Il fine giustifica i mezzi
December 04, 2014
Al campo Newroz pioviggina. Anzi
piove. Ci sono pozzanghere e fango. Bisogna stare attenti a non scivolare nel
fango, e certe volte non è facile, soprattutto quando non
c’è corrente e ci si muove con la luce del cellulare.
Alan è uno degli abitanti del
Rojava che qui si da da fare nel comitato per le relazioni. Spiega che tutto
è organizzato in comitati: c’è la scuola dove i ragazzi
imparano in curdo, ci sono le attività organizzate dal centro culturale
per insegnare ai bambini il canto e la danza, c’è la tenda delle
donne dove si studia la storia delle donne e del Kurdistan, c’è la
tenda degli uomini dove si studia la storia del Kurdistan e si può
vedere la televisione, c’è il comitato per i servizi che si occupa
di organizzare i lavori necessari nel campo, eccetera, eccetera. Nuri, invece,
è originario di Shengal e parla inglese molto bene, portandomi in giro
nel campo e traducendo le interviste, ma non dimenticando di raccontare la
storia della sua gente. Quando mi porta nella tenda della sua famiglia per
mangiare e dormire e mi domanda: “hai presente un libro che si chiama
“il Principe”, scritto da Macchiavelli? In quel libro
c’è una frase: “il fine giustifica i mezzi.” Ecco, noi
siamo i mezzi sacrificati per il fine dell’occidente e degli altri Stati
qui attorno. Però non siamo stupidi, no, noi capiamo cosa
succede.”
La fuga da Shengal
Racconta Nuri che “mentre i
Peshmerga, codardi, se ne scappavano dalla nostra città, le bande
dell’ISIS rapivano le nostre donne, anche ragazzine di 9-12 anni, e le hanno
portate via per venderle, oppure per violentarle.” Mi guarda negli occhi
con degli occhi neri – Nuri ha esattamente la mia età – e mi
domanda “hai un’idea di cosa significhi sapere che le ragazze della
tua gente sono state rapite per essere violentate o vendute? A migliaia. Tutti
qui ti racconterebbero la stessa storia, ma non in molti hanno la forza di
farlo. Fa male a pensarci, ogni volta che ci penso sento come una pietra nel
petto, mi si blocca il pensiero. Sono state portate a Raqqa, o vendute in Arabia
Saudita o nello Yamen. Violentate e vendute, le donne yazide nelle mani di
quegli sporchi individui. Se chiudo gli occhi sento le loro urla nelle
orecchie. Quando siamo scappati nelle montagne, alcune si sono gettate dalle
alture pur di non andare in mano agli uomini dell’ISIS. So che ad una di
loro hanno tagliato il seno perché si è rifiutata di andare in
sposa ad un uomo dell’ISIS, l’hanno lasciata sanguinare a morte, ed
hanno portato le altre a vedere. Le nostre donne stavano urlando talmente forte
da far piangere gli angeli nel cielo.” Parlando di angeli, Nouri spiega
che secondo la loro religione, monoteista e antica più di 6000 anni,
c’è un unico Dio e sette angeli, e conclude “persone che
credono in Dio non possono fare questo. Per loro, Dio è solo uno
slogan.”
Parlando di religione, poi, spiega come durante il genocidio degli armeni la
sua gente abbia offerto rifugio a questo popolo di religione cristiana.
“e i cristiani, adesso, dove sono? Che penserebbe il Papa se vedesse
questo? Che fanno gli Stati Uniti, che pretendono così spesso di agire
in nome di Dio?” Poi racconta della fuga verso le montagne:
“Abbiamo lasciato indietro cadaveri dei nostri cari senza poter dare loro
nemmeno una degna sepoltura, mentre altri sono stati ammazzati mentre scappavano.
Durante il viaggio non c’era cibo o acqua, molti bambini sono morti.
Molti sono stati costretti a lasciare i propri nonni a casa, perché non
riuscivano a trasportarli nelle montagne, ci sono migliaia di anziani ora nelle
mani dell’ISIS; addirittura alcune donne hanno partorito durante il
tragitto ma non sono riuscite a portare i propri figli con se’,
perché dovevano prendersi cura degli altri, non ce la facevano. Poi le
montagne ci hanno nascosto e ci hanno protetto, è come se i monti
fossero una nostra seconda madre. Lassù ci sono ancora 1700 – 2000
famiglie, sono isolate e non riescono a scappare. Il fine giustifica i mezzi, e
noi siamo i mezzi sacrificabili.”
“Li a difendere la nostra gente rimasta sulle montagne ci sono le YPJ-YPG
(unità armate del Rojava) le HPG (gruppi di guerriglia del PKK –
dalle montagne del Kurdistan turco) e le YBȘ (Yakinen Brexwedana Șingal – Unità di resistenza di Șingal), ed io accuso non solo l’ISIS
e le tribù iraqene che ci hanno attaccato, ma anche il KRG (curdi iraqeni)
che non ci hanno difeso, coloro che finanziano l’ISIS e comperano il suo
petrolio, coloro che lo hanno creato, coloro che ci considerano solo degli
espedienti per i loro piani nel medio oriente: coloro per i quali siamo i mezzi
giustificati da un fine che non ci riguarda.”
Dopo aver spiegato che i
rifugiati Iazidi di Shingal non si trovano solo in questo campo profughi, ma
anche in Turchia, Georgia e Armenia, si raccomanda che scriva una frase sotto
dettatura: “noi non accusiamo l’ISIS, lui fa ciò che vuole,
noi accusiamo voi che siete Paesi ed organizzazioni grosse e non fate il
possibile. Voi potete fare molte cose!”
Il campo Newroz
Dopo la fuga, circa 6000 abitanti della zona di Shingal sono giunti appunto al
campo Newroz, in Rojava, cantone di Gizira. Sono circa 700 famiglie Yazide e
una ventina di famiglie di origine araba. La copertura delle tende è
fornita dall’UNHCR, ed è gestito dallo stesso ente in
collaborazione con il cantone di Gizira. Nelle strade tra le tende non c’è
nulla che freni il fango, a parte qualche grumo di sassi qui e li. Alcuni
bambini fortunati hanno degli stivali di plastica qualche taglia troppo grandi,
qualche altro meno fortunato ha solo delle ciabatte. La pavimentazione delle
tende consiste in alcuni teli di nylon e tappeti, mentre la copertura è
fatta di materiale impermeabile ma infiammabile (è già successo
che una tenda andasse a fuoco, mi spiegano al campo), e privo di strati
isolanti di cui invece sono dotate per esempio le tende dei campi profughi di
Pirsus-Suruc. Non c’è riscaldamento all’interno delle tende,
e di notte fa freddo: l’UNHCR fornisce coperte di pile che vengono usate
non solo per scaldarsi ma anche per dividere in scomparti l’interno delle
tende e in alcuni casi cucite per farne vestiti invernali. Il pile però
non è un buon isolante dal terreno e i sottili materassi di gommapiuma
forniti nemmeno: così, alcune donne pettinano lana per farne materassi
(vedi foto) che possano isolare dal pavimento freddo durante l’inverno
che sta arrivando, e che mi dicono che da queste parti porta anche la neve. Nei
dintorni del campo ci sono piccoli gruppi di capre, e una recinzione per le
galline “sono dei pochi profughi che sono riusciti a portarle con loro da
Shengal,” spiega Alan “ma dove vivevano ne avevano molte molte di
più.”
Hussein viene da Derek, il paese
vicino al campo Newroz, è Iazida originario del Rojava. Spiega le
attività portate avanti dal centro Dijla per l’arte e la cultura
all’interno del campo: si effettuano corsi di musica, teatro, disegno,
poesia, inglese, sport, danze tradizionali, e su come prendersi cura di se dal
punto di vista psicosociale. “ci sono tra i 220 e i 300 bambine/i e
ragazze/i che partecipano alle lezioni. Il progetto è portato avanti con
il finanziamento di Save the Children, ma sono molto lenti nel mandarci il
materiale e non è sufficiente… come vedi i lavori per la
costruzione dei servizi sanitari (cioè una piccola stanza che dovrebbe
ospitare un water – che qui è sostanzialmente un buco nel terreno)
sono ancora in corso.” Altri insegnanti che lavorano qui mi spiegano che
Save The Children li paga per questo che è certamente un lavoro a tempo
pieno, e che lo “stipendio” consiste in 190 dollari al mese.
È da sottolineare che non tutti gli insegnanti sono Yazidi, e che
dall’altro lato molti tra di essi sono anche gli profughi che abitano il
campo. Quindi, mentre pochi metri più in la una tenda più grande
ospita le lezioni della scuola di curdo, qui lo scopo principale è
fornire supporto psicosociale ai ragazzi e alle ragazze “vogliamo che
queste e questi giovani passino dei momenti felici, per poter dimenticare per
un momento quello che hanno passato; e vogliamo continuare a tramandare loro la
cultura Yazida perché anche se si trovano lontano da casa non si
scordino delle loro origini. Con questa gente che ha necessità di tutto
– dal cibo a un tetto dove dormire – noi creiamo vita dalla
morte.”
Rokan, al centro per la salute,
spiega che è volontaria della mezzaluna rossa curda, “questa
mattina sono stati distribuiti i vaccini contro le paralisi infantili, sono
stati dati ai bambini e bambine con età che va da un giorno a 6 anni.
Qui non ci occupiamo solo di distribuire medicine e cure mediche, ma anche
pannolini, assorbenti, latte in polvere per i neonati, e sacchi per le immondizie.
Abbiamo necessità di medicine contro le infezioni, contro il
raffreddore, antibiotici, analgesici, per i problemi digestivi e contro
l’ipertensione” spiega “la maggior parte di queste riesce ad
arrivare dall’Europa o da altri Paesi per vie non legali.” Infatti
il Rojava è sottoposto ad un embargo da parte delle forze o degli Stati
che lo circondano: non può commerciare attraverso
Prima di addormentarmi nella
tenda di fianco alle sue sorelle, domando a Nuri “senti, ma è vero
che ci sono anche due donne Yazide che si sono unite alle YPJ?” e lui
risponde: “no, non due, molte di più. Io spero che un giorno
avremo anche noi una nostra unità armata composta di donne.”
di Silvia Todeschini
http://libera-palestina.blogspot.it/2014/12/il-fine-giustifica-i-mezzi.html