November 12, 2014
REPORT della DELEGAZIONE della Associazione Verso il Kurdistan
recatasi nel Kurdistan iracheno tra l'11 ed il 19 ottobre 2014
Ankawa Mall doveva essere un
centro commerciale: oggi, i lavori si sono fermati, c’è solo lo
scheletro, tra pilastri, muri divisori e arcate incomplete.
Qui sono arrivati da pochi giorni
i profughi cristiani di Mosul e di Karakosh, sfuggiti alle bande nere
dell’ISIS: 250 famiglie, per un totale di 1.100 persone.Sono gli attuali
abitanti di Ankawa Mall.Il campo che stiamo visitando è stato allestito
dall’UNHCR, ma la situazione appare subito disastrosa.
La gente sta stipata in box,
ricovero per una famiglia di almeno dieci persone; nuclei famigliari inferiori,
devono dividersi il box. Una tenda funziona da parete divisoria.Accanto ai box,
sono stati sistemati fornelli e cucine.
C’è carenza di bagni
e di servizi igienici che fanno crollare il livello delle condizioni igieniche:
diarrea, malattie della pelle, scottature, affliggono i rifugiati.Parecchi sono
ancora traumatizzati: quasi ogni famiglia ha perso qualche parente.
All’interno di un box, ci
fanno notare una ragazza, distesa su una branda, lo sguardo perso nel vuoto. Da
settimane non parla. Muta di fronte a tanto orrore!A breve, tra un mese,
cominceranno ad arrivare piogge e freddo invernale; ed allora, i problemi si
moltiplicheranno.
Con una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, il Kurdistan iracheno ospita 1.300 mila profughi, quasi il
30% della popolazione.Vivono in tende, campi, anfratti, palazzi in costruzione,
scuole, in condizioni disperate.
Il governo autonomo della regione
kurda è stato il primo attore umanitario ad intervenire, aiutando questa
improvvisa marea di profughi, apprestando ripari, trasporti, cibo, acqua e
medicine.
Ma fa quel che può. Da
febbraio di quest’anno, sono venuti meno i trasferimenti del governo
centrale e le casse della regione kurda sono al collasso. E pure l’UNHCR
lamenta grosse difficoltà per scarsità di fondi.
Non c’è pace per chi
fugge da guerra e terrore.
Makhmur si trova ai margini del
deserto iracheno, a circa quaranta chilometri di distanza da Hewler, antico
nome kurdo della città di Erbil.Assaltato due mesi or sono dalle bande
nere dell’ISIS, è stato riconquistato dai guerriglieri del Pkk
dopo una battaglia che ha avuto un suo pesante prezzo in termini di vite umane:
sette morti e quattro feriti.
Il campo, fatto di casupole in
mattoni di terra cruda e pietra, ospita 12 mila profughi, fuggiti dal Kurdistan
turco, quando l’esercito di Ankara ha cominciato a bruciare e bombardare
i loro villaggi di frontiera. Inseguiti dagli elicotteri turchi, hanno
attraversato le montagne coperte di neve che separano la Turchia
dall’Iraq e sono arrivati in questa regione.
Dal 2012, il campo di Makhmur
è interessato da un progetto solidale dell’Associazione Verso il
Kurdistan di Alessandria, per la realizzazione di una struttura sanitaria
permanente.
Manca anche l’acqua
potabile a Makhmur, quella che c’è è inquinata da
idrocarburi, e per questo, viene trasportata quotidianamente con autocisterne
da una falda acquifera pulita che si trova a circa dieci chilometri di
distanza. Mancano medicinali a Makhmur. Manca anche l’unica ambulanza che
c’era nel campo a Makhmur, rubata dalle bande dell’ISIS.
La povertà ed il disagio
sono evidenti, ma vissuti con dignità.Ci invitano per il pranzo:
ospitalità generosa e cibi eccellenti.Al momento di ripartire, tanti
bambini ci accompagnano con sorrisi e con il classico saluto con le dita
divaricate a V.
Due ragazze, kefia in testa, tute
da guerrigliere e kalashnikof in spalla, ci salutano, mentre tornano dal turno
di guardia all’ingresso del campo.
Bandiera kurda a mezz’asta
all’entrata della sede del Parlamento regionale kurdo.
Un devastante attentato con tre
camion imbottiti di esplosivo ha fatto oltre cento morti a Karatepe, settanta
chilometri da Kirkuk.
Jaffar Ibrahim Eminki, vice
presidente del Parlamento della regione, usa toni preoccupati e parla di
momenti difficili: “ISIS ha cercato di conquistare Erbil, ma i peshmerga,
pur essendo dotati di armi leggere, hanno respinto l’offensiva. Oggi
siamo impegnati in combattimenti per riconquistare alcune nostre città.
I nostri sforzi ci hanno portato al controllo della città petrolifera di
Kirkuk, da sempre contesa e per la quale avrebbe dovuto tenersi un referendum,
mai fatto. Sappiamo che ISIS dispone di armi chimiche: i nostri soldati feriti
ne portano segni evidenti. E oggi in Parlamento ci sarà una presa di
posizione a sostegno dei nostri fratelli kurdi del Rojava e di Kobane, sotto
assedio.”
All’incontro in Parlamento,
abbiamo portato una bottiglia d’ acqua inquinata del campo di Makhmur.
Chiediamo che il governo regionale del Kurdistan intervenga per garantire
condizioni di vita e di salute migliori, stessa richiesta che, di lì a
poco, facciamo a Sokol Kondi, di origine albanese ed oggi capo del dipartimento
UNAMI dell’ONU.
Entrambi ci assicurano un loro
interessamento. Staremo a vedere se alle parole seguiranno fatti concreti.
Intanto, fuori, nei giardini
difronte al Parlamento, kurdi siriani, turchi, iraniani ed iracheni hanno
istituito da sette giorni un presidio per chiedere supporto ed interventi
concreti a favore del Rojava e della cittadina di Kobane, la città che
resiste, la “Stalingrado” kurda.
In Iraq, gli yazidi – o
ezidi come amano definirsi in lingua kurda – prima che arrivassero le
bande dell’ISIS, erano circa 600 mila; di questi, 400 mila vivevano in
villaggi, tra i monti del Gebel Singiar, la zona al confine con la Siria.
Siamo saliti con il pulmino a
Sexan (o Shaykhan), una città di 140 mila abitanti, dove vivono 6 mila
yazidi, a cui se ne sono aggiunti altri 4 mila, profughi, in fuga dai massacri
delle orde nere. Per arrivare fin qui – ci raccontano – hanno
camminato su sentieri di montagna per dieci giorni.
Lo yadismo, insieme
all’ebraismo, è la più antica religione del mondo.
Perseguitati da sempre.
“Eravamo 17 milioni, siamo rimasti in 700 mila”, ricorda un loro
detto. Gli islamisti sostengono che “adorano il diavolo”. Ma non
è vero. La loro religione deriva dalle predicazioni di Zarathustra.
Gli yazidi sono una
comunità chiusa, gli sono proscritti i matrimoni interreligiosi e sono
coperti da un alone di segretezza. Sono di lingua kurda, festeggiano il
Capodanno il primo mercoledì di aprile, pregano guardando il sole,
propiziando prima per il prossimo e poi per se stessi. Il loro leader politico
è l’Emiro (Amir), che nomina il capo spirituale, il
“maestro” (Shaykh).
Nel villaggio di Baadre, poco
distante, 12 mila abitanti, quasi tutti yazidi, siamo arrivati per incontrare
una ragazza yazida di 17 anni, scappata dalla regione di Singiar, dove è
rimasta prigioniera dell’ISIS per due mesi e dieci giorni. Richiede
l’anonimato per paura di rappresaglie nei confronti dei suoi parenti
ancora nelle mani dell’esercito nero. Ci racconta delle donne che
venivano portate nei mercati per essere vendute come schiave. Lei, dopo
ripetuti tentativi di fuga repressi con la prigione, è riuscita a
fuggire, raggiungendo una prima casa che però le ha rifiutato
l’ospitalità e quindi una seconda famiglia che l’ha aiutata
nella fuga.
Lalish è la
“mecca” degli yazidi. Si trova a
A Lalish si trova la tomba dello
sceicco Adi Ibn Musefir, morto nel 1163, figura preminente della religione
yazida.Almeno una volta nella vita, gli yazidi sono tenuti ad un pellegrinaggio
di sei giorni per visitare la tomba dello sceicco e altri luoghi sacri.
Ci muoviamo nel tempio tra otri
piene di olio di oliva che si usano per alimentare le lampade votive; dalle
colonne pendono drappi di sette colori diversi, a rappresentare i sette angeli
di Dio.Tutt’intorno a Lalish ci sono profughi scampati alla furia
dell’ISIS. Sono accampati ovunque, in tende, ripari di fortuna. Sono
curiosi di noi.
A Sulemanya, cuore pulsante del
commercio e dell’attività industriale, incontriamo il PYD, il
partito dell’unità democratica del Rojava (Kurdistan siriano), il
più importante partito kurdo della regione.Ci ricevono con la formula
consolidata del tandem uomo/donna, ovvero un presidente e una co-presidente.
Sono tre ore di confronto e di
discussione, dove, al centro sta l’esperienza del l’autogoverno dal
basso del Rojava, le assemblee popolari, l’autodifesa popolare armata di
uomini e donne contro le bande assassine dell’ISIS, la democrazia
paritaria.
In Siria, vivono 3 milioni e
mezzo di kurdi, due e mezzo nel Rojava.
Kobane, che fino a qualche mese
fa, era solo un puntino sulla carta geografica della Siria, oggi è
conosciuta in tutto il mondo, per la strenua resistenza contro le forze
dell’ISIS.Dal 2012, il Rojava è stato suddiviso in tre cantoni:
Cizire, Afrin e Kobane.
Ciascun cantone con
un’autonomia amministrativa, una propria Costituzione ed una
rappresentanza parlamentare comprensiva di tutti i gruppi etnici e religiosi.
Per ogni carica, c’è
un corresponsabile uomo e donna.Le donne sono rappresentate in tutte le istanze
nella misura del 40%.Ci sono tre lingue ufficiali: il kurdo,
l’arabo/siriano e il siriano (aramaico).
“Purtroppo, in questo
momento di guerra, l’economia è a pezzi – ci dicono –
l’esempio del Rojava con la sua democrazia partecipata e paritaria,
rappresenta un modello dirompente per tutto il Medio Oriente. Per questo,
vogliono cancellare questo esperimento”.
E l’ISIS prontamente
esegue. Ma i burattinai stanno da un’altra parte; da un lato, fanno parte
anche nella coalizione dei settanta Paesi che si battono contro l’ISIS,
ma dall’altro, finanziano e coprono le gesta degli uomini del terrore.
Hanno ambizioni di potenza nello scacchiere mediorientale.
In questo i kurdi sono veramente
soli. Non hanno ripari, non hanno amici, gli unici amici siamo noi, sono i
popoli.
Verso il Kurdistan
©
2013 UiKi ONLUS Team
2014-11-12-U
Cronache dal Paese di
Zarathustra, nelle terre tra i due fiumi