08 -11- 2014
Lungo il
confine, a Suruc, migliaia di profughi monitorano le attività dell’esercito
turco e cercano di inviare aiuti alla città assediata. Nei campi profughi ci si
prepara per l’inverno.
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Suruc, 8 novembre 2014, Nena News – Ogni volta
che si sente il rimbombo di un’esplosione, la gente si ferma e guarda verso
Kobane. Qualche istante di silenzio e poi ricominciano a parlare. A
Mürşitpınar, villaggio a un solo chilometro da Kobane, ogni giorno si ritrovano
famiglie intere a osservare quanto succede di là dalla frontiera. Ci sono kurdi
rifugiati dalla città assediata, ma anche kurdi turchi, che arrivano da
Diyarbakir,
Alcuni fanno da vedetta sul tetto della
piccola moschea, trasformata in cucina e luogo di riposo. Altri sono seduti a
terra, lo sguardo verso Kobane. La città si vede benissimo: le case addossate
alla collina, il fumo che non cessa mai. I bambini giocano,
alcuni raccolgono dei proiettili e ce li mostrano. Un medico distribuisce
qualche medicina per il mal di testa e il mal di gola. Una donna ha la scabbia,
il dottore le consiglia di andare in ospedale, ma lei insiste: vuole anche lei
una manciata di pillole.
«Veniamo qui tutti i giorni per controllare
la nostra città – ci dice una donna giovane con un bambino tra le braccia –
Veniamo qui ogni giorno da 40 giorni. Controlliamo l’esercito turco.
Vedi lì su quella piccola collina? Quella è una postazione militare turca.
Verifichiamo che non blocchino gli aiuti o i feriti che arrivano da Kobane.
Quando possiamo, telefoniamo a chi è ancora dentro, ci sono ancora molti
civili, non saprei dire quanti. Ognuno qui sa dei propri familiari».
Le notizie che giungono dalla battaglia sono
confuse: alcuni dicono che l’Isis si è ritirato verso sud, altri che si
sta avvicinando al confine nord con la Turchia. «Il cibo per ora non manca –
dice un’altra donna – ma il problema sono i turchi. Non fanno passare nulla,
hanno chiuso il confine e se proviamo ad avvicinarci ci sparano addosso o ci
tirano le pietre».
Tra i rifugiati di Kobane la rabbia verso
Ankara è forte. Sottovoce, c’è chi parla di un corridoio ufficioso da cui si riesce
a fare entrare qualcosa, qualche aiuto, forse qualche arma o
combattente. Dipende dai giorni, ci dicono, spesso non si può perché l’esercito
presidia 24 ore su 24. Altre volte, poche, si riesce: di notte, senza essere
visti, si corre e si corre per quelle poche centinaia di metri che dividono
Kobane dal confine e, se si sentono gli spari, è meglio continuare a correre.
Il sostegno lo ricevono solo dalle comunità
del Kurdistan turco e dai partiti Hdp e Bdp. In pochi giorni,
all’inizio dell’assedio, sono entrati in Turchia quasi 190mila rifugiati
siriani. Di questi 120mila sono stati accolti dal Comune di Urfa, il resto –
oltre 60mila – dalle altre comunità a sud. A Suruc ci sono due campi
profughi, ribattezzati Kobane e Rojava. Per la strada, vicino ai campi, si
vedono camionette della polizia turca e jeep dell’esercito. Un solo camioncino
bianco delle Nazioni Unite.
«Da giorni stiamo negoziando con le Nazioni
Unite – dice al manifesto una funzionaria comunale, Feleknaz Uca –
Hanno accettato di distribuire pacchi di cibo per due mesi a 120mila rifugiati.
Finora non abbiamo ricevuto molto aiuto: l’Onu fa
I due campi nati a Suruc sono gestiti
direttamente dal Comune, che ha pavimentato il terreno per proteggere dal
freddo le famiglie, montato 500 tende per ogni campo e costruito una decina di
bagni. Fornisce cibo, coperte e vestiti. Ma l’inverno fa paura. È già freddo,
la sera la temperatura scende fino a 3 gradi.
Le file di tende ordinate, ognuna con il suo
numero scritto sopra, si aprono di fronte appena varcato l’ingresso lungo la
strada. Siamo nel campo profughi Kobane. Appena dentro, a destra c’è la scuola,
una tenda molto più grande delle altre, dove i bambini stanno facendo lezione: «Abbiamo
aperto la scuola due giorni fa – ci dice Bilal, insegnante di kurdo di Kobane
che ogni insegna nel campo – È partito tutto da noi, abbiamo preso da soli
l’iniziativa di aprire la scuola, per non lasciare i bambini a non fare niente
tutto il giorno».
Per le strette vie che dividono le tende sono
tanti i bambini che corrono e giocano. Vogliono essere fotografati mentre fanno
con le dita il segno V, il simbolo delle Ypg. Le donne lavano i vestiti
nei catini, gli uomini trasportano l’acqua. «La vita non è così male
qui, le condizioni sono buone – dice Gazal Aji, giovane mamma di quattro figli
– Le tende sono piccole, ma riusciamo a viverci. In ogni tenda sta una
famiglia. I bagni sono in comune, sono dieci, non sono molti ma
riusciamo a gestirci. Il problema è l’inverno, sta arrivando e sarà molto
freddo. Come faremo a restare qua?».
Non tutte le famiglie sono qui riunite: molti
hanno parenti ancora a Kobane. Il padre di Gazal è bloccato al confine da
giorni, chiede all’esercito turco di passare, ma glielo impediscono: «È molto
pericoloso, al confine l’Isis spara». Anche la figlia di Ayla è a Kobane, a
combattere. Ayla ha 72 anni, tatuaggi sulle mani e sul viso perché «in
passato erano di moda». Ci chiede di farle una foto. Poi riprende a parlare:
«Mia figlia è rimasta a combattere con le Ypj [Unità di Protezione Popolare
femminili, ndr]. Combatte per Kobane e per noi. Ne sono orgogliosa».
Mentre andiamo via, arriva il cadavere di un
combattente di Kobane ucciso pochi giorni fa. Sarà commemorato qui.