January 30, 2015
Ulla Jelpke era
fra i dieci parlamentari Die Linke che nello scorso novembre sventolarono nel
Bundestag la bandiera del Partito Kurdo dei Lavoratori. Il gruppo protestava
contro la revoca dell’immunità parlamentare alla collega Nicole
Gohlke che chiedeva d’abolizione della messa al bando del Pkk, una misura
in vigore in Germania dal 1993. Abbiamo raggiunto la deputata Jelpke a Berlino.
Onorevole,
perché avete deciso di solidarizzare col Pkk?
Nei molti viaggi svolti fra
E’
una scelta dell’intero gruppo parlamentare Die Linke o di alcuni di voi?
Ora dell’intero gruppo. A lungo solo un manipolo di deputati, che sono
stati osservatori durante le elezioni nei territori kurdi della Turchia o che
hanno molti residenti kurdi nella loro circoscrizione, s’interessava al
tema. Altri deputati Die Linke lo evitavano perché temevano
d’essere assimilati ai “terroristi”. Il quadro è
cambiato dopo che, nell’estate 2014, il Pkk nel nord dell’Iraq ha
salvato la vita di decine di migliaia di yazidi e cristiani soggetti agli
attacchi dello Stato Islamico e dopo che le milizie kurde hanno opposto
un’accanita resistenza a Kobanê. A quel punto tutti i parlamentari
Die Linke hanno deciso di presentare la richiesta di abolizione del divieto del
Pkk al Bundestag e d’invitare il governo federale a rimuovere questo
partito dall’elenco delle organizzazioni considerate terroriste
dall’Ue.
Cosa
pensate delle liste di proscrizione stilate da Stati Uniti e Unione Europea?
Die Linke ha sempre rifiutato questi elenchi che considera estranei ai principi
del diritto internazionale. Ci impegnamo per l’abolizione degli elenchi
indipendentemente da come valutiamo i gruppi citati. Sono sicura che anche quei
nostri deputati che in passato si mostravano scettici sul Pkk e sui i suoi
metodi non lo consideravano un organismo terrorista. Die Linke e,
precedentemente, il Pds, si sono sempre battuti per i diritti dei kurdi e una
soluzione politica della loro questione.
In
Europa molti hanno espresso solidarietà a Kobanȇ e ai kurdi con manifestazioni e missioni, ma nella
sinistra europea non ci sono partiti che hanno compiuto una scelta simile alla
vostra. L’internazionalismo è scomparso?
Non proprio.
Ancora
sull’internazionalismo: in due nazioni dalla grande tradizione di
sinistra – Italia e Francia – la carenza d’un intervento
ufficiale ha motivi organizzativi o c’è una perdita di valori
solidali nella leadership e fra i militanti?
In entrambi i Paesi esistono gruppi solidali con le lotte di lavoratori, con
gli sfruttati e i popoli oppressi. Non parlerei di mancanza
d’internazionalismo. Naturalmente ancora quindici anni fa i comunisti
italiani erano molto più attivi nella solidarietà al Kurdistan. Per
un certo tempo, durante la sua fuga, Abdullah Öcalan ha soggiornato in
Italia attirando l’attenzione sul problema kurdo. La questione principale
mi sembra il declino e la frammentazione dei comunisti italiani. Negli ultimi
tempi la sinistra italiana s’è occupata anzitutto di sé
stessa. Per un internazionalismo efficace è necessaria una certa
influenza e una forza nel proprio Paese, altrimenti quell’impegno resta
un gesto simbolico pieno di buone intenzioni, ma senza efficacia.
Una
solidarietà attiva esiste fra i kurdi, però solo l’assedio
di Kobanȇ ha condotto i peshmerga
a difendere quella città. Cosa pensate del governo Barzani e del ruolo
del Kurdistan iracheno nella più grande questione kurda?
Barzani persegue un progetto politico del tutto diverso dal Pkk e dal Pyd. Il
suo obiettivo è uno Stato nazionale kurdo nel nord iracheno. Dubito che
un simile Kurdistan indipendente darà ai suoi abitanti più
sicurezza e più libertà. Già oggi la regione autonoma
kurda è uno Stato mafioso governato alla maniera feudale da due o tre
partiti, dove regnano corruzione e nepotismo, dove le forze di sicurezza
sparano sui dimostranti che contestano il regime, dove i giornalisti critici
vengono assassinati e le violenze e gli assassini sulle donne sono enormemente
aumentati. Economicamente la regione kurda in Iraq è totalmente
dipendente da Ankara, possiamo parlare perfino di un protettorato turco. Il
margine d’azione di Barzani è stretto e si aggiunge una debolezza
militare. Davanti all’attacco dell’Is ai territori kurdi, in
particolare nella regione degli Yazidi, Sengal, i peshmerga sono fuggiti. Evidentemente
costoro, poco più che mercenari mal pagati, non avevano il morale per
combattere, a differenza dei volontari del Pkk e del Ypg che non sono
intervenuti solo per proteggere gli yazidi, ma l’intera regione autonoma
kurda. Mentre la reputazione di Barzani, del suo Partito democratico del
Kurdistan e dei peshmerga sono finite in sofferenza, il prestigio del Pkk
è molto aumentato fra la gente e gli ambienti politici kurdo-iracheni. Dopo
che la maggioranza del parlamento iracheno s’è dichiarata
favorevole al riconoscimento dei cantoni del Rojava, soggetti finora a un
embargo anche da parte del governo di Barzani, questi è stato costretto
a spedire a Kobanê gruppi di peshmerga con armi pesanti. Se Barzani
rinunciasse al suo atteggiamento negativo nei confronti del Rojava si
compirebbe un passo in avanti. Tuttavia non si tratta di lotte per la
leadership fra Barzani e Öcalan o lotte di partito fra Kdp, Pkk e Pyd. In
ballo ci sono visioni politiche e modalità di sistema. A differenza del
Kdp, il Pkk e il Pyd mirano a soluzioni di democrazia di base non nazionaliste,
puntano a collegare tutti i gruppi di popolazione che vivono nella regione,
considerano centrali i diritti delle donne e tentano di intraprendere un
percorso di sviluppo non capitalista.
Abbiamo
sotto gli occhi un altro “internazionalismo”, quello dei giovani
islamici d’Europa che diventano jihadisti. L’Islam fondamentalista
può offrire un modello di società più avvincente del mondo
globalizzato?
La sinistra in Europa deve accettare di confrontarsi con un’emarginazione
sociale frutto dell’immigrazione musulmana, se non lo fa si chiude una
porta in faccia. Questa sinistra non sta offrendo una prospettiva alla massa
dei giovani migranti. In Germania, Francia, Italia è, con poche
eccezioni, indigena e bianca. I jihadisti s’inseriscono in questa
breccia. Per loro non fa differenza se si è di origine tedesca o
migranti, neri o bianchi, o a quale religione si è appartenuti in
precedenza. Sono decisive l’accettazione delle convinzioni jihadiste e la
disponibilità a lottare per esse. Inoltre l’estremismo islamico sembra
in grado di offrire soluzioni semplici perfino a problemi primari come
l’istruzione, la ricerca di posti di lavoro, il rapporto coi genitori
riguardo a una visione religiosa e spirituale.
Il
progetto federalista di Öcalan ha possibilità di realizzarsi? Come
può essere aiutato dalla politica internazionalista?
Questo progetto ha maggiori possibilità di successo dell’idea
d’un Grande Kurdistan unito e indipendente sognato ancora da alcuni
kurdi. La scorsa estate, nel Rojava, ho sperimentato io stessa quanto
l’idea di autoamministrazione con uguali diritti entusiasmi le persone
– kurdi, arabi, assiri/aramei – che vogliono costruire una nuova
società. Ma a Kobanê abbiamo anche sperimentato la
vulnerabilità di questo modello. Senza l’intervento dei peshmerga
con le armi pesanti e senza gli attacchi aerei Usa Kobanê sarebbe caduta.
Lo dico malvolentieri, ma è la realtà. Il futuro dirà
quanto sarà alto il prezzo politico da pagare per il processo di
emancipazione. Possiamo sostenere praticamente Rojava e il movimento dei comuni
kurdi nella Turchia orientale con aiuti in denaro e materiali. Facendo
conoscere a livello internazionale l’esempio che lì viene dato. Facendo
affluire per un certo tempo in quelle aree, in nome
dell’internazionalismo, medici e ingegneri che collaborino a costruire
progetti autonomi. E naturalmente nei nostri Paesi dobbiamo opporci
all’invio dall’Europa di armi ai nemici di questo modello sociale:
Turchia e Arabia Saudita.
La
doppiezza della linea di Erdoğan e delle petro-monarchie attorno al
jihadismo è evidente, ma gli interessi economici condurranno le nazioni
occidentali ad abbandonare a se stessa la questione kurda?
Forse, però potrebbe accadere anche il contrario. Proprio per interessi
economici e per aver accesso alle gigantesche risorse di petrolio e gas nel
nord dell’Iraq kurdo, i Paesi occidentali tendono a inserirsi nella
regione. Se
Quale
ruolo viene ad assumere
Il governo tedesco intende introdursi in Medio Oriente. Ma, a differenza delle
ex potenze coloniali francese, britannica e degli Usa, il suo impegno militare
nella regione è ancora relativamente piccolo, seppure ci sono batterie
di Patriot in Turchia e
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Ringraziamo
la deputata Ulla Jelpke per l’intervista. Giustinianio Rossi e
Jürgen Stottko per la traduzione dal tedesco
Enrico
Campofreda
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