December 02, 2014
Enclave curda a ridosso del
confine turco, qui si combatte ancora sul campo e dal cielo. Storia di una
città sconosciuta prima dell’assedio dei miliziani dello Stato
Islamico
Kobane è ormai da
settimane il nuovo paradigma dell’indifferenza in cui sprofonda
Kobane dunque, l’enclave
curda nel nord della Siria che gli arabi chiamano Ayn al Arab. Fino
all’inizio dello scorso luglio questa città di circa 55 mila
abitanti a ridosso del confine turco godeva della relativa autonomia guadagnata
due anni prima nel pieno del conflitto già violentissimo tra il regime
di Damasco e i suoi oppositori. Allora, nel luglio 2012, era passata sotto il
controllo degli indipendentisti curdi di Yekineyen Parastina Gel noto come YPG,
l’Unità di Protezione Popolare, il braccio armato del Partito
dell’Unione Democratica nato nel 2004 ma diversamente dal Partito dei
Lavoratori Curdi (PKK) rimasto fino a quel momento relativamente lontano dai
riflettori.
Fino a sei mesi fa insomma Kobane
è ancora nome sconosciuto ai più, dove vivono curdi, arabi,
turcomanni e una vaga memoria di presenza armena nei resti di 3 antiche chiese
(gli armeni in fuga dall’Anatolia erano arrivati qui nel 1915 per poi
emigrare in massa in Unione Sovietica negli anni ’60). La zona è
relativamente tranquilla ma strategica, la vicinanza con
Nel 2011 i curdi di Kobane non
partecipano all’inizio della rivolta contro il regime siriano, aspettano.
Una parte delle forze curde (in particolare vicine al PKK, con cui il YPG
è in buoni rapporti sebbene si sia sempre distanziato dalla violenza) ha
in passato più volte filtrato con Damasco nell’eterno minuetto
siro-turco. Il presidente siriano Assad prova all’inizio a dividere il
fronte nemico concedendo la cittadinanza a 200 mila curdi e sperando di far
loro dimenticare i diritti negati per decenni, ma non serve. Quando
nell’ottobre del 2012 i primi colpi di mortaio sono caduti in territorio turco
infiammando i già burrascosi rapporti tra Assad e l’allora premier
Erdogan, Kobane e la vicina Ras al Ayn sono di fatto una “colonia”
indipendente che ha approfittato dell’assedio di Damasco ai ribelli di
Aleppo per ritagliarsi l’autonomia impensabile fino a due anni prima (con
tanto di targhe con dicitura Kurdistan Occidentale). Dal lato turco
c’è Ceylanpinar, città gemella di 45 mila anime, da cui i
fratelli curdi separati solo dal confine si salutano in curdo, «Bi xatire
te!».
Il Kurdistan Occidentale (Rojava)
a quel punto si basa sul governo a interim di PYD e KNC (Kurdish National
Council). Il sogno è ancora quello di una futura Siria federale post
Assad con una regione curda indipendente sul modello iracheno. Invece a un
certo punto la guerra civile divampa, il paese precipita nel baratro e i curdi
di Kobane, con i loro circa 50 mila combattenti uomini e donne, si trovano a
difendere il loro territorio non più solo da eventuali controffensive di
Assad ma dai nuovi signori della guerra, i quaedisti (a quel punto sono
già iniziati gli scontri tra i curdi, più laici, e i miliziani
sunniti più estremisti, arabi contro curdi, tutti contro tutti).
Nel 2013 di fatto
A giugno di quest’anno
l’Europa e l’occidente tutto scoprono
Per tutta l’estate i media
parlano dei peshmerga, i valorosi combattenti del Kurdistan iracheno che
affrontano lo Stato Islamico ma che non vanno d’accordo con i
“connazionali” del PKK (ancora per molti paesi considerati un’organizzazione
terroristica). I peshmerga sono unità note all’occidente,
già in campo nella guerra Iraq-Iran e a fianco della coalizione a guida
americana nella guerra contro Saddam Hussein. Ma i pur formidabili peshmerga
non bastano e a un certo punto, pur di fermare il Califfato, ci si arrangia sul
territorio anche a costo di far infuriare Ankara e si “arruolano” i
battaglioni del YPG e del PKK. Allora iniziano anche i bombardamenti della
coalizione a guida Usa (che comprende i paesi del Golfo e il sostegno europeo).
A ottobre lo Stato Islamico, che
a quel punto controlla 350 tra villaggi e città curde, raggiunge la
periferia di Kobane e inizia l’assedio che dura tuttora (i tagliagole di
al Baghdadi ci avevano già provato invano a luglio). Le Nazioni Unite
lanciano l’allarme: a oggi si stima che 400 mila persone abbiano lasciato
la regione intorno alla città e siano riparate in Turchia. Il 20
ottobre, combattendo casa per casa, pare che la città sia caduta e le
bandiere nere del Califfato sventolino sul 40% degli edifici. Invece no,
l’epilogo non è ancora scritto: Kobane, ribattezzata
Kobane è una trincea, si
spara in terra e in cielo, i raid scandiscono le notti e i bombardamenti i
giorni con un prezzo altissimo di vittime militari ma anche civili.
di Francesca Paci
© 2013
UiKi ONLUS Team