07 -01- 2015
Diario di
viaggio della staffetta italiana per Kobane: a sud della Turchia sono i comuni
curdi ad accogliere le migliaia di profughi arrivati da Siria e
di Serena Tarabini- Campagna Rojava Calling
Suruc, 7 gennaio 2015, Nena News – Il
sud est Anatolico è la regione più povera della Turchia, ed anche quella che
per contiguità geografica ha impattato maggiormente con l’emigrazione forzata
dei civili siriani , che fuggono da situazioni di guerra da più di due
anni. Nelle precedenti staffette abbiamo già avuto modo di documentare
l’incredibile sforzo umanitario che la cittadina di Suruç, l’enclave urbana più
vicina alla città assediata di Kobanı, sta mettendo in campo per affrontare
un’emergenza che dura da mesi.
In una cittadina rurale di poco più di 50
mila abitanti si sono concentrati almeno 65mila profughi provenienti da
Kobanı.. La provincia di Şanliurfa, a cui Suruç appartiene, ha ricevuto in
totale 132 mila profughi. Le persone sono distribuite in tendopoli, villaggi e
case private. Un accoglienza per la maggior parte sostenuta dalle municipalità,
amministrate dal BDP, ora transitato a DBP ( Partito Democratico dei Popoli), il partito
filo curdo, e dal volontariato, in quanto i campi profughi governativi , sono
solamente due ed accolgono in tutta la provincia non più di 10mila persone.
Campi quest’ultimi, lo abbiamo detto più volte ma vale la pena ripeterlo, in
cui i curdi non vanno volentieri perché sono gestiti in maniera poliziesca e
vessatoria, mentre nei campi allestiti dalle municipalità, vige l’autogestione
e la volontà di mettere in pratica un modello organizzativo democratico
inspirato alla carta del Rojava.
Uscendo dalla provincia di Şanliurfa ,
secondo il KCC, Cordinamento di crisi di Kobanı, il numero di persone accolte
lambisce i 150mila per tutto il sud est turco. Il numero totale di
persone fuggite da Kobanı che si trovano in Turchia è di 200 mila. Ma
bisogna aggiungere che questa umilissima regione, dove la stragrande
maggioranza vive al di sotto della soglia di povertà, sta affrontando
ancora prima di quella di Kobanı un ‘altro dramma, quello degli Iazidi.
Abbiamo tutti saputo e seguito con
incredulità e sgomento i primi giorni di agosto della scorsa estate , cosa ha
subito questa
Forse non tutti invece ci chiediamo dove sono
andate a finire queste centinaia di migliaia di persone, che hanno
visto trucidare sotto i loro occhi il loro popolo, che non hanno più notizie di
familiari e amici, che hanno visto bruciare le loro case e i loro beni, che
hanno perso la loro terra e smarrito il loro futuro. Alcuni sono
rimasti in Siria, altri sono tornati in Iraq, molti altri ancora non lo hanno
voluto fare e dopo aver migrato di luogo in luogo , in più di 20 mila hanno trovato
un’accoglienza finalmente dignitosa in questa parte di Turchia dove il turco è
quasi una lingua straniera. Le province maggiormente investite da
questa emergenza sono quelle più a est:
Ancora una volta sono le municipalità a segno
DBP a farsi carico di tutto: allestimento di tendopoli, individuazione di
edifici vuoti da utilizzare per l’accoglienza , raccolta e distribuzione di
cibo, medicine, generi di prima necessità, e grazie al lavoro di volontari
provenienti da tutta la Turchia. Il governo da parte
sua, nella figura del Prefetto di Diyarbakir, come contributo ha emanato una
circolare che vieta alle strutture ospedaliere di fornire cure a chi si
presenta senza identificazione. Cure che ,comunque, sono a pagamento.
A raccontarmi questo è Esma, volontaria
locale che incontro nel centro di raccolta di Batman, una città di 500 mila
abitanti
Engin ha circa 30 anni e ne ha passati
I sorrisi che mi accolgono contrastano con le
storie terribili che ascolto: dopo un giro fra le tende entro in quella della
famiglia di Selman che racconta dell’arrivo dell’ Isis, della fuga in montagna,
dei giorni passati dando ai suoi 6 figli l’acqua razionata con i tappi della
bottiglia. Ha perso tutto ma è riuscito a salvare la sua famiglia. Quella di
sua moglie invece è stata decimata: non ha notizia delle sue 5 sorelle,
probabilmente catturate e vendute a
E’ una storia che riascolterò molte volte. Da
Sandan, ex traduttore per le forze USA in Iraq, e Adma, vedova con 4 figli di
cui due combattenti a Kobane., incontrati nel secondo campo di Batman, che in
realtà è una vecchio centro sportivo comunale e l’acqua calda, addirittura un
campo da calcio con tanto di spalti, dove per metà ruzzolano palloni e bambini,
e nell’altra pascolano pecore e galline.
In questa dimensione di accoglienza Batman
trasuda calore e vitalità: si percepisce complicità fra chi accoglie e chi
viene accolto, non si vedono divisioni. Ci sono anche diversi curdi del Rojava
a Batman e nei villaggi attorno, circa 6000, soprattutto dal cantone di Efrim,
scappati perché l’ISIS ha reso invivibile il territorio Ma il Rojava è presente
anche in un altro modo: strizzandomi l’occhio un attivista del
partito filo curdo mi dice che anche loro, piano piano, stanno
diffondendo il modello politico organizzativo applicato nel Rojava: assemblee divulgative
quartiere per quartiere, istituzione di commissioni.
A
Mi parla di Kheri il capofamiglia della tenda
in cui siamo ospitati: si era appena trasferito nella sua nuova casa, ci ha
abitato per due mesi, poi è dovuto scappare mentre l’Isis dava fuoco a tutto.
“Abbiamo visto troppe cose – mi dice Kheri indicando la bambina di 7 anni che
sta accanto alla madre – Mia figlia una volta arrivata qua, non ha
parlato per settimane”.
Ci sono degli elementi ricorrenti nei
racconti di queste persone: a differenza dei profughi di Kobanı, il cui
desiderio principale è tornare nella loro città, gli Iazidi non hanno più un
luogo dove andare. Anche se le milizie curde hanno intenzione di riprendere il
controllo del territorio, pare che già lo abbiano fatto per il 40%, tutti
dicono di non voler tornare mai più nel Sinjar; hanno paura di
quelli che loro chiamano “gli arabi”, non si fidano del governo di Barzani, dei
Peşmerga, che mentre loro venivano massacrati sono fuggiti abbandonandoli al
loro destino.
Un’altra cosa che viene detta da tutti, in
continuazione, è che devono la vita alle YPG e YPJ, le unità di difesa del
Popolo curde della Siria, e che solamente “quelli