November 09, 2014
Intervista a un medico
dell’ospedale di Suruç, che racconta le condizioni terribili in
cui lavorano. Tra la mancanza di medicinali e attrezzature e
l’impossibilità di varcare il confine per arrivare a Kobane.
“Non voglio che esca il mio
nome, né che ci siano video o foto dell’intervista perché
le ripercussioni nei miei confronti potrebbero essere non solo causa di
allontanamento dal lavoro, ma anche il motivo per cui lo Stato Turco mi
imprigiona”.
Inizia così l’
intervista ad un dottore dell’ospedale di Suruç.
Tra un cay ed un biscotto ci
racconta la sua esperienza sul campo. “Qui in città ci prendiamo
cura di 60.000 persone con dottori sia turchi che curdi, suddivisi in tre
policlinici. In questi 55 giorni di assedio le medicine offerteci dalla
solidarietà internazionale sono finite subito. Ora non abbiamo più
medicinali. Oltre ai feriti, le malattie continuano ad aumentare soprattutto
tra i bambini: diarrea, malattie della pelle, influenza. 20.000 persone infatti
vivono nelle tende. Oltre a queste poi, ci dobbiamo occupare delle 30.000
persone che vivono nei villaggi. E purtroppo non abbiamo abbastanza ambulanze,
né macchine per poterci occupare anche di loro.
Le ambulanze del governo non si
muovono durante la notte per “motivi di sicurezza”. Ma il motivo
reale è che in questo modo non possono essere utilizzate per andare a
prendere i feriti da Kobane. A causa di ciò 17 persone hanno perso la
vita per mancato soccorso.
A Kobane c’è un
piccolo pronto soccorso insufficiente per gestire le emergenze. Viene
continuamente bombardato dall’ Isis. “Qui a Suruç ci
sarebbero 30 dottori pronti a partire per dare il loro aiuto continua il medico
– ma la capienza troppo piccola dell’ambulatorio fa si che ci sia
solo una rotazione tra di loro. Per questo motivo quando ci chiamano, noi
andiamo sempre sul confine”. Il gate però è controllato
dall’ esercito turco. Viene aperto solo durante il giorno, saltuariamente
e per qualche ora, ma non è abbastanza: “ogni volta dobbiamo fare
pressione, spingere, costringerli ad aprire per recuperare i feriti. In tutto
questo, come dicevo prima, le ambulanze non ci sono”.
“Andiamo noi con le nostre
macchine; spesso trovandoci sotto la linea del fuoco. Il governo turco in tutto
ciò, non dà alcun tipo di supporto neanche per quanto riguarda le
medicine o i dottori. I medicinali costano troppo per chi come queste persone
scappa da una guerra. In questo momento mancano gli strumenti essenziali: una
macchina a raggi x e un respiratore. Queste sono le prime attrezzature che
dobbiamo in qualche modo recuperare. Quindi quello che potete fare
dall’Italia e dall’ Europa è costruire una raccolta fondi
nei vostri territori per aiutarci a reperire il materiale che ci serve.”
Al ritorno da questa
testimonianza, passiamo davanti ai campi profughi; vediamo i bambini che
scorazzano nelle tendopoli, pensiamo al confine come ad una gabbia e ci
ricordiamo dei bombardamenti della notte precedente. Una domanda allora ci
facciamo: dov’è la comunità internazionale in tutto
ciò? Cosa sta aspettando per iniziare ad aiutare attivamente queste
persone?
Fino ad ora, l’unica
risposta è stata il silenzio.
Global Project
©
2013 UiKi ONLUS Team
2014-11-09-U
La risposta non può
essere il silenzio