Una settimana nell’assedio
di Kobane
December 22, 2014
Siamo riusciti ad entrare nella
città simbolo della resistenza all’avanzata del Califfato
Islamico. Sono rimasti solo 7mila civili, tra cui mille bambini. Tra viveri che
scarseggiano e ospedali distrutti, la popolazione cerca di continuare a vivere
normalmente ed è convinta di poter respingere gli integralisti
dell’Is. Grazie al coraggio delle donne, sempre più protagoniste
dei combattimenti
KOBANE – Kobane è sotto assedio da cento giorni. Kobane, Kurdistan
siriano al confine con
Il filo spinato che segna la
frontiera è a cinquecento metri dalle case basse della periferia nord. Ci
si entra di frodo, pagando, poi correndo. È difficile entrare a Kobane. Nei
cento giorni d’assedio il varco è rimasto aperto solo lo scorso 29
novembre, i militari turchi hanno lasciato passare un camion bomba
dell’Is. Il kamikaze si è fatto esplodere tra le case: rase al
suolo, otto morti, venticinque feriti. Il grosso dei resistenti sono nativi di
Kobane, insieme a loro anche chi è fuggito da Sérane, Helinc, da
Leherè, i villaggi più vicini dove l’Is ha compiuto vere e
proprie stragi. Uccisioni sommarie, stupri delle donne e molto peggio ancora.
Dopo queste incursioni, gli uomini del califfato nero hanno lasciato in vita
pochissime persone alle quali consegnano le immagini dei massacri in modo che
poi possono fare arrivare la “voce” del terrore. E’ anche di
tipo mediatico l’assedio che viene posto. Tutti i video prodotti in
questi mesi dagli uomini neri puntano proprio a terrorizzare e a diffondere
l’idea che gli integralisti siano una forza invincibile.
Ma l’esercito
“invincibile” di fronte a Kobane si è fermato. E da cento
giorni non riesce a entrare, a sfondare. Dal 16 settembre a in città non
c’è più denaro, non serve. Non si compra più nulla,
si distribuisce. La risposta curda mira infatti a ribaltare l’assioma
guerra e distruzione rispondendo con l’autorganizzazione e la
cooperazione. In città viene garantito un servizio di distribuzione di
acqua e pane, l’erogazione di energia elettrica tramite generatori e
persino la raccolta dei rifiuti che conferisce alla parte di città
risparmiata dai combattimenti un aspetto di normalità. Tutto ciò
che è rimasto insomma è a disposizione di tutti. Acqua e benzina
iniziano a scarseggiare, ma
Le donne a Kobane vanno in
battaglia e occupano ruoli di organizzazione sia militare che di organizzazione
logistica. Le sniper (i tiratori scelti) sono proprio donne. Quelle che
scelgono le armi rinunciano a una vita che potrebbe essere certamente se non
più comoda meno rischiosa. Queste donne combattenti rinunciano agli
affetti e alla prospettiva di avere una famiglia pur di perorare la causa
curda. Qada, 55 anni, una delle comandanti dello YPJ, da non confondere con i
peshmerga che sono un esercito regolare che arriva dal Kurdistan iracheno, ci
fa da guida: “Non si poteva che ripartire dalle donne se si vuole davvero
dare un futuro a questo popolo martoriato da troppo tempo. Non si poteva che
ripartire dalla vita per sconfiggere questa aurea di morte che circonda non
solo Kobane ma tutto il popolo curdo. Partire dalla vita e da chi la genera; le
donne”.
La convinzione che traspare dalle
sue parole è che è proprio questo l’aspetto che può
fare la differenza in un conflitto che vede YPJ e YPG (i combattenti maschi) in
netta inferiorità per quanto riguarda armi e tecnologie di guerre. Questo
gap è colmato dalla forza di volontà e persino, verrebbe da dire,
dalla gioia con cui questa battaglia di resistenza è portata avanti. E
le donne cecchino sono anche il terrore dei miliziani integralisti, convinti
che nel caso fossero uccisi da una di loro non andrebbero in paradiso in quanto
vittime di un “essere inferiore”.
Le armi dei resistenti di
Kobanê sono pistole e fucili, i kalashnikov e gli Ak-47 li hanno
sottratti agli assedianti catturati o uccisi. Hanno portato via ai nemici i
documenti, e hanno scoperto che tra le milizie del califfato ci sono ragazzi
belgi, inglesi, francesi. Hanno preso i loro documenti, le loro carte di
credito. E un forziere di stimolanti e amfetamine che gli assedianti usano
prima degli assalti. “Abbiamo volontà e gioia e guardiamo sempre
un po’ più in là – aggiunge Qada – I curdi sono
senza confini, i confini sono il limite di un popolo”.
Nessuno a Kobane si sente
condannato alla sconfitta. Tranne rare eccezioni i ragazzi e le ragazze sotto i
21 anni non devono andare alla guerra. Stanno nelle retrovie, organizzano i
pasti e gli spostamenti. “Sono loro il futuro, è per loro che si
resiste”. Non combatte neppure chi è avanti con gli anni. Gli
ospedali sono crollati. Rasi al suolo dal martellamento dei mortai che non si
ferma mai e che di notte diventa più intenso. I quindici medici e i
trenta infermieri lavorano in tende addossate ai muri. I feriti più
gravi vengono trasferiti in Turchia: li curano e li arrestano, sono combattenti
di un esercito regolare e nemico. Dice ancora Qada: “I Dais,
(letteralmente “quelli là”, come i curdi chiamano i
miliziani dell’Is, ndr) in un mese li cacciamo”. Ma in questi
giorni che precedono il Natale sono aumentate le incursioni, ci sono più
cecchini appostati. In sei giorni a Kobane hanno perso la vita tre bambini, un
anziano e un combattente che ha cercato di salvarlo. Quelli dell’Ypg
hanno risposto spezzando in due la strada che da su porta al centro. “Dal
cielo gli alleati bombardano”, afferma Qada, “ma servono a poco. La
salvezza di Kobane ce la giochiamo qui”.
Tra le rovine di Kobane
In balia di troppi interessi
di ALBERTO STABILE
BEIRUT – Cento giorni sono
trascorsi da quando, il 16 settembre, l’esercito dello Stato Islamico
(Is, o Isis, o Isil, secondo le varie denominazioni avute nel tempo) ha
lanciato la sua offensiva su Kobane, la cittadina del Kurdistan siriano,
chiamata in arabo Ayn el Arab, al confine con
Il che, se ha determinato un
allentamento dell’attenzione da parte dei media internazionali, sempre
impazienti di eventi definitivi possibilmente di breve durata, non ha ridotto
l’importanza di Kobane, diventata un simbolo per gli apparati
propagandistici e un test dell’efficienza militare di tutte le parti in
causa.
Forse c’è una punta
d’esagerazione nella retorica dei dirigenti curdi che hanno definito
Kobane “la nostra Stalingrado”. Di sicuro, la battaglia divampata
intorno a questo piccolo centro di cinquantamila abitati creato
all’inizio del secolo scorso intorno a quella che avrebbe dovuto essere
una stazione di rifornimento della linea ferroviaria Berlino-Baghdad, ha
trasformato la narrativa fiorita intorno ai curdi, il popolo (10 milioni di
persone) “senza terra” per antonomasia, diviso e disperso in
quattro paesi (Iran, Siria, Turchia e Iraq) dalle fallimentari alchimie della
grandi potenze convenute a Versailles nel 1917 per spartirsi le spoglie
dell’Impero Ottomano. Qualcuno ha detto che, con la battaglia di Kobane,
non è più
E che quella delle milizie curde
sia stata una resistenza fino ad ora efficace, contro uno esercito
preponderante, agguerrito e molto meglio attrezzato, lo dimostra
l’andamento dello scontro. Dopo un primo tentativo, per saggiare le
acque, condotto a luglio, l’esercito jihadista che aveva già
conquistato la seconda città dell’Iraq, Mosul, e minacciato la
stessa capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, lancia la sua offensiva contro
il Kurdistan siriano nell’evidente tentativo di stringere in una
tenaglia, da Nord e da Sud, la regione curda al confine tra Siria e Iraq,
regione-chiave a cavallo tra i due paesi, ricca di imponenti risorse
petrolifere.
L’avanzata su Kobane
è travolgente. Bombardati dai cannoni e dai carri armati americani,
sottratti all’esercito iracheno in rotta, cadono uno dopo l’altro i
352 villaggi che rappresentano l’hinterland della cittadina. Una marea di
400 mila persone si riversa in cerca di rifugio alla frontiera con
I comandanti delle Unità
di autodifesa popolare (YPG), braccio militare del Partito di Unità
democratica, nato come una costola del partito indipendentista curdo PKK, di
base in Turchia, lanciano drammatici appelli all’opinione pubblica
mondiale perché sia evitato il massacro. Lo stesso presidente turco,
Erdogan, allora soltanto primo ministro, annuncia l’imminente caduta di
Kobane, avvertendo ancora una volta gli alleati della Nato che il suo Paese non
può reggere un ulteriore ondata di rifugiati, e per giunta curdi alleati
dei separatisti del PKK, contro i quali
Dopo aver tergiversato per
qualche giorno, gli Stati Uniti decidono che gli aerei della coalizione araba e
occidentale voluta da Obama “per degradare e infine distruggere”
l’esercito del Califfato possono intervenire in aiuto dei curdi. E il 27
Settembre partono i primi raid contro l’esercito jihadista che assedia
Kobane.
E’ il punto di svolta della
battaglia, la carta che cambierà il gioco sul terreno. Esposti ai
bombardamenti alleati, i jihadisti, che nel frattempo hanno conquistato la
metà di Kobane, oltre a tutta la provincia, cominciano a subire pesanti
perdite, accusano difficoltà a tenere le posizioni occupate nel centro
cittadino, pur mantenendo il controllo delle alture vicine, su alcune delle
quali hanno issato la bandiera nera dello Stato Islamico.
Assieme a migliaia di rifugiati
curdi in Turchia, mi è capitato di assistere alla battaglia di Kobane
dalle colline in territorio turco che sovrastano il confine. Uno spettacolo di
suoni di guerra, esplosioni, raffiche, boati, di fumi di incendi e di ombre che
scivolano tra le macerie visibili a occhio nudo, mentre i curdi al di qua della
frontiera, muniti di binocolo e telefonini, ricevevano gli aggiornamenti
sull’andamento dello scontro dai loro amici e parenti asserragliati a
Kobane. Tutto questo davanti all’imponente schieramento
dell’esercito turco, condannato dal calcolato immobilismo di Erdogan ad
assistere senza intervenire, indifferente, alla tragedia impellente di un
popolo. Era ed è tuttora evidente che senza un intervento della Turchia
il destino di Kobane sarebbe rimasto, così com’è rimasto,
appeso a un filo chissà per quanto tempo.
Ma la distanza tra gli obbiettivi
che gli Stati Uniti e
Per i governanti di Ankara gli
indipendentisti curdi rappresentano una minaccia alla stabilità del
Paese quanto i jihadisti di al Bagdadi, con i quali – accusano
però i curdi – corrono rapporti di complicità. E, comunque,
per Edogan l’obiettivo principale della coalizione resta
l’abbattimento del regime di Assad, anche se questo potrebbe favorire la
vittoria dello Stato Islamico con la relativa conquista della Siria. Così,
la risposta alla richiesta americana di permettere agli aerei della coalizione
di utilizzare la base di Incyrlik per condurre i loro raid in Siria ed Iraq
è un secco no. Così come negativa è la risposta del
governo di Ankara alle richiesta della resistenza curda di permettere il
passaggio attraverso il territorio turco di rinforzi e armamenti diretti a
Kobane. Il permesso accordato più tardi da Erdogan a 150 Pesh Merga, i
guerriglieri curdi iracheni, di accorrere in aiuto dei difensori di Kobane,
rappresenta una mossa propagandistica per sottolineare gli ottimi rapporti
economici e commerciali tra Ankara e il governo della regione autonoma irachena
di Erbil, che alla Turchia fornisce il suo petrolio. E comunque il Kurdistan
iracheno di Massud Barzani, a gli occhi di Erdogan, non ha niente da spartire
con il PKK di Abdallah Ochalan. Dividi et impera.
Quanto agli assedianti, non
c’è dubbio che i bombardamenti alleati hanno permesso alla
resistenza curda di articolare azioni di contrattacco e costretto gli islamisti
ad abbandonare gli avamposti nel cuore della città. Questo
riallineamento fa il paio con l’apparente rallentamento delle azioni
militari dei jihadisti in Iraq dove, ad esempio, i curdi hanno riconquistato la
città di Sinjar capitale della regione dove viveva la minoranza degli
Yazidi, fino a quando non sono stati costretti dagli islamisti a fuggire sulle
montagne e le loro donne sottomesse in schiavitù. Di più, si
parla di malumori affioranti tra gli estremisti islamici provenienti dai paesi
occidentali, delusi dalla ferrea disciplina interna. Circolano addirittura
indiscrezioni su esecuzioni di miliziani colpevoli di insubordinazione, si
narra di defezioni di gruppo. Si può vedere, allora, perché
quella di Kobane è diventata una battaglia in qualche modo decisiva per
tutti i protagonisti sulla scena. Per gli Stati Uniti, è in gioco
l’efficace della strategia basata sui bombardamenti della coalizione. Per
lo Stato Islamico, invece, è l’occasione per dimostrare che
né gli aerei, né i bombardamenti americani possono fermare le sue
conquiste.
FOTO ALBUM
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/12/19/foto/kobane_la_citt_sotto_assedio-103311970/1/
di IVAN COMPASSO, con un commento
di ALBERTO STABILE, montaggio di PAOLO SARACINO
Repubblica.IT