November 17, 2014
Mi continuano a
mostrare foto di persone che mi raccontano che poi sono state ammazzate. Di
persone rapite dall’ISIS. E mi dicono che vogliono andare a combattere.
Sono ragazzini ventenni, o meno che ventenni. Sono uomini di 30 anni, o anche
di 40. E qualche volta mi domando perché. Cioè, cosa spinga un
ragazzo o una ragazza ad amare la vita al punto da combattere rischiando di
perderla. Rischiando di perderla pur di avere una vita che valga la pena di
essere vissuta.
E i curdi turchi
lo sanno, certo che lo sanno, che se tornano poi c’è la polizia
turca che li incarcera, perché li considera parte di
un’organizzazione illegale. Sanno benissimo che per diverso tempo saranno
in pericolo nelle loro terre. Tutti coloro che stanno dall’altra parte a
difendere concretamente la loro terra, siano turchi, siriani o anche nelle decine
di occidentali presenti, sanno che potrebbero rimanere bloccati
dall’altra parte del confine per mesi se non anni, perché è
sempre possibile che l’ISIS si prenda anche questo lato della
città. Questi combattenti non solo sanno che potrebbero essere rapiti o
morire, ma anche che potrebbero vedere i loro migliori amici.
Le informazioni
ufficiali parlano di circa 1000 donne dentro le YPJ e qualche migliaio di
uomini dentro le YPG. Qualcuno mi ha detto che è come la rivoluzione in
Spagna. Qualcuno mi ha detto che è per la libertà. Qualcuno
spiegava che è la guerra delle donne, che sono loro le protagoniste.
Qualcuna, cantava canzoni (le canzoni dicono molto, da queste parti, dove
praticamente l’unica canzone italiana che conoscono è bella ciao).
Qualcuno combatte anche per poter parlare la propria lingua, e ancora una volta
canta canzoni, perché quando era proibito scrivere o leggere in curdo
era tramite le canzoni che si tramandavano le storie. Qualcuno diceva che
dentro l’ISIS ci sono tutti gli interessi occidentali, e vuole
combatterlo per difendere la proposta fondamentalmente diversa che è
rappresentata dal Rojava. Qualcuno difende la libertà del Rojava,
appunto, la partecipazione diretta alle decisioni, l’antiautoritarismo.
Qualcuno, spiega che il vero nemico dei curdi è Erdogan, e che
l’ISIS è solo un suo riflesso. Qualcuno va perché le foto
della sua casa, della sua famiglia, della sua gente, dei suoi
animali…tornino ad esser vita reale. Qualcuno perché da il cambio
al fratello, che è giusto che si riposi. Qualcuno, dice che comunque non
riuscirebbe a vivere sapendo di non avere combattuto. Qualcuno combatte per i
bambini, che alzano le due dita in segno di vittoria, e che urlano
“Bijî YPJ! Bijî YPG!” (viva YPJ; viva YPG),
perché sanno che è l’unica possibilità, per loro, di
tornare a casa e non passare la vita come profughi.
E chi va a
combattere, ma anche chi resta da questa parte in solidarietà, è
“Heval”. “Heval” cerca di indovinare di cosa hai
bisogno prima che tu lo chieda. “Heval” sta al tuo fianco quando
sei malata. “Heval” porta aiuti per i profughi da Istanbul, o da
Amet, o da qualsiasi altra città. “Heval” imbraccia un
fucile e combatte. “Heval” sa che è importante condividere
tutto. “Heval” non si declina al maschile o al femminile, è
lo stesso per tutte/i. Se chiedi la traduzione di “Heval”, qui
rispondono che significa amico. Il fatto è che qui ci si chiama con
l’appellativo di “Heval” anche tra persone che non si
conoscono. Tra persone che non parlano la stessa lingua (ma, si sa,
l’essenziale non si comunica a parole). “Heval” si usa tra
persone che sono accomunate da qualche cosa di più dell’essere
amici. Da un obiettivo comune, molto molto concreto, che ha poco a che vedere
col sogno e molto con la vita vissuta. La traduzione esatta di
“Heval” è compagno/a, ed è una parola bellissima.
“Heval” è già di per se una buona ragione per
combattere.
E vorrei gridare
in faccia a tutti questi buonisti, a cui la guerra sembra una cosa brutta
perché non hanno ancora trovato la loro ragione per combattere, vorrei
dichiarare di fronte a questi perbenisti che si sentono abbastanza in alto da
giudicare negativamente qualsiasi arma od uniforme, che se io non sono
dall’altra parte con un fucile in mano, forse è davvero solo
perché ancora non amo la vita abbastanza. Non amo la vita abbastanza da
rischiare di perderla per averne una che valga la pena di essere vissuta.
Silvia Todeschini
©
2013 UiKi ONLUS Team
2014-11-07-U Biji YPJ, Biji YPG