March 09, 2015
Ci annunciano l’incontro come una
sorpresa, un privilegio, un’occasione rara e affatto scontata.
Meryem Kobane, uno dei tanti nomi di battaglia
che in Rojava segnano le vite di chi da anni ha scelto la rivoluzione e quindi
la clandestinità, è una comandante dello Ypj. Una vera e propria
istituzione della resistenza femminile. Una delle fondatrici
dell’esercito di autodifesa. Un passato nella guerriglia e un presente in
prima linea. In città non rientra quasi mai perché dopo la
liberazione ha scelto, come tantissime, di inoltrarsi sulle montagne e di
continuare la battaglia di annientamento dell’Isis e di messa in
sicurezza del Rojava. I ragazzi del mediacenter, nostri inseparabili ed
indispensabili accompagnatori, avevano saputo che sarebbe rientrata per qualche
ora a Kobane e hanno fatto di tutto per organizzare l’ incontro.
L’appuntamento è nel piazzale
del centro Logistico dello Ypg. Meryem ci aspetta lì, insieme con una
guerrigliera giovanissima che dimostra ancora meno dei suoi 18 anni. Fino a
quel momento avevamo già incontrato un gran numero di guerriglieri ma
tutti uomini. Le donne sono quasi tutte al fronte e in città si parla di
loro con il rispetto che si deve a figure eroiche della liberazione . La prima
cosa che ci colpisce è il sorriso che Meryem e la sua piccola
accompagnatrice sfoggiano senza riserve quando “Marhaba” dopo
“Marhaba” ci presentiamo, rispettando la ritualità del saluto
curdo, con cui lentamente cominciamo ad entrare in confidenza. Con il consueto
argomentare pacato a cui in Rojava si da’ pressappoco la stessa
importanza della guerriglia, Meryem dà disposizioni per lo spostamento
infilando in macchina con lei noi ragazze, dando appuntamento agli altri-i
maschi- direttamente alla sede dello Ypj.
Nell’abitacolo la lingua, come sempre,
è un ostacolo insormontabile. Meryem , come tutti i curdi, rifiuta le
lingue del colonialismo. Così durante il breve tragitto che ci conduce
alla meta restano i sorrisi e gli occhi gonfi di ammirazione che non riusciamo
a nascondere.
La sede dello Ypj è un posto strano,
un posto che mostra immediatamente l’estrema normalità della
resistenza . I vestiti, i fermagli, i profumi, le spazzole, le scarpe non da
guerra si mescolano alle armi e alle tute mimetiche in un quadro composito che
crea inevitabilmente un alone di familiarità. Siamo tra noi e questa
è innanzitutto una casa di donne. Le guerrigliere arrivano una ad una
per abbracciarci e ringraziarci. Come sempre, mentre ognuna di loro si batte la
mano sul petto in segno di gratitudine noi avremmo solo voglia di rispondere
che siamo noi a ringraziare loro per tutto quello che hanno fatto, per tutto
quello che hanno insegnato alle donne del pianeta. Non riusciamo a farlo in
modo articolato e come sempre ripetiamo solo “Spas” (grazie in
curdo), come una cantilena.
L’arrivo del Chai in Kurdistan sancisce
l’inizio della conversazione. Tutto avviene con tempi che a noi appaiono
insopportabilmente lenti e che sono per loro i tempi dell’ascolto e della
demolizione delle posture machiste. Non è facile abituarsi, ma neppure
interrompere Meryem mentre comincia a spiegare cos’è un processo
rivoluzionario e alle nostre sollecitazioni sulla forza femminile e sull’autodifesa
risponde che la Rivoluzione inizia con la difesa dei rivoluzionari, e la difesa
dei rivoluzionari è l’educazione. L’educazione in questo
senso è un modus operandi quotidiano che accompagna la sensibilizzazione
alla pratica immediata del confederalismo democratico e che passa
inevitabilmente per un radicale smantellamento della mentalità
patriarcale. Quello che Meryem ci spiega senza riserve è che il Rojava
da questo punto di vista è un posto del mondo come tanti altri e fa i
conti con le incrostazioni millenarie di subalternità femminile e
retaggi patriarcali. Ecco perché, prima della guerra, la pratica
quotidiana delle combattenti dello Ypj era quella di battere ogni villaggio,
bussando alle porte di casa in casa, aprendo confronti capillari e dibattiti
sulla libertà delle donne, senza dare mai niente per scontato. Libertà
che per diventare reale deve partire dall’interno di ciascuna,
perché senza percezione dell’importanza dell’identità
interiore, non è possibile cambiare le condizioni materiali e
sovvertirle. Da questo punto di vista in Rojava perdono senso moltissimi dei
dibattiti interni al femminismo europeo (che pure Meryem conosce benissimo)
sulla non violenza e sull’egemonia maschile della forza. Le armi e la
pratica della resistenza sono un’assunzione di responsabilità
quasi ovvia nel momento in cui una donna riesce a lasciare la propria famiglia
e la dimensione domestica dei piccoli villaggi in cui l’educazione si
articola quasi unicamente sul lavoro casalingo e sulla propensione alla
maternità. Lasciare l’oikos significa addentrarsi in una
società già articolata sullo smantellamento delle diseguaglianze
di genere, una società in cui né il protagonismo politico,
né quello militare possono tollerare un ingiustificato primato maschile.
E’ come dire che le strutture formali in Rojava ci sono tutte
affinché le donne e gli uomini abbiano lo stesso diritto alla gestione e
alla amministrazione della cosa pubblica tuttavia c’è un immenso
lavoro da fare per demolire la microfisica del potere patriarcale e la
divisione naturalizzata dei ruoli in base al genere.
Lasciare casa diventa quindi il primo gesto
politico, grazie al quale si esplicita definitivamente quella propensione
rivoluzionaria che deflagra le mura del privato e che prevede di essere pronte
a dare la propria vita per tutti, non solo per i propri cari.
Meryem si ferma continuamente mentre
argomenta. Ci guarda uno ad uno con curiosa attenzione. Attende di ascoltare
anche anche le voci maschili e così scopre alcune nostre
rigidità. Ad ogni pausa sia lei che le altre combattenti ci tengono a
ribadire quanto questo processo sia difficile, quanto bisogna fuggire le
idealizzazioni e quanto siano ancora elevati i meccanismi di controllo legati
ai retaggi della società patriarcale.
Se ci fosse stato un bagaglio immaginario di
domande femministe con cui saremmo arrivate a questo incontro se
l’avessimo previsto, sarebbe sicuramente arrivata la domanda sul
separatismo e sugli ambiti misti. Indipendentemente dalle nostre
volontà, l’estrema importanza che le donne curde attribuiscono
all’educazione collettiva però ha accompagnato la discussione
verso la tematizzazione del metodo. Meryem e le altre lo riassumono
efficacemente affermando che le assemblee tra donne si devono fare,
perché questo permette il riconoscimento di una condizione comune e
l’elaborazione di strategie collettive di liberazione che abilitano in un
secondo momento alla condivisione del movimento, che è lo spazio
politico di tutti e tutte e pure lo spazio dell’incontro e dello scambio
su queste questioni specifiche. E’ necessario che le donne trovino prima
la forza dentro e tra di loro, poi, una volte liberate, saranno pronte per
condividere il movimento con gli uomini. Come ci diciamo spesso anche tra noi e
nei nostri spazi di movimento in occidente questo processo di educazione deve
anche mirare a cancellare quelle dinamiche che spesso si instaurano anche
all’interno delle collettività organizzate o delle assemblee e che
lasciano spazio, attraverso la mancata educazione ad una postura non
prevaricatrice, alla definizione subalterna del ruolo politico delle donne. In
fin dei conti, escamotage eterodirette come le quote rosa, nascono proprio come
cura ad una malattia che non si affronta con sufficiente coraggio e che spesso
ha nascosto pure dietro l’alibi della differenza nuovi meccanismi di
esclusione. Tra le pareti delle stanze della sede dello Ypj, ma pure nelle
conversazioni con le rappresentanti istituzionali dei cantoni, si respira aria
non viziata dalle asfittiche dicotomie novecentesche nelle quali il femminismo
troppe volte è rimasto incastrato. Parità e differenza camminano
di pari passo dentro la convinzione che abolite tutte le forme di
discriminazione rispetto all’accesso, la cifra eccedente del femminile
non è biologica ma è legata semplicemente ad una più
spiccata capacità di connessione.
Connessione che certamente riguarda segmenti
sociali incapaci di comunicare ma anche più semplicemente il rapporto
tra le generazioni e il rifiuto di un certo giovanilismo che in occidente ha
comportato la recisione dei ponti comunicativi con gli anziani, diventati
“merce vecchia” spogliata dell’autorevolezza conferita loro
dall’età e dall’esperienza. Una questione questa che
decontestualizzata potrebbe addirittura apparire conservatrice e che invece
inserita nella critica radicale ai legami familiari tradizionali messa in opera
dallo Ypj e dalla dottrina di Ocalan, assume tutto il senso di un monito contro
la velocità e la dismissione della cura tipico delle società a
capitalismo avanzato. Quanto conta proprio questa temporalità vorace del
consumo nell’articolazione delle relazioni in occidente, ci ha chiesto,
senza retorica, Meryem durante la discussione. E soprattutto quanti
arretramenti ha subito la condizione femminile sotto la bandiera della difesa
della libertà? Da questo punto di vista la decolonizzazione del
linguaggio e l’operazione di semplificazione che le donne curde provano
continuamente per far sì che la trasformazione coinvolga capillarmente
tutta la società, è innegabilmente una importante lezione di
democrazia, come solo il Rojava riesce ad impartirne. Così come è
una lezione altrettanto significativa la traduzione politica della propensione
all’accoglienza e alla cura, tipica del popolo curdo.
Prima di andare via per lasciarla tornare
sulle montagne al fronte chiediamo a Meryem cosa farà dopo la
rivoluzione. Cercherò di difendere la libertà delle donne di
tutto il mondo, ci risponde ferma mentre sorseggia il fondo del chai ormai
freddo.
Quella del Rojava non è una
rivoluzione che si accontenta di costruire un perimetro di
impermeabilità e di sicurezza. E’ un vento forte, che innanzitutto
scompagina le storie rivoluzionarie del novecento e che in nome della
democrazia radicale sta scrivendo una storia globale di resistenza che guarda
alla moltiplicazione. Meryem e le altre sono tra le protagoniste di questa
straordinaria vicenda di conflitto e sovversione. Tutto attorno a loro, sulle
pareti della stanza nella quale parliamo, fumiamo, ci guardiamo negli occhi, i
volti giovani e belli di tutte quelle che non ce l’hanno fatta. Arin,
Meral e le tantissime Zilan. A loro, al sangue versato per una liberazione che
parla la lingua che abbiamo provato a restituirvi in questo scritto, va
probabilmente dedicato, come tante hanno già fatto, questo otto marzo
dell’anno della liberazione di Kobane.
di Eleonora De Majo, Valentina Raimondi
Global Project
© 2013 UiKi ONLUS Team