Kobanê: La notte delle
mongolfiere
January 27, 2015
L’assedio
è finito. Gli uomini neri dell’Isis se ne vanno umiliati. Camminano
in fila indiana con l’incedere di un esercito in rotta. I turchi ne
coprono la ritirata. Le giovani kurde si abbracciano, sorridono, salgono la
collina di terra con bandiere verdi, le braccia levate al cielo. Pare quasi che
solo guardando da lassù, i fossati e i ripari dove per 134 giorni hanno
messo in gioco la vita e perfino qualcosa di più, possano credere che
sia tutto vero. Che il 26 gennaio del 2015 sia il giorno in cui hanno scritto
la storia di un Paese che non esiste e di una città che insegna a
restituire un senso all’idea di libertà. Malgrado le apparenze,
l’ipocrisia, il cinico calcolo geopolitico, in un certo senso
Kobanê non è mai stata sola. Perché le donne, gli uomini, i
vecchi e i bambini che lì hanno saputo morire e resistere difendevano la
dimensione umana tra le macerie di una città che per più di
quattro mesi è stata forse il principale teatro della guerra mondiale
tra la vita e la morte. Ha vinto, per ora, la voglia di vivere. Hanno vinto le
mongolfiere, quelle che fanno volare la speranza come racconta il nostro
reportage. Non durerà a lungo ma stanotte è tempo solo di far
festa, anche per chi non c’è più.
IL
REPORTAGE DI ELIANA CARAMELLI
Il primo impatto
con il sud est della Turchia è sul volo per Gaziantep (Antep) da
Istanbul Sabila Gokcen, l’aereoporto dedicato alla figlia adottiva del
fondatore della “patria turca”, Mustafa Kemal Atatürk
(1923-1938) che guidò l’aviazione turca nei bombardamenti per
sedare la rivolta delle tribù kurde di Dersim ad est della Turchia. Le
donne, quasi tutte con il chador in testa, si siedono nelle prime file,
rigorosamente separate dagli uomini. L`apartheid di genere fa sempre un certo
effetto.
A Gaziantep ci
accoglie una fitta nebbia, che non accenna a placarsi e ci abbandona solo molte
ore dopo il nostro arrivo a Persis (Suruc in turco). Città al confine
con
E’ qui,
distribuiti in cinque campi nel centro e nella periferia di Persis (un sesto in
costruzione), che hanno trovato alloggio 52700 persone distribuite in circa
1200 tende.
Ma la
solidarietà fra la popolazione locale, a maggioranza kurda, è
scattata subito dopo i primi giorni dell’emergenza, lo scorso agosto,
quando le persone, dopo avere dormito per strada o all’interno di
capannoni abbandonati, hanno trovato alloggio presso le famiglie della stessa
Persis o nei vicini villaggi di confine, come Mesher, a circa
Il
centro culturale Amara
Prima di
dirigerci al villaggio, facciamo tappa al Kultural Merzeki Amara (Centro
Culturale Amara) seguendo le orme degli attivisti e attiviste che da tutta
Italia, dalle prime settimane di ottobre, hanno visitato e documentato la
situazione del conflitto in questa parte di Kurdistan. Il Centro è il
punto di coordinamento di tutte le attività a sostegno dei rifugiati
svolte dalle associazioni e dai partiti kurdi della Turchia in collaborazione
con la municipalità di Persis. Al piano terra la grande sala dove ci si
incontra, si può mangiare un pasto caldo con zuppa di legumi e riso,
bere del té, collegarsi a internet. Al piano superiore, il centro media
e il magazzino, dove ragazzi e ragazze catalogano e sistemano incessantemente
le varie medicine (e non solo) portate con gli aiuti internazionali. Anche noi
consegniamo uno zaino pieno di farmaci raccolto a Roma e un contributo
economico raccolto tra i Cobas e altre realtà italiane. Tutto
rigorosamente registrato. Il Centro pian piano si riempie, tante persone da
vari Paesi venuti qui a dare una mano. Le presentazioni riempiono le due ore
passate lì.
E’ qui che
incontriamo A., 18 anni e un sorriso luminoso, che, grazie ai contatti della
rete Italia-Kurdistan e UIKI Onlus, ci stava aspettando. Con il suo
buffo inglese sarà la nostra guida, interprete, amico per tutta la
settimana.
Mesher e
gli altri villaggi di confine
A Mesher, dentro
la tenda ben riscaldata del presidio permanente alle porte del villaggio, ci
accoglie M., vecchio militante del Pkk della zona del Monte Nemrut, per 10 anni
ha conosciuto la galera, oggi responsabile dei rapporti con gli stranieri del
“Gruppo di crisi per Kobanê”. Ci racconta che si è
appena celebrato anche qui, come in tanti territori curdi, il Robosky day,
anniversario della strage di Robosky al Nord della Turchia, avvenuto il 28
dicembre 2011 quando l’aviazione turca uccise 34 persone civili in un
villaggio accusato di ospitare guerriglieri del Pkk. La discussione parte da
banali presentazioni, ma la netta impressione è che voglia capire
esattamente chi siamo e cosa siamo venuti a fare. Poi arrivano i racconti di
quando Ocalan si rifugiò a Roma e il ruolo di D’Alema. Ma
soprattutto ci chiede cosa pensa il popolo italiano di quanto sta avvenendo in
queste zone e come ne parlano i giornalisti. Domanda questa ricorrente in molti
altri incontri.
Lui e molti
altri sono accorsi per dare sostegno ai rifugiati, per far passare gli aiuti
materiali verso
La piccola
moschea è il luogo di preghiera, di ritrovo, di accoglienza degli ospiti
e dei ragazzi più giovani provenienti da Kobanê. Il tè
bollente sempre a disposizione. Dietro la scuola, turca, da cui sono esclusi di
fatto i bimbi curdi. E semplici case di paglia e fango solo in parte sostituite
da più moderni fabbricati di cemento. Attorno campi.
Poi la grande
“piazza”, una spianata di terra proprio di fronte a Kobanê, i
cui palazzi si vedono bene sullo sfondo nelle giornate terse. E’ qui che
attorno ai fuochi accesi, punti di riferimento e socialità, ogni sera le
persone si radunano, chiamano a Kobanê i loro parenti o i loro
combattenti, cantano, mandano piccoli video, li incitano e li salutano. E si
tengono aggiornati l’un l’altro sulla situazione militare, notizie
raccontate da dentro, attraverso le telefonate ai propri cari. La tecnologia
aiuta il filo di solidarietà e le relazioni tra rifugiati e combattenti.
E’ da qui che le persone volgono i loro sguardi oltre le colline
controllate dall’esercito turco proprio di fronte al villaggio. Fumano e
guardano cercando oltre la nebbia le immagini della città dalla quale
arrivano incessanti gli echi delle esplosioni. Ed è qui che ogni mattina
si svolge il “rito” della linea: decine di persone, abitanti e
volontari, rivolte verso i confini che vorrebbero vedere distrutti,
manifestano, cantando e gridando slogan di sostegno alla lotta curda e delle sue
forze combattenti, Ypg (miste) e Ypj (femminili).
I
combattenti e le combattenti kurde
La stessa scena
la vediamo al vicino villaggio di Mis Aynter. Al termine ci accolgono
calorosamente, invitandoci a raccontare la nostra storia davanti ad un
tè bollente. Ci chiedono subito cosa pensiamo di Isis e di Ypg/Ypj. Ci
ricordano le complicità del governo turco. «Non abbiamo bisogno
dei governi, i governi dovrebbero rispondere ai bisogni delle persone, invece
l’Isis vuole imporre le sue regole» ci dice una giovane donna. «Le
Ypg sono nate per difendere il popolo kurdo non per invadere altri
popoli» e ci raccontano stralci di nefandezze occorse a Sengal (distretto
dell’Iraq). Ci fanno visitare una costruzione centenaria, simile ad un
nostro trullo, che ospita una specie di “memoriale” dedicato
interamente a Arin Mirxan (uccisa a Parigi insieme ad altre due attiviste nel
2013) e ai caduti di Kobanê. Un lungo elenco di nomi e di foto, tra cui
quello della compagna Kader, uccisa, unica in un gruppo di 19 persone, al
confine con
Ci raccontano
che una notte una donna-kamikaze di Isis si è fatta esplodere vicino
postazioni Ypg facendo circa 8 vittime. Le perdite Isis sono state molto
più alte a seguito degli attacchi kurdi, 34 morti e 43 prigionieri. Poi
purtroppo ancora vittime, forse 7, fra i combattenti di Ypg che ha
subìto anche diversi prigionieri. E così, ogni giorno, il
bollettino di guerra. Anche noi ci imbattiamo nel rientro da Kobanê della
salma di un militante di un partito marxista leninista turco, combattente dal 6
settembre scorso, caduto il 30 dicembre.
Lì
vediamo i palazzi distrutti di Kobane, dalla collina. La sentiamo vicina,
giorno e notte, da Mesher, negli spari e nel fragore delle bombe. Rumori di
distruzione e morte che avvengono a pochissimi km da qui, è
agghiacciante. Eppure per queste persone è ormai la normalità,
anche se le conseguenze della guerra sulle persone sono imprevedibili e alcune
organizzazioni di volontari stanno infatti facendo un gran lavoro di
elaborazione soprattutto con i bambini.
I
bambini di Kobanê
E’ proprio
dal frutto del lavoro di alcuni giovani insegnanti, tutti volontari, che
è stata inaugurata al Centro culturale Amara la piccola mostra «I
colori dei bambini di Kobanê», con i disegni fatti dai bambini che
vivono oggi nei campi dei rifugiati. A loro è stato chiesto di disegnare
cosa pensassero della loro città. Le scene, vissute o forse solo
ascoltate, sono terribili, se non fosse per la semplicità dei tratti e
dei colori. Carri armati, bombe che esplodono, persone decapitate, spari,
morti, feriti… ma anche Kobanê, disegnata come un matrimonio
festoso, un paese colorato pieno di alberi e fiori, una manciata di terra a
forma di cuore tenuta sul palmo delle mani. Uno degli insegnanti si racconta:
insegnante della scuola primaria, imprigionato per due anni dal regime di
Assad, vive ora a Persis, ma aspetta il momento per tornare a casa il prima
possibile. Per ricominciare. Tornare a casa prima possibile, anzi
«quando?» è la domanda incessante che gli rivolgono anche i
bambini dei campi.
La vita
e gestione dei campi, la raccolta e distribuzione degli aiuti
Sono i bambini e
le bambine di Kobanê l’immagine che più colpisce entrando nei
campi dei rifugiati a Persis. Hanno gli occhi vispi di chi sta vivendo
un’avventura in mezzo a decine di altri coetanei, senza regole. Entriamo
e subito ti prendono per mano per farsi condurre dalla novità con due
piedi e una macchina fotografica al collo. Nei campi sono circa 5300.
Ci ritroviamo
nel Campo Kobanê in uno dei pochi momenti di concitazione della giornata,
l’arrivo del furgoncino che distribuisce le razioni di cibo. Decine di
ragazzini e di donne si affollano, in una fila ordinata, con piatti e pentole. Le
razioni sono distribuite di tanto in tanto da un’associazione turca, ma
normalmente il cibo viene preparato a Persis e distribuito dai curdi, con il
sostegno della Municipalità locale.
Partecipiamo
anche noi a un’intera giornata di lavoro al magazzino Avesta, un grande
capannone vuoto, un tempo supermercato. Oggi è uno dei centri di stoccaggio
e smistamento delle razioni destinate ai rifugiati.
Qui ogni giorno decine di ragazzi giovani (o bambini) sono
sempre in movimento, ci si ferma solo per pranzo e merenda, si termina con
l’arrivo del buio. Fanno quasi a gara per impacchettare, imbustare,
caricare, scaricare i generi di prima necessità. Un abbinamento che vede
farina e zucchero; uova; grandi sacchi con fagioli, lenticchie, riso, burghul,
Nei campi pochi
punti di acqua dove riempire bottiglie e boccioni, alcuni magazzini, una tenda
che funziona da scuola due ore al giorno, con tre livelli di classi, e da
centro culturale per alcune animazioni teatrali e panni stesi ovunque: la ricerca
della pulizia sembra una delle principali attività della giornata in
mezzo a questa poltiglia marrone, anche se il clima umido e piovoso di questi
giorni rende impossibile fare asciugare qualsiasi cosa. Una donna ci guarda
sconsolata, sa bene che la piccola barriera di sassi costruita
all’ingresso della tenda potrà tenere fuori per poco la fanghiglia
che ricopre tutto il campo e tutta la cittadina in modo quasi uniforme. E’
R., un’insegnante scappata da Kobanê circa 2 mesi fa: la sua casa
distrutta, l’auto bruciata, la scuola dove lavorava come insegnante di
arabo per i ragazzini delle medie non esiste più. Qui insegna curdo alla
scuola del campo, ma non è un vero lavoro, ora non guadagna più
neanche quel magro stipendio che le permetteva di vivere. Così, non
sposata, con due bambini non suoi in affidamento, che vorrebbe fare studiare,
sta pensando di andare in Norvegia o in Germania: lì, le hanno detto,
per i rifugiati ci sono possibilità di inserimento. Ma neanche lei, come
molti qui, ha un passaporto né un documento di identità,
clandestina in casa propria. Dopo il caffè aromatizzato “alla
maniera di Aleppo” e molte sigarette, ci fa vedere nel suo pc portatile
il suo profilo facebook, da cui traspare una vitalità non sopita. Il
fango per fortuna non affoga l’indole femminile e la volontà di
ricominciare.
Stesse scene al
campo Kader Ortakaya, 4000 persone circa di cui circa 400 bambine/i. Li
incontriamo al nostro arrivo nel campetto di basket vicino a seguire le
peripezie di un collettivo di acrobati e ci travolgono con un corteo
improvvisato dietro una tromba e un tamburo.
Nel campo, le
cui condizioni sono piuttosto difficili, è appena arrivata la corrente
elettrica dopo mesi di freddo e di buio. Oggi è anche il giorno della
presenza settimanale della equipe medica nei campi, che conferma le precarie
condizioni di salute generale e le patologie persistenti, legate soprattutto
alla scarsa igiene. I campi, del resto, sono autogestiti dalla comunità
kurda, con il solo aiuto di volontari e il supporto della Municipalità
di Suruc, dove, con il 58 per cento e da 17 anni, governa il Bdp.
Sia il
responsabile del Bdp locale (che incontriamo brevemente, prima che corra al
funerale di uno dei combattenti caduto a Kobanê il giorno prima) che la
stessa sindaca di Suruc, ci confermano l’estrema necessità di
aiuti, di tutti i tipi. Lei è Zuhal Ekmes, una ragazza giovane che, come
in tutte le Municipalità curde, condivide la carica di sindaco con un
pari collega maschio. Il suo ufficio è un concitato via vai di persone. Si
lavora sempre sull’emergenza continua e ci confessa che è arrivata
a fumare 3 pacchetti di sigarette al giorno dall’arrivo dei primi
profughi. I fondi inviati dall’Onu sono stati dati dal governo turco ad
Afad, un’organizzazione governativa che si occupa di 2 piccoli campi
fuori città, simili a campi di prigionia dove nessuno vuole andare,
mentre niente è arrivato per la municipalità. «Non vogliamo
l’elemosina, non vogliamo che in Italia si pensi che siamo poveri –
ci dice – combattiamo l’Isis non solo per il popolo kurdo ma per
difendere tutto il mondo dal fondamentalismo dell’Isis. Con lo scoppio
della primavera araba in tutti i Paesi si è tornati a regimi autoritari.
In Rojava no, lì è in vigore la democrazia per la quale stiamo
lottando». Forse è proprio questo che fa paura alla
comunità internazionale.
Il
modello del Confederalismo democratico
Ed è con
A. – una delle responsabili per la sicurezza e la logistica
dell’area di Pirsus – che riusciamo a parlare del modello del
«Confederalismo Democratico» che si sta applicando nei cantoni
della Rojava, in Siria. Un modello che prevede una partecipazione reale non
solo dei partiti, ma anche delle associazioni civili e singoli cittadini
indipendenti, a partire dalla costituzione del parlamento cantonale, del governo,
con la rotazione delle cariche, l’applicazione del principio di
sussidiarietà, la parità di genere.
«In Rojava
si sta sperimentando una forma di uguaglianza tra i generi che – dice
– non è molto diffusa neanche nei Paesi occidentali. Tutti i ruoli
sono infatti condivisi al 50 per cento fra uomini e donne, in campo politico,
culturale, educativo e militare. Se – continua – le donne
governassero davvero il mondo non ci sarebbero più guerre». Fatto
sta che in Rojava sono tra le prime file dei combattenti, con le forze
dell’Ypj. «E’ in particolare con il lavoro svolto in campo
militare che hanno saputo conquistarsi la fiducia degli uomini e la loro
progressiva accettazione. Questo processo, iniziato ormai 20 anni fa
all’interno del Pkk, è ormai dilagato in Rojava e inarrestabile,
perché nella pratica dell’uguaglianza e della libertà in
ogni settore, le donne hanno dimostrato in modo inconfutabile le loro
capacità». Rimane sfumato, tuttavia, se una reale parità
avvenga davvero anche nella vita di ogni giorno. Quello che vediamo qui
è in realtà il ripetersi di ruoli standardizzati. Del resto, si
sa, i cambiamenti culturali hanno tempi e processi molto più lunghi e
profondi di quelli politici.
Poi prosegue,
senza che noi le chiediamo niente: «Quella che stiamo combattendo
è anche una guerra per la democrazia e una guerra culturale. E’
per questo che le donne in tale processo di liberazione giocano un ruolo
fondamentale. E faccio un appello a tutte le donne del mondo».
Molto sarebbe
ancora da capire.
Anche per quanto
riguarda la questione ecologica richiamata dalla «Carta della
Rojava» sembra rimanere su linee di principio che riguardano, come ci
dice, non tanto l’ambiente ma un più generico «modo di vita
naturale, in armonia gli uni con gli altri, alla pari, in libertà e
senza sottomessi o schiavi».
Percepiamo dalle
sue parole la forza di questo processo. Ci dice, con lo stesso sorriso con cui
ci ha accolto, che vuole tornare il prima possibile a Kobanê,
perché lì ha molti nemici da affrontare e da combattere apertamente
ogni giorno, non solo sul fronte militare, ma soprattutto politico e culturale.
E’ la forza di un grande sogno.
Non è la
sola. Ogni giorno sono infatti almeno due le famiglie che fanno ritorno tra le
macerie della città.
Il
rientro
Ma qualcuno non
ci spera più: A. il nostro amico e interprete, scappato da Aleppo 4 anni
prima con la famiglia a soli 14 anni, poi rifugiati a Kobanê e infine qui
a Persis. Non vuole sentire parlare turco. Adora la musica e canticchia
Shakira, ma il suo stereo è rimasto nella casa di Aleppo. Vuole studiare
medicina, imparare l’italiano. Scappare in Germania. Qui non è
vita. Ciò che ha visto, le morti in diretta, la distruzione, è
troppo difficile da raccontare. Ha voglia di divertirsi, come ogni ragazzo di
18 anni, ma si guarda intorno, lui è tra i più fortunati, in
fondo, e con la sorella S. fanno quello che possono come volontari del centro
Amara. Suo padre, insegnante di inglese, uno sguardo che trapela un grande
senso di responsabilità, ha aperto qui un negozio, per tirare a campare.
Ci saluta con una grande stretta di mano: «Grazie, è questa
l’umanità che vogliamo, non quella di chi vuole la guerra senza
fine».
Partiamo. Negli
occhi le immagini di mille volti incontrati in questi giorni, sorrisi, strette
di mano. E il cielo buio di Kobanê costellato da decine di mongolfiere
colorate nella notte di Capodanno lanciate dai villaggi turchi lungo il confine
cui rispondono i combattenti e le combattenti della città: razzi di
segnalazione rossi, in cielo, ad illuminare la speranza.