Posted date: February
20, 2015
Cinque
combattenti curde raccontano la loro esperienza nella difesa della città
di Kobane, rivelando sogni e rinunce, raccontando la brutalità della
guerra contro le truppe del Califfato, i loro sacrifici e le loro
speranze.
Kobane è
libera, ma deve fare i conti con la ricostruzione. L’80%
della città è distrutta e su 525,000 abitanti, solo 25,000 sono
rimasti sul territorio, gli altri sono dispersi tra i campi profughi della
Turchia e degli altri paesi limitrofi. Per aiutarli a tornare a casa è
necessario bonificare la città e ricostruirla.
Per questo il
governatore Enwer Muslim ha rivolto un appello alla comunità
internazionale, affinché vengano inviati gli
aiuti necessari (le coordinate per gli aiuti sono: Mezzaluna Rossa Kurdistan
Italia Onlus. IBAN: IT63P0335901600100000132226. Causale: Ricostruzione
Kobane). Nel frattempo, i tre volontari italiani che dalla Sicilia hanno
raggiunto il Rojava, dopo diversi giorni di attesa nel
territorio di Kobane, sono riusciti a incontrare le donne curde combattenti, i cui
volti rimbalzano nei media di tutto il mondo. Di seguito, riportiamo la
conversazione svolta nella base operativa delle YPJ con cinque combattenti:
Perché hai fatto questa scelta di entrare nelle YPJ?
“Perché le donne sono sofferenti. Vediamo la sofferenza
delle donne non solo qui ma anche nei vostri Paesi. Noi lottiamo per
tutte le donne del mondo. Io in particolare sono nata in
Germania, sono stata in giro per l’Europa e in uno di questi Paesi
ho fatto giorni di reclusione in prigione per motivi politici. Poi ho deciso di
venire qui in Kurdistan e anche le mie amiche sono
tutte venute qui. Ho letto gli scritti di Öcalan e dopo ciò
ho assunto uno sguardo più globale riguardo la situazione politica in
generale e delle donne in particolare”.
Perché sei venuta in Kurdistan?
“Perché voglio la rivoluzione”.
Cosa
intendi per rivoluzione e perché pensi che il Kurdistan sia
particolarmente significativo da questo punto di
vista?
“Conoscete
forse qualche altro movimento nel mondo che chieda la
libertà per il popolo curdo?”.
La tua
famiglia?Come ha accolto questa scelta?
“Io ho 28
anni. Combatto da 7 anni. La mia famiglia è venuta con me quando ho deciso di partire e ora è qui”.
“Io in
questo momento non ho nessun contatto con la mia famiglia. Ma quando ho preso
questa decisione loro hanno approvato, perché
era una scelta per tutte le donne e per una umanità sofferente”.
Ci sono
donne non di Kobane nelle YPJ in questo momento?
“Tra le
combattenti ci sono donne da tutta l’Europa: Germania, Inghilterra,
Italia… Anche dalla Colombia. Ma in questo
momento non combattono a Kobane”.
Come hai
conosciuto le YPJ?
“Quando
é iniziata la rivoluzione in Rojava ho saputo
di questa parte speciale del movimento. Questa parte presente in tutto il
movimento curdo. Anche lì dove ci sono i
peshmerga, nonostante la loro presenza, li è persino più forte il
movimento combattente femminile”.
Cosa pensi delle relazioni lesbiche? Come vivi il fatto di non avere
relazioni?
“Se scegli di entrare nelle YPJ scegli di abbandonare le
tue personali relazioni d’amore. Le relazioni lesbiche sono
anch’esse relazioni d’amore. Se ami la persona con cui stai puoi anche scegliere di
abbandonarla per amore dell’umanità tutta, per amore delle persone
oppresse. Questa è la parte militare del movimento. Se scegli di
combattere è impossibile farlo mentre pensi
“Cosa farà la persona che amo se io muoio?”. Per questo
stesso motivo la maggior parte di noi sceglie anche di non avere figli”.
Secondo
voi perché tra le persone che attualmente
combattono in Kurdistan ci sono più YPJ che YPG?
“Tra le donne c’è il sentimento materno. Vedere i bambini di
tutto il mondo soffrire ci rende più forti e coraggiose, a differenza
degli uomini che non possiedono questo specifico istinto”.
Hai mai
avuto dubbi rispetto alla voglia di essere madre?
” No. Noi non abbiamo mai perso la voglia di essere
madri, ma questa maternità questo amore, è per tutti i bambini,
per l’umanità. Non è mai successo che una YPJ cambiasse
idea, e avesse voglia di uscire dal movimento e avere
dei figli. Oggi le donne in Kurdistan stanno scrivendo la
storia, è importante fare domande su questo”.
Cosa pensate quando siete al fronte a combattere, insieme agli uomini?
“Noi al
fronte non combattiamo solo contro il nemico, ma anche contro il dominio
dell’uomo sulle donne e contro il capitalismo. Dunque
siamo insieme agli YPG e se ci sono delle incomprensioni di risolvono dopo con
dei meeting, non appena c’è l’opportunità”.
Avete
percezione del fatto che ciò che fate è una spinta
per il movimento femminile in tutto il mondo? “
Certamente”.
Ci sono
particolari momenti nella vostra vita da combattenti al fronte di cui volete
parlare?
“E’ difficile spiegare il nostro spirito quando
si è al fronte. Noi non vogliamo uccidere persone. Ma, mentre
combattiamo, sappiamo cosa fanno i daesh (nome curdo che indica le truppe
dell’Isis) . Noi lottiamo per
l’umanità. Sappiamo che se non li uccidiamo noi ci uccidono loro. Ma il momento della
battaglia non si può descrivere a parole: solo standoci si può
capire veramente cosa si prova. Conoscete il racconto delle quattro farfalle?
Quattro farfalle volavano attorno al fuoco, la prima più distante
capì che il fuoco era vita, e tornò dalle altre a riferirlo. La
seconda, incuriosita, si avvicinò attratta dalla luce e scoprì
che il fuoco dava luce, e tornò a riferirlo alle altre. Anche la terza andò verso il fuoco, sempre più
vicino, e scoprì che dava calore; e lo riferì. La quarta voleva
comprendere fino in fondo lo spirito del fuoco: si avvicinò, dunque,
talmente tanto che morì arsa dalle fiamme”.
E’
mai capitato che parlaste col nemico nel momento del combattimento?
“No. E’ capitato che i daesh parlassero attraverso le
ricetrasmittenti per tentare di deprimerci psicologicamente, ad esempio
fingendo di avere tra le mani una nostra compagna e descrivendo gli abusi e le
torture su di lei. La nostra risposta era: “Perderete”.
Avete
visto daesh visibilmente drogati?
“Si, sappiamo che assumono extasy ma sulla linea
del fronte, li abbiamo visti spesso iniettarsi in vena nelle braccia sostanze
di cui non sappiamo l’origine. Il loro corpo, una volta morti, diventava
come di plastica. Durante il combattimento è necessario colpirli
più volte alla testa per ucciderli. Solitamente i loro
corpi si decompongono molto più lentamente”.
Sospendiamo la
conversazione: è ora di pranzo e alcune di loro hanno cucinato per
tutti. Dunque mangiamo insieme e una volta finito
continuiamo a conversare.
Cosa pensi della situazione politica e sociale in Europa? Pensi che
sia possibile un movimento ugualmente forte anche lì?
” L’Europa sta attraversando un momento molto complesso. E’
urgente che anche lì sorga un movimento forte,
ma non sarà mai uguale a quello curdo. Ogni movimento ha bisogno di
rintracciare e scoprire una propria specifica identità’”.
A questo punto
è una di loro a porre una domanda:
“Pensi che
in questo momento le donne in Italia o in Europa siano libere?” No.
“Dunque è urgente e necessario che le donne si
sveglino in tutto il mondo. Il patriarcato storicamente è stato ed
è tutt’ora oppressione degli uomini sulle
donne. Questo rafforza il sistema capitalistico. Dunque
un movimento è forte se a risvegliarsi e a lottare inizia la parte
oppressa. Il movimento contro il patriarcato è forte se a lottare sono
le donne in prima linea. Ci siamo mai chiesti perché non ci siano state
mai singole donne alla guida di un movimento o di una rivoluzione? Perché ogni qualvolta questo accadeva il potere le
reprimeva. Per questo motivo è importante studiare e conoscere la storia
dell’umanità, e delle donne come, ad esempio, Rosa
Luxemburg… Per rendere un movimento forte e sempre in grado di
migliorarsi, è necessaria la pratica dell’autocritica: criticare e
autocriticarsi è fondamentale per costruire relazioni alla pari e
superare i problemi che si pongono. Ricevere una critica non deve suscitare
rabbia. Nel criticare e autocriticarsi riconosco i miei amici e questo mi aiuta
ad essere una persona sempre migliore”.
In tutto
questo, gli uomini cosa fanno?
“Se il movimento è forte ed è in atto una rivoluzione antipatriarcale,
gli uomini “supportano”. Non bisogna mai credere
nell’esistenza di una rivoluzione solo perché qualcuno lo dice. Così
come non esiste vittoria senza dolore e sofferenza”.
Hai mai
amato un uomo?
“Ho avuto varie relazioni quando ero più
piccola ma nessuna rispondeva a quel che sentivo profondamente; fin quando ho
deciso di abbandonare tutto questo e iniziare a combattere. In molti modi il
capitalismo ci allontana dall’essere veramente noi stesse. Anche
indossare accessori o piercing o cambiare il colore dei propri capelli è
un modo per allontanarci da quello che siamo, perché se non ci fossero le fabbriche che producono i prodotti per il makeup,
non sentiremmo questo tipo di esigenza”.
Ma talvolta uno
stile strano può rappresentare, in certi contesti,
una rottura degli schemi preimpostati, delle forme di immagine dominanti.
“Si, siamo
consapevoli di questo. Esistono anche culture ancestrali
come quella degli aborigeni, che usano molto agghindare il proprio corpo con
oggetti di vario tipo, metalli o tatuaggi. Queste culture hanno un fortissimo
legame con la terra e con la natura, vivono in armonia con essa:
“con” e non “contro”. Ma il presidente australiano ha
fatto un appello per la salvaguardia di questa
popolazione aborigena che e’ in via di estinzione. Il capitalismo la sta
piano piano distruggendo”.
Secondo
voi è possibile uscire dal sistema capitalistico restando in un contesto urbano?
“No. E’ necessario ristabilire il contatto con la natura, dunque
bisogna uscire dalla città, per poi anche tornarci. Ma
è necessario recarsi nei luoghi della natura”.
di Eleonora Corace
© 2013 UiKi ONLUS Team