Fakrye e a
tante altre donne, in maggioranza curde ma anche di altre nazionalità,
lavora senza sosta da giorni per preparare decine di pacchetti di yufka, il
pane tradizionale da vendere ad amici e conoscenti. Lo scopo è
raccogliere soldi per aiutare i curdi che stanno combattendo a Kobane e per
fornire tende, vestiti e cibo ai tantissimi profughi accampati in varie zone
del Kurdistan.
“Vogliamo raccogliere
contributi ma abbiamo pensato di farlo donando noi qualcosa in cambio. Crediamo
sia il modo giusto per creare un legame tra le persone e le
comunità”, spiega Oya. Un mese fa, hanno iniziato con i dolci
tipici, preparando migliaia di colazioni. Sono riuscite a raccogliere 15.000
sterline e il marito di Oya è andato personalmente al confine tra
Kurdistan e Turchia con il denaro raccolto per comprare materiali necessari da
portare al campo profughi. È stato via più di un mese e da quando
è tornato non è più lo stesso. “Sono molto
preoccupata per lui.
Sta male, non fa altro che
piangere.” Troppo a contatto con l’orrore che a noi arriva dagli
schermi. “Prendono le donne, le stuprano e le vendono per pochi dollari.
Molte le uccidono e così i bambini. Ci sono tanti orfani che scappano da
soli, a piedi. Quello che sta succedendo è davvero incredibile.”
Oya chiede scusa per gli occhi gonfi di lacrime e la voce che trema.
Si ferma solo pochi istanti e
continua: “Non sto organizzando questa campagna solo perché sono
curda, ma perché sono una donna. Potrei esserci io al posto quelle che
combattono, tra quelle stuprate e vendute, potrei vedere io morire i miei figli
in guerra o catturati dai miliziani. Per questo siamo qui dalla mattina alla
sera senza sosta, felici di dare una mano e certe che il nostro lavoro possa
dare un aiuto concreto a chi adesso è in difficoltà.”
Da Kobane è questo che
chiedono le donne. Solo pochi giorni fa la combattente Meysa Abdo, conosciuta
con il nome di battaglia Narin Afrinal ha scritto una lettera al New York Times
chiedendo alle donne di tutto il mondo di mobilitarsi e al tempo stesso
deunciando l’aiuto inefficace dei governi occidentali e l’ostilità
della Turchia. Di fatto, la politica internazionale, nonostante i proclami, si
stia girando dall’altra parte. “Mi chiedi se l’America e
l’Europa stiano facendo qualcosa per i curdi.
Ti rispondo che non lo so”,
dice Oya. E questa sensazione di totale abbandono dei curdi al loro destino non
è solo un’opinione sua o di Meysa Abdo. E’ il settimane
tedesco Der SPiegel di questa settimana a titolare “Soli contro il
terrore”, alludendo proprio alla mancanza di aiuti al popolo curdo e sono
inquietanti i resoconti che arrivano dalle zone in guerra: armi vecchie e
inutilizzabili mandate dagli USA, frontiere chiuse in Turchia, appoggio segreto
e subdolo ai miliziani.
Perchè sarà pure un
paradosso, ma sembra che a fare più paura dell’ISIS sia il modo di
vivereLondra rivoluzionario che da alcuni anni è stato sperimentato
nelle regioni autonome del Kurdistan siriano. Un modo di vivere che minaccia
sia
Una società, quella della Rojava e di altre regioni curde, che comprende
al suo interno, senza appiattirle, tante diversità etniche e religiose
ispirandosi al principio di “plurinazionalità”, e che si
fonda sulla partecipazione al governo e alla gestione delle comunità di
donne e uomini in egual misura. Le donne in prima linea anche al fronte,
“scoperte” dalla stampa occidentale solo negli ultimi mesi, pur
combattendo per l’indipendenza curda da molto tempo. Celebrate come icone
glamour mentre rischiano la vita, hanno ispirato fiumi di parole e sentimenti
di ammirazione, più per il loro aspetto che per gli ideali per cui
lottano.
Di questo ha scritto più
volte Dilar Dirik, attivista curda e dottoranda all’Università di
Cambridge, che studia proprio il protagonismo delle donne nei movimenti di
resistenza curda. “I media focalizzano l’attenzione su queste donne
perchè sfidano la nozione preconcetta di donne orientali come vittime
oppresse, ma così vengono presentate erroneamente come un fenomeno da
romanzo. Si tende a sminuire una lotta legittima proiettando su di loro
bizzarre fantasie orientaliste e semplificando eccessivamente le ragioni che
motivano le donne curde a unirsi alla lotta. Sembra sia più efficace
rappresentare le donne come nemici dell’ISIS senza sollevare domande
circa le loro ideologie e i loro obiettivi politici. Chi si interessa delle
donne combattenti dovrebbe invece cominciare a supportare attivamente la
resistenza di Kobane, fare pressione sulla comunità internazionale
affinchè il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) venga rimosso
dalle liste dei gruppi terroristici e per il riconoscimento ufficiale del
governo autonomo del Kurdistan siriano.”
Donne che combattono per la
propria libertà, con un’idea di difesa non solo del territorio ma
delle idee che stanno alla base del loro vivere insieme,secondo un modello di
piena democrazia partecipativa. E queste donne curde residenti a Londra che
hanno deciso di attivarsi per Kobane hanno dentro di sè la stessa voglia
di lottare per quello in cui credono. Come Fatma che ha perso un figlio,
militante del PKK. Non parla inglese ma per comunicare il suo pensiero alza le
dita in segno di vittoria gridando “Free Kurdistan, free all
women!”. Il desiderio di libertà che va oltre l’esperienza
personale, oltre il dolore per un figlio morto, e che si manifesta con gesti
semplici come maneggiare tutto il giorno farina e mattarello, spatole per
girare il pane sul forno tondo e acqua da spruzzare perchè resti
morbido.
Non si sentono in alcun modo
delle donne speciali e hanno deciso di fidarsi e parlare con una giovane donna
occidentale chiedendo però di non apparire come singole protagoniste ma
per quello che sono. “Abbiamo detto di no ad alcuni giornalisti che
volevano riprenderci, dice Oya, perchè questo non è uno show e
non facciamo parte di una organizzazione. Siamo un gruppo informale di donne,
amiche e conoscenti che insieme sta facendo qualcosa per altre donne”.
Hanno scelto di fare il pane
perchè “in tutte le culture questo alimento è considerato
sacro e lo yufka è un pane tradizionale, che si prepara con amici e
vicini di casa. Le famiglie si aiutano e soprattutto le donne trascorrono molte
ore insieme a prepararlo.” La parola giusta che Oya cerca per spiegare
questo concetto è kutsal che in turco significa sacro. Pur trattandosi
di un gruppo eterogeneo, formato da donne atee, musulmane e cristiane per tutte
il pane è un simbolo della sacralità della loro cultura
tradizionale.
Oya racconta dei tanti uomini che
hanno donato cifre consisitenti e che le appoggiano. Il marito, il figlio Ozal,
che ha chiuso il suo bar nella zona est di Londra per metterlo a disposizione
della madre e delle altre donne che qui si incontrano da due settimane tutti i
giorni, ma anche sconosciuti, come un anziano signore che qualche giorno fa
è entrato a curiosare mentre loro lavoravano. Nella cultura curda alle
persone anziane si bacia la mano in segno di rispetto ma quando hanno iniziato
a parlare, Oya si è scusata con l’uomo perché preferiva non
baciargli la mano perchè influenzata. “Lui mi ha risposto che non
dovevo preoccuparmi e che era lui che doveva baciare la mia e quella di tutte
le donne che preparavano il pane. E così ha fatto.”
Alcune di loro, sabato primo novembre, saranno a Trafalgar Square a Londra
durante la giornata globale di azione per Kobanê e per
l’umanità (a Roma con incontro alle
Di SILVIA VACCARO 31 Ottobre 2014
© 2013 UiKi ONLUS Team
2014-11-04-U
Facciamo il pane per Kobane