March 30, 2015
(Roberto Mulas) – Nel campo di Yeniseir, in Turchia vivono
da settembre 3600 persone. Collocato a
Gli Yazidi venerano Melek Ṭāʾūs, un angelo dalle sembianze di un
pavone. Il culto di Melek Ṭāʾūs non
è ben definito e deriva probabilmente dalle antiche venerazioni
pre-islamiche degli abitanti della Mesopotamia. Esso contiene elementi di islam, giudaismo, mazdeismo, mitraismo e manicheismo. Il
Kurdistan resta però la patria storica da quando i curdi stessi ne hanno richiesto il riconoscimento come facenti parte del
loro popolo in seguito alle oppressioni subite per mano di Saddam Hussein.
E’ proprio grazie ai curdi
del’YPG (unità armata di difesa del popolo curdo) è stato
possibile aprire un corridoio che dall’Iraq – oltre a un comparto di difesa del Sinjar – li portasse in
Turchia per salvarli dall’Isis. Contemporaneamente è stato svolto
un lavoro di formazione grazie al quale possono in parte autodifendersi. Le
origini geografiche sono sia del Sinjar (Gebel Singiār), il monte iracheno
che ospita da sempre questa popolazione, sia della zona di Shaykhān, nei
villaggi come (Shingal, Zumar e Bahshiq) a
Il campo prima ospitava 7000 profughi; parecchi sono tornati a
Sinjar e in altre città al confine tra Siria e Iraq, andando incontro al
nemico. Il campo non è affatto una casa ma solo
una soluzione temporanea. Al suo interno ospita una struttura sanitaria e tutte
le attività sono autogestite e organizzate in commissioni. Gli aiuti
arrivano numerosi da 5 municipalità turche, oltre che singoli civili. La
sanità dello Stato turco non accetta i profughi nei ‘Pronto
Soccorso’ a meno che non si tratti di casi molto
gravi; ultimamente neanche questi ultimi vengono accolti dagli ospedali
pubblici. Nei corridoi polverosi e fangosi, tra le file simmetriche di tende
grigie, gira voce che il governo centrale chiuderà anche l’unica
struttura sanitaria presente. Chi è tornato indietro, in Iraq vive
principalmente nei campi profughi di Zakho, al confine con
I loro vicini di casa di un tempo si sono convertiti all’ISIS; i buoni
rapporti di vicinato – classici di culture suddivise in clan – si
sono trasformati in paura di essere venduti, uccisi o decapitati. Nessuno vuole
più tornare indietro se non armato e per combattere, ma solo accanto all’YPG.
«Gli americani ci hanno lanciato
qualche briciola ma non bastava, né
l’Iraq né i curdi iracheni ci hanno aiutati».
Il progetto di autonomia
del Rojava non sembra essere ciò che cercano, la paura dei miliziani
dell’Isis è molto più grande della volontà di stare
in Mesopotamia. I tentativi di difesa armati si sono bloccati con la richiesta
fatta a Ma’sud Barzani (Presidente della regione del Kurdistan iracheno,
provincia autonoma dell’Iraq, e dal 1979 capo del Partito Democratico del
Kurdistan) di ricevere ingenti quantità di armi
ma senza ottenerle. Circa 4 mila abitanti del Sinjar hanno chiesto aiuto al Presidente ma nei tempi di attesa gli uomini sono stati
uccisi e le donne vendute a Raqqa e Mosul, insieme ai bambini. «Adesso le
nostre sorelle, madri, figlie e compagne potete
trovarle nei mercati, tutte le donne in vendita sono yazide, una costa 200
euro».
Non è l’unico scempio che queste hanno dovuto subire.
Durante l’invasione dell’Is si portava via il figlio alle donne
Yazide che avevano appena partorito per poi venirgli dato in pasto
mentre ancora erano all’ospedale. In generale i soprusi sono
sempre esistiti sia sul lato turco che iracheno:
«venivamo bloccati e sottoposti a controlli lungo le strade in quanto
curdi, i primi a passare erano i musulmani. Ora la situazione è
ulteriormente peggiorata».
Tra i racconti si scopre che circa 20 curdi
yazidi sono ancora in galera in Iraq per aver ucciso un soldato dello Stato
Islamico. Nel campo qualcuno è stato prigioniero dell’Isis prima
dell’attacco a Sinjar, avvenuto dopo la presa di Mosul. Un uomo yazida
è stato catturato insieme ad altri 23 suoi
colleghi mentre era in turno, faceva il poliziotto del governo centrale
iracheno. Tra i miliziani dell’Isis erano presenti diversi foreign
fighters che provenivano da Cile, Turchia, Afghanistan e Cecenia.
«Stavamo tornando nelle montagne di Sinjar e ci hanno fatto prigionieri a
Zakho (cittadina di confine tra Siria e Iraq) per un mese. Se ci avessero dato
una pistola ci saremmo uccisi, molto meglio morire
sparati piuttosto che avere la testa tagliata. A chi gli veniva
chiesto se volesse una sigaretta gli amputavano diti indice e medio. Qualsiasi
cosa dicevamo –dai saluti al
‘grazie’- doveva essere seguito da inshallah (se dio vuole)
sennò ci minacciavano di tagliarci la gola. Ho dovuto
pagare 50 mila dollari di risparmi, ho venduto qualsiasi cosa e chiesto
soldi ai parenti per liberarmi e sopravvivere. Sono stati decapitati 20 dei
miei colleghi».
«Nel mondo si trova spazio e si cerca
di salvare tutti gli animali in via d’estinzione ma
nessuno fa niente per noi. Siamo forse peggio degli animali?» – 15
marzo 2015
spondasud.it
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