Lunedì 15 Dicembre 2014 13:37
Un curdo
assimilato, tra Gezi Park e il Rojava
L'intervista che segue è stata
realizzata a Bologna lo scorso settembre, durante le giornate di discussione
dell'Infoaut Connection. Ozan, come spiega bene
nel'intervista che segue, è un curdo assimilato, un curdo della
metropoli. Ma è anche un'attivista dei movimenti sociali.
All'appuntamento bolognese ha fatto un interessante intervento (ascoltabile
qui) sulla lotta di Gezi Par, da cui ha preso spunto la
chiacchierata che abbiamo fatto insieme.
Prima mi dicevi del tuo
essere un "curdo assimilato"... Cosa significa questo, politicamente?
E che rapporto ha con la "questione curda" in questo preciso momento?
Significa che se io sono un curdo che rifiuta di vivere nella
propria terra e decido di vivere in Turchia, ho due opzioni. La prima: non
parto e resisto, aumento le possibilità di essere ucciso. La seconda:
vivo in esilio. E quando dico esilio, non intendo andare fuori dalla Turchia,
in Svezia o in Europa... intendo anche solo andare a vivere in una grande
città, come Istanbul. La mia assimilazione comincia nel momento in cui
un curdo sceglie di non restare a casa ed andare nella grande città
cercando di farsi una vita lì
È la tua storia?
Non è la mia storia in
particolare, è una storia generale nel processo di assimilazione. Cosa
significa questo per me? Primo, che la lingua curda, che è alla base del
movimento curdo, non è la mia lingua. E come dice un proverbio curdo,
"senza lingua, non c'è vita". Possiamo fare un paragone con la
vicenda Irlandese. L'Ira organizzava la sua gioventù attraverso
l'aggregazione degli sport gaelici. I giovani irlandesi che non giocavano a
calcio, iniziavamo a giocare a rugby dove i leader parlavano gaelico e questi
ragazzi diventavano in seguito membri dell'Ira. Il corollario di questa
esperienza per il movimento curdo è la lingua. Non hanno sport
particolari ma hanno la lingua. Chi parla la lingua curda è un
antagonista potenziale [dello stato turco] che può essere organizzato
nel movimento. L'oppressore (lo Stato, l'Esercito) conosce questa dinamica, ha
capito molto presto l'importanza della lingua: se togli al curdo la sua lingua,
gli togli la possibilità di organizzarsi. Quindi, quando dico che sono
un "assimilato", non significa che ho dimenticato la mia
identità di curdo, ma che sono stato separato dalla mia lingua e quindi
impossibilitato a contribuire al movimento antagonista curdo, non potendo
parlare la mia lingua.
Quello che stai dicendo
mi sembra tocchi un punto cruciale, per questo tipo di lotte che si battono per
l'autodeterminazione, per popoli come quello curdo. Nel tuo discorso mi sembra
venga assunto qualcosa come, non direi tanto una critica, quanto piuttosto un
contenuto di complessità e contraddizione in casi come il tuo, nel loro
relazionarsi a questo tipo di lotte. Come si relaziona tutto questo con la
nuova fase inaugurata dal movimento curdo, dove si afferma: non c'interessa più
perseguire un'autonomia nazionale, statale ma proponiamo il
“confederalismo democratico”. Che relazione c'è? Sembrerebbe
che questa nuova strada porti delle possibilità nuove di potenziamento
[empowering] della lotta curda...
Credo che la parola che
hai usato, "empowerment", sia quella giusta. Perché se
pensiamo che il Pkk fosse nella posizione di creare uno stato-nazione, con dei
confini precisi che lo separano da un'altro stato, probabilmente - qualunque
cosa succeda - io non sarei in grado di partecipare, sentirmi coinvolto in
questa lotta. Perché i confini continuano a essere qualcosa contro cui
mi batto.
Secondo te quanto questa
posizione è stata realmente assunta dal movimento curdo nel suo insieme?
O permane piuttosto il rischio di un ritorno a una posizione più
nazionale, dove gente come te - anche se non detto - viene percepita come
"non completamente curda" o come "curdi di serie B"?
Non
penso ci siano più rischi in questa direzione, perché c'è
già un esempio storico di una vasta area curda con frontiere, il nord
dell'Irak. Da quella esperienza, oggi, curdi come me - gli assimilati delle
grandi metropoli - sanno bene che l'istituzione di un "libero stato del
Kurdistan" definito dalle frontiere non aiuterebbe il movimento,
aiuterebbe solo il capitalismo ad allargarsi. Un Kurdistan con le frontiere non
aiuterebbe la gente come me, perché quei confini imporrebbero a me un
passaporto per entrare in quelle terre mentre il Capitale entrerebbe
liberamente. Quindi la nuova ricerca del movimento curdo, di un confederalismo
democratico oltre lo stato-nazione, è più interessante per me.
Pensi quindi davvero che
questa sia un assunto politico, un punto politico di non-ritorno per il
movimento curdo?
Non penso che si sia
intrapresa una strada senza possibilità di ritorno indietro - può
esserlo - ma penso sia oggi una realtà in costruzione. In ogni caso,
anche se sarà un errore, è un errore che va fatto, perché
consisterà comunque di un'esperienza.
Tutto questo mi ricordo
un testo degli anni '80, che lessi tempo fa, credo di Félix Guattari.
Ragionando sul riemergere potente di queste lotte per l'autonomia territoriale
in quel decennio, baschi, corsi, nord-irlandesi, l'Intifada palestinese,
scriveva: tutte queste lotte sono interessanti perché portano processi
di soggettivazioni differenti dentro la sfera dello stato-nazione, della
Repubblica... ma allo stesso tempo si domandava: “cosa possiamo fare noi,
noi che non abbiamo la fortuna (o la sfortuna) di essere baschi, corsi,
palestinesi ecc...?”.
E proprio questo il punto!
Cosa sta succedendo ora
nel Rojava, sinteticamente?
La cosa
più visibile oggi è il movimento delle donne. il 70 % delle
milizie del Rojava è composto di donne. Non credo sia solo una
coincidenza che Ocalan abbia detto "non ci sarà liberazione del Kurdistan
se non ci sarà liberazione delle donne curde". Perché come
nel mio caso, ma la cosa ha un valore più generale, la lingua la
apprendi dalla madre, non dal padre. Per cui, se le donne arrivano definire la
loro posizione altrimenti che dall'essere-madri o l'essere-mogli, vuol dire che
qui sta davvero succedendo qualcosa. Il Rojava rappresenta quindi per me una
prova evidente di questa teoria, perché le donne entrano nelle milizie
non perché vogliono combattere ma perché odiano la loro vita
domestica, la condizioni di vita dettate loro in quanto donne.
Josef: Apro una parentesi come traduttore: una compagna
è andata a Lice a fare un'inchiesta fra le donne, subito dopo il
processo di pace tra Pkk e Akp e ha chiesto loro: "Adesso che è
andata via la guerriglia, cosa pensate?". E loro le han risposto:
"Gli uomini sono andati via... Ok! Questo lo possiamo capire, però
che siano andate via anche le donne guerrigliere questo non è bene,
perché quando avevamo problemi coi mariti, loro scendevano dalle
montagne e li prendevano per le orecchie. Avevano una funzione molto importante
per noi, in questi paesi".
***
Che peso hanno avuto i
social media nella rivolta di Gezi e nelle altre esperienze politiche?
Penso che la cosa abbia avuto grande rilevanza, non solo per il movimento curdo
ma anche per quello che è successo con le cosiddette "primavere
arabe". È evidente che questi possono anche essere potenti mezzi
per organizzarsi. Perché in tanti contesti la gente non ha degli spazi
propri. La differenza tra noi nella Turchia occidentale o quello che avviene
nelle zone curde è che noi non abbiamo spazi per organizzarci, come
magari avete invece coi qui con i centri sociali, le occupazioni...
Considerando la censura operante nel media mainstream nel nostro paese, quando
abbiamo scoperto i social media abbiamo scoperto un luogo in cui
potevamo comunicare senza la censura, senza mediazioni. Per farvi un altro
esempio: se io, come giovane curdo, guardavo Roj TV, un canale curdo che
trasmette in Norvegia, io potevo vedere sia i dibattiti in studio, che facevano
lì sulla situazione in Kurdistan, oppure Kandil, ma io non sto in
nessuno di questi posti...
Se una giornalista venisse a Roboski, Uludere, a fare un'intervista con me,
verrebbe subito arrestata. Così quando è arrivato Facebook e gli
altri social media, abbiamo potuto comunicare direttamente tra persone, non
solo tra uno che stava a Kandil e un altra che stava in Europa, ma tra noi qui
dei diversi territori curdi.
Un'anno e mezzo
dopo le manifestazioni per Gezi Park, cosa resta in Turchia, a Istanbul di
questa esperienza?
I forum (le assemblee pubbliche), le
occupazioni, una nuova idea di politica per i partiti comunisti e di sinistra:
l'opposizione ai grandi progetti [grandi opere] e la lotta in difesa dei commons.
Probabilmente molte altre cose che a me sono sfuggite ma che esistono, nuove
potenzialità che devono ancora materializzarsi. Tutte queste nuove
esperienze, tutte queste potenzialità, hanno modo di scoprirsi e
conoscersi meglio, per trovare un modo di unificarsi contro il nemico comune.
Sono a tutt'oggi esperienze vive, quotidiane, settimanali?
Sì, non solo settimanali,
quotidiane o mensili, sono delle esperienze in divenire. Sono un'esperienza
vera e importante. All'inizio - allo scoppio di Gezi - erano partecipate da
tantissima gente, diverse centinaia, in cui si discuteva di tutto, anche di
stronzate; adesso, col tempo, i partecipanti sono magari diminuiti ma le cose
di cui si discute sono più profonde e concrete.
Ci sono o ci sono state nell'ultimo anno, manifestazioni o prese di
parole pubbliche contro le responsabilità dello stato turco nella guerra
che si combatte ai suoi confini, in Siria?
Molte, in parte dovute anche al
fatto dell'aumento improvviso dei profughi, si parla di 1 milione e mezzo di
persone ed è una stima minima. Quando la guerra iniziò e ci
furono i primi profughi, essi erano soprattutto concentrati nel sud-est. Ora,
dopo tre anni, non potendo garantirsi la sopravvivenza nel sud-est, i profughi
hanno cominciato ad emigrare verso le grandi città, a Istanbul, Smirne
ed Ankara. Ora nella parte vecchia di Istanbul, non si vedono più
homeless ma siriani. Quello che sto cercando di dire è che quando
stavano nel sud-est non erano così visibili, ora ci vivi accanto. Prima
non li vedevi, non ti preoccupavi di loro. Adesso, quando giri per le strade di
Istanbul e vedi una ragazzina di 6 anni che fa l'elemosina, la tua relazione
con loro cambia. Ci sono state anche manifestazioni. Me ne ricordo una, prima
di Gezi, in cui 800.000 persone hanno marciato nella capitale contro la guerra
in Siria. Ce ne sono state anche nella zona curda, lì lo slogan era
"Non vogliamo un altro nord-Iraq!"
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Prima facevi
accenno al movimento ecologista...
Il movimento
ambientalista ha un legame organico particolare col movimento curdo
perché l'ecologia e la relazione che i curdi hanno con la natura giocano
un ruolo immenso nell'identità curda. La forma relazionale che i curdi
formano con le montagne e il suolo è completamente diversa da quella che
abbiamo in Occidente. Per fare un esempio, in Gezi Park volevano costruire un
centro commerciale... se anche verrà infine costruito questo non mi
ammazza. In Kurdistan, la costruzione di una centrale/diga idro-elettrica
presso una fonte d'acqua, o se il suolo è privatizzato, la gente muore o
va in esilio. Quindi la natura gioca un ruolo di vita o di morte. Per questo ha
grande importanza nell'identità curda. Per questo credo che Ocalan abbia
preso tanto da Bookchin, sui temi dell'ecologia e della de-centralizzazione.
Questo ha un ruolo molto importante nel movimento curdo.
Un altro esempio: quando
scoppiò Gezi, la gente saliva sugli alberi e montava le tende. Ma quando
la polizia caricava, scappavano. In Kurdistan, se vogliono costruire una nuova
centrale termica su un suolo agricolo, i curdi bruciano subito i cantieri.
Polizia e militari sparano direttamente sulla gente. Perché per un curdo
è uguale morire per un proiettile e per gli effetti della costruzione di
una centrale termica sulle loro terre.
C'è oggi una
ricerca dell'identità originaria dell'essere curdi...?
Prima del 1999, questa era
l'obiettivo del movimento curdo, la ricerca di un'identità basata
sull'unicità dell'essere curdi. Quando leggi i testi di Ocalan
dell'epoca, erano molto intrisi di sciamanismo, vecchie religioni mediorientali
politeiste, nell'ottica di definire l'essenza dell'identità curda. Quando
guardi invece alla produzione di testi dopo il 1999, quello che noti e che
tutta la dimensione sciamanica e religiosa e messa un po' di lato e c'è
invece un concentrarsi maggiore sulla coesistenza delle varie identità
di chi vive in Kurdistan: Yazidi, Alewiti, Sunniti, Sciiti, Jaferiti... ecc.,
perché questa diversità è l'attuale realtà della
comunità curda. Per fare un altro esempio, quando l'Isis attaccò
Sinjar, in Iraq, il Pkk è accorso in difesa degli Yazidi e questi li
hanno subito riconosciuti come loro "salvatori" e alleati. Sono
quindi abbastanza convinto che se il Pkk avesse mantenuto la sua rigida
ideologia identitaria basata sullo sciamanismo e l'origine del popolo curdo dal
fuoco ecc., gli Yazidi oggi sarebbero stati completamente massacrati. Questa mi
pare una buona prova per dimostrare che l'idea di creare un'identità
nazionale è una forma vecchia e inadatta di liberazione mentre oggi
quello che conta è la coesistenza e la solidarietà.
Rispetto a quello che ci
stiamo dicendo, questa è una riflessione dello stesso Ocalan? Se
sì, quanto rispecchia/traduce un dibattito interno al movimento curdo
nel suo insieme? Questo sguardo rinnovato che tipo di approccio suggerisce a
una composizione come quella dei giovani metropolitani, magari già
sradicati, non più appartenenti alla "Terra madre"...
c'è uno sguardo, da parte di Ocalan, del partito, del movimento su
questi soggetti qua?
Quello che sento di più, tra
i miei amici curdi della metropoli, oggi è: "quando andiamo in
Kurdistan? Dai, andiamo a fare un giro!"; non per fare un giro turistico,
a mangiare del buon kebab ma nel senso di "andiamo a vedere come sta la
gente, come vivono". Questo perché durante la rivolta di Gezi Park
la gente come me (i curdi assimilati della metropoli) ha sperimentato, sulla
propria pelle, una briciola di quello che i curdi che vivono in Kurdistan
provano da decenni. Cerco di dare una lettura ottimistica di questa cosa e mi
sono posto due domande. Una: com'è possibile che i curdi hanno resistito
per più di 30 anni mentre noi a Gezi solo 15 giorni? Seconda: se loro
sono riusciti a resistere per più di 30 anni, come possiamo imparare da
loro per resistere nella metropoli.