March 16, 2015
Davide Mozzato e Marco Sandi, parte di una
delegazione di Rojava Calling, sono entrati nella città martire siriana
al confine con
“E’ stata una battaglia
violentissima, combattuta in inferiorità ma con
grande tenacia, contro un nemico che vuole distruggere la libertà. L’abbiamo
combattuta per tutto il mondo“. Ismet Hasan è il ministro della
Difesa del cantone di Kobane. Snocciola numeri di
morti e feriti (1.200 caduti per l’Isis, 670 per lo Yekîneyên
Parastina Gel, l’Unità di Protezione Popolare) come un qualsiasi
ministro, con la sola differenza che nelle mani tiene stretta la sua arma e ha
gli occhi di chi dietro una scrivania non si è seduto spesso. Coordina
la difesa della città, ma è anche responsabile
dell’inseguimento delle truppe del Califfato nel
deserto siriano. Racconta di scontri e combattimenti senza mai perdere la
calma, con alle spalle il figlio che, vigile, gli fa
da guardia del corpo.
Entrare a Kobane a pochi giorni dalla
liberazione da l’impressione di piombare in
un’apocalisse. Si capisce quasi subito che in questa città non
è stata combattuta solo una battaglia per il suo controllo: una volta
capito che l’assedio sarebbe durato più del previsto, i miliziani
dello Stato Islamico, hanno messo in atto una campagna di distruzione totale
1della città e dell’esperienza politica rivoluzionaria di cui
è portatrice. Camminando per le strade appena liberate
si ha subito la sensazione che Kobane fosse una vivace e popolosa città
di confine, con centinaia di negozi a colorare le strade polverose. Le
merci sono rimaste intatte al loro posto, solo impolverate malgrado
le vetrine e le serrande siano letteralmente esplose a causa dei bombardamenti.
Gli edifici rimasti in piedi nonostante il volume di bombe cadute presentano i segni della battaglia: interi piani crollati, automobili
scaraventate al secondo piano, fori di proiettile ai lati.
Kobane era una città di 60 mila
abitanti, adagiata ai piedi delle colline, con il centro città
schiacciato dal prossimo confine. Per mesi ha parlato attraverso il rumore
delle bombe e delle mitragliatrici. Kobane è stata testimonianza di un
assedio brutale, di uno scontro fra ideologie che si frappongono: da una parte
i miliziani jihadisti dell’Isis e dall’altra i guerriglieri curdi,
organizzati nelle Ypg. L’assedio è durato 134 giorni, dalla
metà di settembre, quando le prime bombe dell’Isis sono cadute in
città e i primi rifugiati curdi hanno attraversato il confine, al 26 gennaio quando lo Ypg ha dichiarato ufficialmente che
Kobane era stata liberata.
Niente si è salvato dalla furia distruttrice
del Califfato. Si cammina tra le macerie facendo
attenzione a dove si mettono i piedi, la città è ancora
disseminata di bombe inesplose e solo un minimo contatto potrebbe farle
brillare. Agli incroci sono appesi teli e tappeti, sono un metodo rudimentale
ma efficace per muoversi da una strada all’altra senza essere presi di
mira dai cecchini dell’Isis. Le barricate invece sono costruite con le
macerie delle abitazioni e con qualsiasi altro mezzo sia
stato possibile recuperare: auto, trattori, furgoni e persino autobus. Tutti
ovviamente crivellati di proiettili. Il silenzio è rotto dal rombo dei
bombardieri della coalizione in cielo e da qualche
esplosione o raffica di mitragliatrice che ancora viene sparata entro i confini
cittadini. Si attraversano interi quartieri senza incontrare anima viva, solo
in lontananza si scorgono alcuni mezzi dello Ypg che si muovono verso il
fronte, ormai a qualche decina di chilometri.
“Saremo sempre grati a chi ha
combattuto per noi”
Sono loro, i combattenti dello Ypg, coloro che strenuamente
hanno difeso Kobane. Sono per lo più
ragazzi, tra i 20 e i 30 anni, indossano la divisa mimetica ma portano scarpe
da ginnastica. Sulle loro spalle campeggia l’immancabile Kalashnikov,
arma simbolo di tutte le rivolte. Lo personalizzano con adesivi tricolori:
rosso, giallo, verde, i colori della Rojava. Hanno le facce tirate, tese ma non lesinano sorrisi e strette di mano. Si concedono
anche in foto, però prima mettono bene in mostra l’arma. Sono
curdi siriani, ma anche turchi, iraniani, iracheni. Sono venuti da tutte le
regioni del Grande Kurdistan per aiutare i loro fratelli assediati, per portare
loro solidarietà e competenza. Sono giovani ma hanno sulle spalle tutto il peso di una guerra,
di un assedio immane, sono pronti a morire per la loro terra. “Sono
venuti curdi da tutto il mondo per aiutare i propri fratelli a difendere
Kobane. In città hanno combattuto anche stranieri, persone che hanno
lasciato tutto nei loro paesi pur di aiutarci a difendere la libertà e
la democrazia nella Rojava. Gli saremo per sempre grati. Ogni qualvolta
ci sarà bisogno di combattere per la libertà in
altri paesi noi saremo sempre al loro fianco“, aggiunge Ismet
Hasan.
Meglio affrontare Isis che scappare
in Turchia “E’ un nemico”
I guerriglieri ostentano sicurezza anche quando in lontananza esplodo alcuni
colpi di mortaio mentre tutti intorno abbassano la
testa e cercano riparo. Alcuni di loro sono a Kobane dall’inizio
dell’assedio perché non hanno voluto
andarsene, hanno preferito prendere le armi per difendere le loro case
piuttosto che cercare rifugio in Turchia, da molti considerata al pari di un
nemico. In effetti in questi mesi i curdi
asserragliati in città hanno dovuto combattere non solo l’Isis, ma
anche con l’esercito turco, guardiano non sempre imparziale del confine
su cui Kobane è appoggiata. Più volte i militari di guardia si
sono resi complici dei miliziani del Califfato, come a fine novembre quando un
camion che avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari è stato fatto
passare dal confine turco per poi rivelarsi un’autobomba dell’Isis
che ha provocato morti e feriti tra i combattenti curdi.
Kobane, la furia di
Isis contro il confederalismo democratico
Dall’altra parte c’è invece l’Isis, ora solamente Is. Per
loro Kobane era solo un’altra piccola città sulla mappa, da
conquistare per avere il pieno controllo della frontiera con
Ismet Hasan si guarda intorno e sogna la
ricostruzione, ma al momento è impossibile pensare di far rientrare
tutti i rifugiati per i semplici motivi che non esistono più le
24abitazioni e le strade sono disseminate di bombe inesplose. Servirà
una bonifica, ma soprattutto molto tempo. Anche
l’elettricità è totalmente insufficiente per i bisogni di
una città e manca l’acqua potabile. Per questi motivi stanno
cercando di fermare l’afflusso di coloro che vogliono
precipitosamente tornare nelle proprie case, nonostante la battaglia sia finita
solo da qualche giorno. Nel prossimo futuro si attendo ancora battaglie e morti, c’è da riconquistare buona
parte del territorio perso e le centinaia di villaggi curdi ancora in mano
all’Isis.
di Davide Mozzato e Marco Sandi
Foto di Marco Sandi
(Mozzato e Sandi sono parte di una delegazione di Rojava Calling e sono entrati
a Kobane il 30 gennaio, 4 giorni dopo la liberazione. Per entrambi era la
seconda esperienza sul confine turco-siriano).
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