Cobas è in confine tra Suruc –
Kobane
January 01, 2015
Il primo impatto
con il sud est della Turchia è già sull’aereo da Istanbul Sahbila a Gaziantep
(Antep): le donne, scese dal bus insieme a noi, quasi tutte con il chador in
testa, si siedono nelle prime file, rigorosamente separate dagli uomini. L’apartheid
di genere colpisce sempre.
A Gaziantep ci
accoglie una fitta nebbia che pare di stare in pianura padana! La nebbia non
accenna a placarsi neanche la mattina dopo e ci abbandona solo molte ore dopo,
a Suruc.
Entrando con il
bus, lungo la strada intravediamo alcuni campi profughi, quelli più piccoli e
più attaccati alla città. File e file di piccole tende grigie, una addossata
all’altra. Panni stesi al pallido sole, dopo la pioggia di stanotte, che ha
reso le strade come scivolosi nastri di fanghiglia.
La prima tappa è
al Kultural Merzeki Amara, centro di coordinamento delle attività a sostegno
dei rifugiati.
Al piano
superiore c’è il magazzino delle medicine, dove 4 ragazzi e ragazze stanno
catalogando e sistemando le varie medicine portate con gli aiuti
internazionali. Consegniamo uno zaino pieno raccolto a Roma.
Il Centro piano
piano si riempie, tante persone da vari paesi venuti qui a dare una mano. Le
strette di mano e le presentazioni riempiono le due ore passate li.
Poi ci spostiamo
a Mesher, sei KM da Persus ( Suruc ) la prima accoglienza è alla tenda sita
alle porte del villaggio. Oggi è il ROBOSKI DAY, anniversario della strage di
ROBOSKI al Nord della Turchia, avvenuto il 28 dicembre 2011 quando l’aviazione
turca UCCISE 34 persone civili in un villaggio accusato di ospitare
guerriglieri del PKK. Anche nella piccola piazza del villaggio si celebra come
in tanti territori kurdi il ricordo di questo massacro. Mezher è un piccolo
villaggio a poca distanza dal confine, come tanti si è popolato di famiglie
profughe da Kobane, ma anche di militanti kurdi accorsi per forzare i confini,
far passare aiuti materiali, evacuare feriti dall’inizio della emergenza. Incontriamo
un responsabile del villaggio che è anche parte dell’organizzazione del
KULTURAL MERKEZI AMARA (CENTRO CULTURALE AMARA).
La vita al
villaggio è cambiata dall’inizio della emergenza KOBANE, sono arrivate 45
famiglie che si sono aggiunte alle 35 già presenti. Un cambiamento in meglio (
secondo i racconti ) caratterizzato da una vita più collettiva, dalla
condivisione della cucina ai lavori per organizzare i servizi e il mantenimento
delle strade. I rifiuti vengono raccolti da automezzi messi a disposizione
dalla Municipalità di DIYARBAKIR che tutti i giorni fanno la spola (così ci
dicono) con le locali discariche. Si tratta comunque di volontari. Tutti i
villaggi hanno un servizio di sicurezza che controlla i confini e il territorio
circostante. Nel momento massimo si è arrivati a controllare fino a
I bombardamenti
si sentono vicinissimi a volte annunciati da un lampo nel cielo. Nella piazza
di Mehzer attorno ai fuochi ogni sera le persone si radunano, chiamano a
Kobane, i loro parenti e/o i loro combattenti, cantano, mandano piccoli video
ed aggiornano sulla situazione militare, li incitano e li salutano. L’ISIS sta
tentando una offensiva, a quanto ci dicono, ma in genere le cose stanno andando
bene per le forze YPG-YPJ.
La discussione è
surreale, tra noi che facciamo le prime domande e ci ritroviamo a spiegare
perché Massimo D’Alema non è quel gran politico come lo immaginano loro. Il
riferimento è legato alla Vicenda di Ocalan A Roma. Racconti sulla battaglia di
Komagene città che resistette a Roma, valutazioni sull’ISIS e sulla guerra. Ma
soprattutto vogliono sapere cosa si conosce in Italia dei Kurdi.
29
dicembre – mattina
La prima
immagine, oltre la pioggia, sono le persone che volgono i loro sguardi oltre le
colline controllate dall’esercito turco proprio di fronte al villaggio. Fumano
e guardano cercando oltre la nebbia le immagini della città dalla quale
arrivano incessanti gli echi delle esplosioni.
Ci spostiamo
verso MISAYNTER a pochi passi da li. Abitanti e volontari del PKK stanno
manifestando come ogni mattina. Tutti rivolti verso i confini che vorrebbero
distrutti. Una bandiera di Ocalan, una del Kurdistan, una linea di decine di
persone, che al termine ci accoglie presentandosi ed invitandoci immediatamente
a raccontare la nostra storia davanti ad un tè bollente. Ci chiedono subito cosa
pensiamo di ISIS e YPG/YPJ vogliono avere informazioni sul lavoro svolto dai
giornalisti e cosa pensa il popolo italiano di quanto sta avvenendo qui. Raccontiamo
di Ocalan a Roma, delle manifestazioni del 1° nov, della differenza tra il
lavoro degli attivisti e quello dei media nazionali, delle differenze con le
politiche del nostro Governo. Ci ricordano le complicità del Governo Turco.
“Non abbiamo bisogno dei Governi, i Governi dovrebbero rispondere ai bisogni
delle persone”, ”YPG sono solo per difendere il popolo Kurdo e non vogliono
invadere altri popoli” “L’ISIS impone le proprie regole” e ci raccontano
stralci di nefandezze occorse a Sengal (distretto dell’IRAQ) . Facciamo anche
domande che non ricevono risposte su come sono cambiate le dinamiche civili
locali e sul progetto “autonomia Rojava”. Troppo poco il tempo e troppo
difficili le traduzioni.
Prima della
partenza visitiamo una costruzione centenaria simile ad un nostro trullo. Dedicato
interamente alla memoria di ARIN MIRXAN e ai caduti di Kobane. Un lungo elenco
di nomi e di foto, tra cui quello della compagna KADER uccisa il giorno al
confine con
Pomeriggio
– Campo Kobane, Suruc
Entriamo in uno
dei pochi momenti di concitazione della giornata, l’arrivo del furgoncino che
distribuisce le razioni di cibo. Decine di ragazzini e di donne si affollano,
in una fila ordinata, con piatti e pentole. Le razioni vengono distribuite di
tanto in tanto da un’associazione turca, ma normalmente il cibo viene preparato
a Suruc e distribuito dai curdi, con il sostegno della Municipalità locale.
H., volontario
di Suruc e responsabile del campo, ci conferma molte delle informazioni già
riportate dalle precedenti staffette sia sull’organizzazione interna del campo
che sugli aspetti sanitari.
Chiediamo se nel
campo esistono delle cucine comuni dove preparare il mangiare senza dipendere
completamente dall’esterno. Ci dicono, che per non complicarne la gestione e
per l’assenza di strutture adeguate preferiscono per ora continuare così.
In questo campo,
che si trova proprio dentro il paese, vivono circa 1000 persone, di cui 500
bambini, distribuite in 240 tende. E’ solo 1 dei 5 campi presenti a Suruc. Un
sesto campo è in via di ultimazione, più grande e più pulito. Alcune famiglie
di profughi hanno cominciato a popolarlo, nonostante il governo Turco stia
facendo di tutto per chiuderlo . Esiste poi un campo gestito dai turchi, ma
pochi vogliono andarci, anche perché non sono liberi di entrare e uscire quando
vogliono. Le immagini corrono subito all’Aquila post terremoto.
E’ stata
approntata una tenda che funziona da scuola due ore al giorno, con tre livelli
di classi, e da centro culturale per alcune animazioni teatrali.
Salutiamo quindi
H. e gli altri volontari che ci hanno accolto dentro il locale-magazzino e i
nostri comodi panchetti fatti di pacchi di pannolini per bambini, per fare un
breve giro del campo, tra le decine di tende a cupola grigie, 3metri per 2 per
intere famiglie.
Ci sono pochi
punti acqua comuni, dove si possono riempire bottiglie e boccioni. Eppure, a
giudicare dai panni stesi fuori ad asciugare, sembra che cercare di essere
almeno puliti, in mezzo a questa poltiglia marrone, sia una delle principali
occupazioni della giornata, anche se il clima umido e piovoso di questi giorni
rende impossibile fare asciugare qualsiasi cosa.
Una ragazza ci
guarda sconsolata, sa bene che la piccola barriera di sassi che ha costruito
all’ingresso della tenda potrà tenere fuori per poco la fanghiglia che ricopre
tutto il campo e tutta la cittadina in modo quasi uniforme.
Ci invita a
entrare. E’ Rojin, un’insegnante scappata da Kobane circa 2 mesi fa, la sua
casa distrutta, l’auto bruciata, la scuola dove lavorava come insegnante di
arabo per i ragazzini delle medie non esiste più. Qui insegna curdo alla scuola
del campo, ma non è un vero lavoro, ora non guadagna più neanche quel magro
stipendio che le permetteva di vivere. Troppo poco, comunque, per potere andare
ad abitare in una città cara come Aleppo. Così, non sposata, con due bambini
non suoi in affidamento, che vorrebbe fare studiare, sta pensando di andare in
Norvegia o in Germania, lì, le hanno detto, per i rifugiati ci sono delle
possibilità di inserimento. Ma neanche lei, come molti qui, non ha un
passaporto né un documento di identità, clandestina a casa propria.
Dopo il caffè
aromatizzato alla maniera di Aleppo e molte sigarette, ci fa vedere sorniona
sul suo pc portatile il suo profilo facebook, dove compare con una foto in posa
ammiccante. Il fango per fortuna non affoga l’indole femminile e la volontà di
ricominciare.
30
dicembre 2014
Attorno ai
fuochi di Mezher dopo una lezione italiano-inglese-curdo ci arrivano le notizie
da Kobane. Sono sempre notizie raccontate da dentro, attraverso le telefonate
ai propri cari. L’altro ieri notte una donna-kamikaze di Isis si è fatta
esplodere vicino postazioni Ypg facendo circa otto vittime. Le perdite ISIS
sono state molto più alte a seguito degli attacchi kurdi, 34 morti e 43
prigionieri. Stanotte purtroppo ancora vittime, circa 7 combattenti di Ypg che
ha subito anche diversi prigionieri.
Sentire le bombe
che esplodono vicine e parlare di morti che avvengono a pochissimi km da qui è
agghiacciante. Eppure per queste persone è ormai la normalità, anche se le
conseguenze della guerra sulle persone sono imprevedibili e alcune
organizzazioni di volontari stanno infatti facendo un gran lavoro di
elaborazione soprattutto con i bambini.
In tarda
mattinata abbiamo conferma di quanto raccontato alla sede del BDP di Persis
(Suruc) dove l’incontro con il responsabile locale del partito si è ridotto al
minimo; è infatti dovuto correre al confine, dove stava arrivando la salma di
uno dei combattenti per essere seppellita dalla famiglia. Rimandando
l’intervista ad un altro momento, ci ha solo ribadito l’estrema necessità di
aiuti, sia per l’assistenza ai profughi, sia per fare fronte all’emergenza di
far arrivare cibo e medicine ai civili rimasti in Kobane. Ogni giorno sono
infatti almeno due le famiglie che fanno ritorno tra le macerie della città,
sintomo che la situazione dal punto di vista militare sta migliorando. Un
miglioramento “fittizio” dato che per raggiungere la città si passa per un
deserto di macerie sotto il fuoco dei cecchini.
Nel primo
pomeriggio incontriamo
Poco prima e
alla nostra presenza le consegnano una multa salatissima : colpevole, secondo
le accuse ufficiali, di essersi recata in un villaggio di confine chiamato
“ABDULLAH OCALAN” ed aver insultato e colpito un poliziotto turco. Ci sembra la
normalità di una repressione quotidiana. Sulla TV presente nel suo ufficio
scorrono immagini di manifestazioni in tutta
Ci consegna
l’elenco aggiornato delle presenze dei profughi e le emergenze che cambiano in
continuazione.
Parliamo anche
della possibilità dei gemellaggi istituzionali e delle urgenze, che anche lei,
come al BDP stamattina, ci conferma. Riportiamo testuali dichiarazioni: “Non
vogliamo l’elemosina, non vogliamo che in Italia si pensi che siamo dei poveri,
combattiamo l’ISIS non solo per il popolo Curdo ma per difendere tutto il
mondo. Con lo scoppio della primavera araba in tutti i Paesi dove ci sono stati
movimenti si è tornati a regimi autoritari. In ROJAVA NO! Oggi è in vigore
31
dicembre-I colori dei bambini di Kobane
Con il nome “I
colori dei bambini di Kobane” è stata inaugurata al Centro culturale Amara, una
piccola mostra di disegni fatta da bambini che vivono nei campi profughi di
Suruc. La mostra è il frutto del lavoro di alcuni giovani insegnanti,
provenienti da Kobane, all’interno dei campi per aiutare i ragazzi ad elaborare
ciò che hanno visto e vissuto, direttamente o indirettamente, negli ultimi
mesi. Un piccolo lavoro che, in questa situazione di emergenza, diventa l’avvio
di un percorso verso la ricostruzione.
Ai bambini è
stato chiesto di disegnare quello che pensavano di Kobane, la loro città. Le
scene, vissute o forse solo sentite raccontare, sono terribili, se non fosse
per la semplicità dei tratti e dei colori. Carri armati, bombe che esplodono,
persone decapitate, spari, morti, feriti….ma anche Kobane, disegnata come un
matrimonio festoso, un paese colorato pieno di alberi e fiori, una manciata di
terra a forma di cuore tenuta sul palmo delle mani.
Alcuni sono qui
al Centro, a cantare e “celebrare” questo loro lavoro. Intanto uno degli
insegnanti, tutti volontari, si racconta: ha avuto lui stesso una storia
difficile. Insegnante della scuola primaria, imprigionato per due anni dal
Regime di Assad, vive ora a Suruc, ma aspetta il momento per tornare a casa il
prima possibile. Per ricominciare. Tornare a casa prima possibile, anzi “quando
?“ è la domanda incessante che gli rivolgono anche i bambini dei campi.
31
dicembre pomeriggio – una conversazione a tutto campo
Al centro
culturale AMARA Incontriamo una delle responsabili per la sicurezza e
l’organizzazione dell’area di Suruc. Una conversazione a tutto campo anche se
breve.
Inizia
ringraziandoci con un sorriso, per loro è già una vittoria il fatto che ci
siano persone di altri paesi che stanno vicino al popolo curdo in questi
momenti così difficili.
Poi prosegue,
senza che noi le chiediamo niente. “La guerra che stiamo combattendo non è solo
per difendere il popolo curdo, ma anche per tutti gli altri paesi contro il
fondamentalismo” dell’Isis. E ancora “è anche una guerra per la democrazia e
una guerra culturale. E’ per questo che le donne in tale processo di
liberazione giocano un ruolo fondamentale. E’ un appello esteso a tutte le
donne del mondo”.
“In Rojava si
sta sperimentando una forma di uguaglianza tra i generi che, dice, non è molto
diffusa neanche nei paesi occidentali. Tutti i ruoli sono infatti condivisi al
50% tra uomini e donne, in campo politico, culturale, educativo e militare. Se,
dice, le donne governassero davvero il mondo non ci sarebbero più guerre. Fatto
sta che in Rojava sono tra le prime file dei combattenti, con le forze
dell’YPJ. E’ in particolare con il lavoro svolto in campo militare che hanno
saputo conquistarsi la fiducia degli uomini e la loro progressiva accettazione.
Questo processo, iniziato ormai 20 anni fa all’interno del PKK, è ormai
dilagato in Rojava e inarrestabile, perché nella pratica dell’uguaglianza e
della libertà in ogni settore, le donne hanno dimostrato in modo inconfutabile
le loro capacità”. Rimane sfumato, tuttavia, se una reale parità dei sessi
avvenga davvero anche nella vita di ogni giorno. Quello che vediamo qui, nei
campi profughi e nei villaggi che li ospitano, è in realtà il ripetersi dei
ruoli standardizzati.
Resta il fatto
che le donne combattenti sono fondamentali nella guerra contro ISIS, fatta di
persone che credono di andare all’inferno se vengono uccisi da una donna.
Nei campi
profughi, qui a Suruc, ci conferma che si sta ripetendo in modo quasi spontaneo
il modello del Confederalismo democratico della Rojava, sospeso a Kobane a
causa della guerra, a partire proprio dal Consiglio delle donne.
Tale sistema
orizzontale, basato tutto su sistemi assembleari “bottom up” di presa delle
decisioni, prevede una partecipazione non solo dei partiti, ma anche delle
associazioni civili e di singoli cittadini indipendenti, già nella costituzione
del Parlamento cantonale e del Governo. La rotazione delle cariche e
l’applicazione del principio di sussidiarietà sono sistemi per evitare la
concentrazione del potere in uno o pochi leader.
Accenna inoltre
al sistema della cooperazione e del lavoro : nei cantoni dove è stato possibile
sperimentarli ( a causa del conflitto ) “esiste un sistema di consigli che non
prevedono la figura del manager”.
Molto sarebbe
ancora da capire.
Anche per quanto
riguarda la questione ecologica richiamata dalla Carta della Rojava sembra
restare su linee di principio che riguardano, come ci dice, non tanto
l’ambiente ma un più generico “modo di vita naturale, in armonia gli uni con
gli altri, alla pari, in libertà e senza sottomessi o schiavi”.
Ciò che è certo
è la forza che questo processo ha instillato in ogni curdo. Ci dice, con lo
stesso sorriso, che lei vuole tornare il prima possibile a Kobane, perché lì ha
molti nemici da affrontare e da combattere apertamente ogni giorno, non solo
sul fronte militare, ma soprattutto politico e culturale. E’ la forza di un
grande sogno.
La notte
delle mongolfiere e capodanno
La notte
dell’ultimo dell’anno ci vede di nuovo a Mezher, fra canti e balli intorno allo
stereo di un’auto divenuta discoteca improvvisata. Prima di mezzanotte dalla
piazza, ma anche dai villaggi vicini, si alzano in cielo mongolfiere colorate
di carta velina. Incredibilmente il vento le spinge verso KOBANE. Da dentro la
città i/le combattenti salutano sparando raffiche di segnali luminosi rossi che
si alzano in cielo per decine di minuti.
La notte invece
infuria la battaglia. I bombardamenti della coalizione sono seri e gli spari
che seguono le esplosioni significano che l’YPG-YPJ sta attaccando. La mattina
dopo le notizie che arrivano sono confuse, ma a quanto pare le forze KURDE
stanno spingendo l’ISIS fuori della città. Hanno conquistato altro terreno e
l’importante collina che sovrasta le macerie.
Prima di partire
abbiamo l’onore di conoscere AL NAMAR l’anziano combattente che al nostro
saluto ha risposto semplicemente dicendo “ho ancora voglia di andare a
combattere”. E’ una icona, della quale avevamo letto sui media internazionali e
quelli indipendenti. Circondato dai giovani di Kobane fuggiti e abbracciato
fraternamente dagli anziani del villaggio.
Le notizie sulle
sorti di Kobane in ogni caso sono tutte da verificare, ma nella giornata del 1
Gennaio si combatte ancora e nel corso delle visite che facciamo si odono
esplosioni di varia natura e le raffiche di fucile.
Al confine
TURCHIA – SIRIA, quando non ci sono postazioni militari o costruzioni edili, ci
sono reti e fili spinati. In più punti si vedono migliaia di auto, furgoni e
camion abbandonati oltre confine. Sono le auto dei curdi siriani in fuga che
l’esercito turco ha costretto ad abbandonare, lasciandole al saccheggio dei
daisch. La collusione dei turchi in questa guerra è evidente. Presso il
villaggio Zhwan assistiamo al colloquio tra pattuglie dell’esercito turco e militanti
ISIS nascosti tra le auto. Una normalità che non si ripete nella porzione di
territorio controllato dalle YPG-YPJ.
Sulla via del
ritorno verso Suruc, incrociamo un corteo funebre di auto che seguono una
ambulanza che ha appena recuperato al confine i corpi di due militanti YPG
morti nella mattina del 31. Uno di questi, 23 anni, era militante di un partito
Marxista leninista turco, combattente dal 6 settembre scorso a Kobane.
La giornata
termina al campo profughi di Suruc intitolato a KADER ORTAKKAYA , 4000 persone
circa di cui circa 400 bambini. Li incontriamo al nostro arrivo nel campetto di
basket vicino a seguire le peripezie di un collettivo di acrobati e ci
travolgono con un corteo improvvisato dietro una tromba e un tamburo.
Nel campo, le
cui condizioni sono piuttosto difficili, è appena arrivata la corrente
elettrica dopo mesi di freddo e di buio. Oggi è anche il giorno della presenza
settimanale della equipe medica che conferma quanto scritto dalle precedenti
staffette sulle condizioni di salute generale e sulle patologie persistenti.
Tralasciamo il
resto degli aggiornamenti politico/militari che sono riscontrabili sui siti di UIKIONLUS e di RETE KURDISTAN ITALIA.
Cobas
Telecomunicazioni