November 19, 2014
Il confederalismo democratico, la
svolta di Ocalan, l’autodifesa popolare, l’esperienza del Rojava
come antidoto al nazionalismo. Intervista a Yilmaz Orkan di Checchino Antonini.
Le dita corrono su una mappa del
Kurdistan, collegando nomi di villaggi piccoli e città importanti, fuma
sul tavolo una tazza di tè curdo, profumato, la televisione satellitare
alterna scene delle manifestazioni di solidarietà con Kobane e immagini
della guerra in corso. Il racconto si interrompe ogni tanto per ascoltare
quelle notizie.
Poi Yilmaz ricomincia:
«Dieci giorni fa, quando la Coalizione (gli Usa e i suoi alleati,
più le forze combattenti kurde, ndr) ha iniziato a bombardare sono stati
distrutti almeno 40 carri armati dell’Isis a Kobane. Così l’Isis
ha cambiato strategia: ora nasconde le armi pesanti e riceve rinforzi e nuove
armi da Siria e Iraq. Sappiamo che è cambiato il loro comandante.
L’attacco è ripreso ma ora ci sono 150 peshmerga (letteralmente:
partigiani, nome che indica tutti i combattenti kurdi, ndr) con armi pesanti,
in città si combatte».
Yilmaz si riferisce alle
operazioni condotte da gruppi dell’Esercito libero siriano, di arabi di
Kobane e, naturalmente, di Ypg e Ypj, l’Unione di difesa popolare e
l’Unione di difesa delle donne che meglio di chiunque conoscono il
territorio. «Un mese fa c’eravamo solo noi contro 70 carri armati
dell’Isis. Pensavamo che Kobane sarebbe caduta anche per il ruolo
criminale della Turchia. Adesso la situazione è in stallo».
Yilmaz Orkan, 45 anni, rifugiato
politico a Roma, è responsabile dell’Uiki, l’ufficio
informazioni del Kurdistan in Italia. E’ anche membro del Congresso
nazionale kurdo che ha sede a Bruxelles. In Turchia era dirigente
dell’Hadep, partito messo fuorilegge dal governo di Ankara.
Kobane, racconta, è una
città di pianura. Mezzo milione di abitanti in tutto il cantone. Ora non
sono più di ventimila, combattenti compresi. «L’assedio
è su tre lati – continua scarabocchiando una mappa sul mio
taccuino – loro, l’Isis, sono diecimila ma si parla anche del
doppio, almeno mille sono morti ma hanno sùbito dei rincalzi».
L’Isis è composto
soprattutto da militari professionisti, sunniti, veterani delle guerre da
vent’anni, Cecenia, Bosnia, Afghanistan e Iraq. Mercenari più una
parte di kamikaze per dare origine a un miscuglio di jihadismo più
nazionalismo panarabo. Sono foraggiati dall’Arabia Saudita ma può
darsi che le si rivoltino. Secondo Yilmaz, obiettivo del Califfo Nero è
quello di calcare le orme di Saladino, il Califfo che unì i territorio
degli attuali Libano, Siria, Iraq e Giordania. E’ appoggiato da molti dei
clan sunniti che sono minoranza nell’area. «Per questo è
importante trovare un progetto politico per i sunniti in Iraq, al pari del
governo regionale che esiste per i kurdi».
«Sarà una guerra
lunga e dura. Come è accaduto per i palestinesi», aggiunge una
compagna dell’Uiki.
«L’Occidente, i paesi
del Golfo e la Turchia non hanno mai avuto una strategia reale per risolvere i
problemi delle minoranze religiose ed etniche. La soluzione militare non ha mai
funzionato. E’ vero, sarà una guerra lunga e dura», conferma
Yilmaz.
Monarchie sunnite (Arabia e paesi
del Golfo) contro gli sciiti, Iran e Siria che hanno rapporti buoni o discreti
con Russia e Cina; Israele contro Iran, Turchia filo Isis contro Siria e contro
il Pkk. Egitto ambiguo perché storicamente ha ottimi rapporti con la
Siria ma Al Sisi ora prende soldi dai sauditi. Più che un riassunto
delle puntate precedenti è una fotografia molto mossa, e la trama di
quello che sta per capitare di un’area in uno stato di guerra permanente
che, almeno da due generazioni ha desertificato i tessuti sociali di interi
paesi. A guardare indietro, si può dire che la questione kurda è
una delle eredità peggiori della Prima guerra mondiale quando Francia e
Inghilterra si sono divise il le spoglie dell’Impero Ottomano col
Trattato di Sevres del 1916 lasciando incompiuta e ambigua la soluzione per il
Kurdistan.
«C’eravamo accorti
dell’Isis – dice Yilmaz, almeno da tre anni, da quando nella guerra
civile siriana l’opposizione ad Assad si è armata perché
Assad bombardava i villaggi. I Fratelli musulmani erano dentro la Coalizione
nazionale e sono cominciati ad arrivare i jihadisti finanziati dal Qatar e da
Riad con armi e mezzi dell’Occidente. Il Fronte al-Nusra, affiliato ad al-Qāida,
ha attaccato i kurdi. Il loro irrompere sulla scena ha ribaltato i rapporti di
forza. Una situazione che faceva comodo ad Assad nel tentativo di porsi come
difensore della laicità, argine allo stato islamico».Le
informazioni sullo scenario siriano provenivano da incontri tra il Pkk e i
curdi siriani del Pyd, Unione Democratica curda, quella che ha dato vita
all’esperienza del Rojava (alla lettera Occidente).
«Il 19 luglio del 2012
è nato l’autogoverno del Rojava (a gennaio di quest’anno
s’è dato un sistema cantonale) e da allora tutti sono contro
questo esperimento per timore che il contagio si estenda alle altre,
numerosissime, minoranze etniche e religiose dell’area. sono tutti
contro, sia i capitalisti cattivi, sia quelli “buoni”», dice
ancora Yilmaz alludendo certamente agli Usa ma anche ai Brics che agiscono
nell’area, Russia e Cina, e che sono oggetto del desiderio, anche in
Italia, di un campismo, ambiguo, fuori tempo e fuori luogo.L’autogoverno
nasce sulla scia di quella che Ocalan ha definito la “terza via”,
«una strategia che punta al confederalismo democratico da attuarsi tra le
autonomie regionali». Non nasconde, Yilmaz, che il leader del Pkk,
imprigionato dal
Il confederalismo democratico,
appunto, «con le sue quattro gambe»: autonomia per le etnie e
libertà religiosa; diritti alle donne e femminismo; autodifesa ed
economia sociale ecologica.
«Ogni assemblea,
municipale, cantonale e regionale, adotta il sistema co-presidenziale con due
portavoce, una donna e un uomo. Nei municipi kurdi in Turchia, i nostri
sindaci, già ora, sequestrano lo stipendio ai mariti violenti per
l’indennizzo delle loro vittime – Yilmaz scende nei dettagli
– e questo principio di femminismo vale anche per l’esercito, ce
n’è uno degli uomini e uno delle donne per l’autodifesa. Se
non c’era la nostra autodifesa organizzata sarebbe stato un massacro
molto più immane».
Ora l’autonomia regionale
deve affrontare una guerra ma prova a organizzare comunque l’economia
tenendo alla larga le multinazionali e puntando alle energie rinnovabili.
«No al nucleare e no alle dighe», ricorda l’interlocutore
kurdo riferendosi ai conflitti ambientali che vedono le comunità locali
opporsi alle devastanti dighe di Ankara. Ma al momento, nonostante il livello
di consenso eccezionale di cui gode il Rojava, l’assedio consente di
estrarre solo 15-20mila barili al giorno di grezzo invece che il milione di cui
sarebbero capaci i loro pozzi. Afrin, altro importante centro, possiede 15
milioni di alberi di olive ma non può vendere il suo olio. Kobane, la
città divenuta famosa per la sua resistenza, è un centro agricolo
famoso nell’area per le sue lenticchie. Il più grande è il
cantone di Cisr dove vive la metà dei tre milioni di abitanti del Rojava
che parlano almeno 3 lingue: curdo, arabo e assiro.
«Il confederalismo
democratico è un progetto valido sia per la Siria, sia per la
Turchia o l’Iraq dove già esiste un governo regionale kurdo.
E’ uno strumento valido per eliminare le cause del nazionalismo. Su
questo esiste un dialogo con settori dell’opposizione in Siria, con
gruppi dell’esercito libero come Burkan el Ferat».
Il Rojava vuole arrivare alle
elezioni dei propri amministratori ma la guerra blocca anche questo processo.
«Adesso ogni cantone ha un suo consiglio e c’è un livello
centrale, composto da dieci persone, ma è un organismo transitorio. A
questo si è arrivati con una conferenza di 300 delegati. Il quadro
politico vede la maggioranza, per ora, del PYD ma esistono tendenze liberali e
anche islamiche, inizialmente ostili all’autogoverno. Quello che cerchiamo
è un riconoscimento internazionale», continua Yilmaz.
La parola d’ordine del
confederalismo democratico vale anche per la Turchia dove il «nuovo
paradigma» è stato adottato dal
I partiti kurdi vengono messi
ripetutamente fuorilegge ma la resistenza ha prodotto un nuovo orginale
esperimento: Hdp, partito per la democrazia della Turchia, coalizione di
minoranze etniche (assiri, armeni, ebrei, greci, ceceni, circassi, aleviti. I
Turchi sono solo la metà della popolazione di 76 milioni. Invece, dei 42
milioni di kurdi, 22 vivono in Turchia), gruppi di sinistra e movimenti sociali
e per i diritti civili. Hdp ha portato in parlamento un cristiano, un assiro, 8
aleviti, coinvolge settori di islamisti moderati e l’Hdp, alle recenti
presidenziali, ha raccolto il 9,8% confermandosi come la più importante
forza della sinistra nello stato turco. Nelle regioni kurde, invece, agisce il
Bdp, per l’autonomia del Kurdistan e la formazione di assemblee regionali
e comunali. Hdp ha il compito di cambiare radicalmente il sistema politico
della Turchia.
«Il movimento di Gezy Park
a Istanbul – racconta ancora Orkan – scoppia quando un deputato di
Hdp s’è messo a fermare una ruspa. I turchi hanno sperimentato la
violenza della loro polizia e hanno capito le ragioni del popolo kurdo».
Da Gezy Park, quei movimenti sono
arrivati al confine di Kobane per portare solidarietà e forza alla
battaglia per il riconoscimento dell’autogoverno, per chiedere risorse
per l’autodifesa e la fine della complicità di Ankara con
l’Isis.
«In Turchia ci sono almeno
5mila prigionieri politici, molti altri sono stati liberati dopo
l’entrata in vigore della legge che fissa a 5 anni il termine della
carcerazione preventiva. Nelle ultime due settimane ci sono stati centinaia di
arresti tra chi solidarizza con Kobane e l’esercito, con la polizia, ha
ucciso cinquanta manifestanti kurdi.La Turchia appoggia l’Isis, cura i
suoi feriti e vuole distruggere quell’embrione di autogoverno. Il Pkk ha
attuato il rilascio dei prigionieri ma il governo trattiene perfino i detenuti
molto malati.Ocalan non chiede la libertà per sé, è
più importante la questione generale. Il 21 marzo del 2013 (il Newroz,
capodanno curdo, ndr) ha voluto lanciare la campagna per una soluzione
politica. Ci sono stati abboccamenti, nella prigione sull’isola di
Imrali, con un sottosegretario ai servizi del governo Erdogan, s’è
formata una delegazione di tre deputati Hdp ma non è un negoziato vero.
Il processo è bloccato con la guerra di Kobane».
Intanto il Pkk è ancora
nella lista nera delle organizzazioni terroristiche stilato dagli Usa dopo
l’attentato alle Torri Gemelle. Anche in Italia, Francia e Germania ci
sono attivisti kurdi sotto processo. Un ricorso pende al Tribunale del
Lussemburgo e nell’ultima udienza (forse è una piccola
novità) nessuno dei paesi dell’Ue ha voluto rappresentare le
ragioni della lista nera. «Quella lista per i popoli non vale niente
– dice Yilmaz – già ad agosto il Pkk è sceso a sud
delle sue basi per difendere gli Assiri. I peshmerga controllano un fronte
lungo
Il telefono dell’Uiki
squilla in continuazione. Si tratta di attivisti che, da tutta Italia, prova ad
organizzare iniziative su Kobane, il Rojava, la questione kurda.
C’è senz’altro una rinnovata domanda di internazionalismo.
Il primo novembre, in 202 città di 40 paesi, perfino in 6 regioni
afgane, si sono svolte manifestazioni per Kobane. Alcune sono state molto
grandi e Yilmaz calcola che siano stati coinvolti 10 milioni di persone.
«L’Europa deve aiutare Kobane – conclude
l’interlocutore kurdo – senza le pressioni dei paesi europei, degli
attivisti, la Coalizione non avrebbe attaccato l’Isis. Ora chiediamo un
corridoio umanitario per Kobane, il riconoscimento del Rojava, la cancellazione
del Pkk dalla lista nera, l’autonomia piena per il Nord Iraq e per i
kurdi in Iran, la fine dei rapimenti in Iraq. La comunità internazionale
deve isolare i paesi che appoggiano l’Isis e sostenere un progetto
democratico per Siria e Iraq».
Kobane è ormai un simbolo,
il Rojava la prova che esiste un antidoto ai nazionalismi e alla
settarizzazione dell’area, le richieste di Yilmaz sono un banco di prova
per un internazionalismo che provi ad essere efficace.
©
2013 UiKi ONLUS Team
2014-11-19-U
Kobane ha bisogno di nuovo
internazionalismo