November 30, 2014
La lotta, lo scontro, il
lutto; ma anche la gioia di vivere, la speranza, il lavoro quotidiano, la vita.
Il diario della Delegazione Romana per Kobanê
E’ strano come la vita
proceda nella sua normalità anche se a due passi c’è la
guerra, anche se la tragedia ti ha colpito, e anche duramente. Momenti di
rabbia si alternano a quelli di dolore, ma anche a istanti di serenità e
di allegria. Ieri notte
Per capire questa guerra di
confine bisogna provare a immaginarsi il territorio della provincia di Suruc,
in kurdo Pirsus. Si tratta di un altopiano, una vasta pianura delimitata a Sud
dalle colline su cui si sviluppa Kobanê e ad alcune centinaia di
kilometri a Nord dalle montagne del Kurdistan turco. In questo periodo, dopo la
trebbiatura del grano, i campi vengono arati. La campagna è disseminata
di villaggi di poche famiglie, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro;
alcuni dei più grandi hanno la loro moschea, come Mehser, ma
principalmente si tratta di case di fango e magazzini per il grano, il cotone o
i pistacchi.
Così il confine è
solo una linea immaginaria tracciata nel 1923 dalle potenze occidentali,
perché a Nord e Sud la vita è la stessa; almeno lo era prima
dell’arrivo di Daesh. Ci hanno portato lungo questa linea a vedere dove
si trovano le postazioni dei combattenti, come quelle dell’Isis; cercando
di capire come si sviluppa il conflitto nella zona. Andando a Ovest abbiamo
dovuto superare le postazioni dell’esercito turco in forze. In un piccolo
villaggio abbiamo visto da molto vicino Kobanê, dal lato che porta
proprio dove ieri è scoppiato il tir.
Ci dicono che non è raro
che i colpi di mortaio di Al Baghdadi sconfinino, arrivando a poche decine di
metri da loro: ci portano a vedere i resti dell’ultimo proiettile ancora
piantato nel cratere che ha creato. Il confine si vede bene perché
è una linea di macchine che con la luce che sale da Est risplende. E a
ridosso ci sono i campi dell’esercito turco e mezzi in quantità.
Poco più a Sud Ovest ci fanno vedere un altro campo. In cima a una
collina sventolano insieme le bandiere delle YPG e delle YPJ. È una
delle poche postazioni fuori dalla città ancora sotto il controllo
kurdo. Ci offrono un the e ripartiamo.
Ci dirigiamo questa volta a Est.
Un altro villaggio, Zahvan, altre scene di vita quotidiana: donne che cuociono
il pane su una specie di piastra, uomini che sistemano gli attrezzi del lavoro
dei campi. Non siamo mai stati così vicini al confine. Pochi metri
separano noi dalla linea di filo spinato al di là del quale ci sono
campi di mine anti-uomo. Il villaggio ospita un check-point turco di tre
casotti e tre uomini che ci guardano con scarso interesse. Ci portano lì
per farci vedere il villaggio gemello al di là del confine, Kikan. Alla
nostra destra la stessa scena: decine di mezzi abbandonati, alcuni presidiati
da profughi di Kobanê che non potendo passare, come in un limbo,
controllano che le loro macchine non vengano sciacallate dai miliziani
dell’Isis.
Sì, perché a Kikan,
che dista solo alcune centinaia di metri, c’è Daesh: possiamo
vederli col binocolo, alcuni sui tetti delle case, altri tre al bordo del
villaggio. Ci raccontano che ieri sera hanno visto passare un camion, con
decine di reclute dirigersi a Kobanê; ci dicono che da lì, di
notte, passano regolarmente i rinforzi che arrivano dall’Europa, come
dalla Cecenia o dall’Africa; quando ai militari turchi domandano di
intervenire gli rispondono che non sono quelli gli ordini; possono sparare solo
dal loro lato del confine.Ma la vita prosegue.Le donne che lavorano al pane ci
invitano a mangiare: scopriamo che sono profughe ospitate dal villaggio, ci
insegnano a stendere la pasta, ridendo bonariamente della nostra goffaggine.
Torniamo a Suruc. Dopo aver
parlato con i volontari che vengono da tutta
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