A Kobane un funerale al giorno,
ma i kurdi avanzano
December 27, 2014
A
Diyarbakir e Suruc c’è grande fermento. Le due città kurde a sud della Turchia
non hanno mai interrotto le attività di sostegno a Kobane, la città kurda a nord
della Siria: «Ogni giorno siamo costretti a celebrare il funerale di un
combattente di Kobane – dice al manifesto Murad Akincilar, direttore
dell’Istituto di Ricerca Sociale e Politica di Diyarbakir – Ma la speranza è
forte».
Tre mesi e mezzo di resistenza
popolare hanno fatto di Kobane il simbolo della battaglia contro il fanatismo
dell’Isis e gli interessi strategici dello Stato-nazione turco. La stampa
mondiale ha concentrato occhi e orecchie sulla città e sul progetto di
democrazia diretta di Rojava.
Dopo oltre cento giorni di
combattimenti strada per strada, la fine dell’anno per le Unità di Difesa
popolare maschili e femminili (Ypg e Ypj) significa speranza. Le notizie che
giungono dalla città assediata dal 15 settembre dalle milizie di al-Baghdadi,
una città che ha pianto centinaia di morti e ha assistito impotente alla fuga di
oltre 100mila civili, raccontano dell’avanzata delle forze di difesa.
Negli ultimi giorni i kurdi hanno
ottenuto altre vittorie: hanno lanciato una controffensiva sulla strategica
collina di Mshta Nur con il sostegno dei peshmerga iracheni, guadagnando un
centinaio di preziosi metri a sud e est. A dare man forte, nel giorno di Santo
Stefano, 31 raid della coalizione guidata dagli Stati uniti, seguiti ai 10 del
giorno di Natale.
Un’avanzata lenta ma continua che
ha permesso ai kurdi di Kobane di assumere il controllo del 60% del territorio,
costringendo alla ritirata su più fronti i miliziani dell’Isis. Ad ottobre la
caduta della città sembrava imminente, oggi non lo è: lo Stato Islamico si è
arroccato a sud est, la linea del fronte si allontana dal centro cittadino e gli
islamisti sono stati costretti a lasciare le stazioni di polizia e gli uffici
governativi a nord e al centro. E venerdì i kurdi hanno ripreso il controllo
della sede del comune di Kobane dopo ore di scontri a fuoco.
«L’iniziativa è nelle mani delle
Ypg e delle Ypj da almeno un mese ormai e ogni giorno riceviamo buone notizie –
spiega al manifesto l’attivista kurda Burcu Çiçek Sahinli da Suruc – La città è
stata ripulita dalle gang dell’Isis, ogni giorno vengono riprese nuove
postazioni: luoghi strategici come il Centro Culturale e alcune scuole sono
tornati sotto il controllo kurdo. I miliziani dell’Isis scappano, non riescono a
frenare l’offensiva di Ypg e Ypj: hanno giustiziato 100 dei loro combattenti che
volevano abbandonare il campo di battaglia».
«Stanno ancora attaccando la città
– continua Burcu – e gli scontri sono ancora duri, ma i kurdi sembrano sempre
più vicini alla vittoria. Cinque famiglie rifugiate a Suruc sono tornate a
vivere in città con i bambini piccoli».
Oltre all’Isis, la resistenza kurda
è costretta a combattere un altro nemico, la Turchia. Ankara tenta da tempo di
spezzare i legami tra il Kurdistan del nord e Rojava, impedendo ai combattenti
del Pkk – i primi ad entrare a Kobane in sostegno alla popolazione assediata –
di portare uomini e armi. Non solo: più volte i profughi kurdi a Suruc, che da
tre mesi e mezzo monitorano il confine con Kobane, raccontano di scambi ripetuti
tra gendarmeria turca e miliziani dell’Isis.
«La Turchia teme un Kurdistan unito
e continua a sostenere apertamente lo Stato Islamico. Il 25 novembre c’è stato
un nuovo caso di ‘solidarietà’: i terroristi dell’Isis hanno preso un villaggio
kurdo dentro il territorio turco e sono stati autorizzati dall’esercito di
Ankara a usare la comunità come base di appoggio per attacchi contro Ypg e Ypj.
La scorsa settimana abbiamo visto i miliziani islamisti rubare auto in Turchia
con i soldati turchi che avevano abbandonato le postazioni, lasciandoli fare».
Al sostegno militare che i kurdi
imputano alla Turchia – il cui obiettivo è evitare una crescita della resistenza
kurda e il possibile contagio dell’esperimento Rojava nel proprio territorio –
si aggiunge il mancato supporto ai 230mila profughi di Kobane e Sinjar che hanno
attraversato la frontiera per avere salva la vita. Accolti dai comuni kurdi
turchi a sud in campi profughi gestiti dalle sole municipalità, con l’arrivo
dell’inverno i rifugiati vivono in condizioni sempre più precarie.
«Dopo i due campi precedenti, a
Suruc ne abbiamo aperto un terzo – conclude Burcu – Ma i bisogni sono ancora
grandi, non tutti i campi hanno riscaldamento elettrico, mancano cibo e
materiali per l’igiene personale. Le autorità turche peggiorano la situazione:
feriti arrivati da Kobane sono stati arrestati, è stata detenuta anche una
dottoressa volontaria. Poco importa: noi proseguiamo nelle nostre attività:
abbiamo creato consigli giovanili e femminili, librerie e scuole in madre lingua
kurda». Kobane resiste di qua e di là dalla frontiera.
di Chiara Cruciati,