STATO ISLAMICO, L’ARCHITETTURA DEL TERRORE
Pubblicato in: CHI HA PAURA DEL CALIFFO - n°3 - 2015
La parabola vincente dell’Is a guida al-Baġdādī. La strategia di penetrazione
in Libia e la creazione di forme di governo sul territorio, basate sui traffici.
L’importanza del fattore locale. La gestione dell’orrore. Per batterlo occorre
curare l’Iraq, dove tutto è nato.
di Lorenzo DECLICH
1. ALL’INIZIO DI FEBBRAIO AL-MALAHIM
Media, la struttura che confeziona la propaganda di al-Qā‘ida nella Penisola Arabica (Aqap),
pubblicava un libro dal titolo I Banū Tamīm fra il jihād di chi è
passato e l’epica di chi è venuto dopo 1. Si tratta di un lungo brano
apologetico, scritto da uno šayḫ yemenita (Ḥāmid bin Ḥamūd al-‘Uṯmān al-Tamīmī),
che attualizza la storia di una tribù araba, i Banū Tamīm, le cui origini preislamiche rintracciamo nel Nağd
(odierna Arabia Saudita). La tribù ha avuto un ruolo anche nella Mecca di Muḥammad
e una parte di essa entra a far parte, nei secoli, del
panorama tribale yemenita e in particolare del Ḥaḍramawt interno, una vastissima regione – patria
della famiglia bin Laden –
dove oggi Aqap è presente in forze 2.
La prefazione al libro è firmata dal
leader di Aqap, Nāṣir
‘Abd al-Karīm al-Wuḥayyišī,
e si concentra in particolare sull’ultimo tratto di storia, quello del XXI
secolo, ricordandoci «gli eroi» dei Tamīm caduti
nella guerra contro l’America, fra cui figura uno degli attentatori dell’11
settembre. L’operazione è chiara: legare al presente un passato mitico, in cui
i Banū Tamīm vengono ritratti come campioni del jihād,
per incitare i membri locali della tribù a unirsi ad Aqap
e a far rivivere sotto quella bandiera gli antichi fasti.
Quale sia
l’impatto reale di una pubblicazione del genere nel contesto qaidista dell’odierno Ḥaḍramawt non è chiaro. Essa, tuttavia, può offrire
diversi spunti di riflessione. Per prima cosa ci ricorda che la propaganda di Aqap in Yemen
passa anche, ormai da qualche anno, per il tentativo di raccogliere attorno a
sé le tribù yemenite che si trovano nelle aree in cui Aqap
opera. Infatti Aqap nasce da
una «migrazione» di jihadisti in gran parte stranieri
verso aree periferiche dello Yemen (in particolare
nelle aree più remote del governatorato di al-Ğawf). Jihadisti che, sulle prime, avevano contatti sporadici con
le popolazioni presenti sul territorio e, anzi, a esse
erano invisi tanto che Aqap trovava nelle strutture
tribali un ostacolo alla propria espansione.
2. Aqap nasce
nel 2009 dalla fusione della branca yemenita di al-Qā‘ida, ridotta all’osso, e di quella saudita in fuga
dal regno e in cerca di un rifugio sicuro. Il successivo «mescolarsi con le
masse», anche allo scopo di reclutare approfittando dello scontento generale,
fa parte della nuova strategia di al-Qā‘ida,
inaugurata alla morte di Osama bin
Laden e nel contesto delle rivolte del 2011. Una
strategia che, globalmente, passa per la creazione di nuove entità meno
identificabili col brand qaidista
– si pensi agli Anṣār al-šarī‘a,
presenti in diversi paesi 3, o alla Ğabhat
al-Nuṣra in Siria – e per una presenza militare sul
terreno.
Sebbene oscurata, soprattutto dal punto di
vista mediatico, dall’ascesa dello Stato Islamico –
che ne raccoglie in parte la lezione – questa
strategia ha avuto modo di svolgersi con coerenza proprio nello Yemen. È probabile che la propaganda diretta alle tribù
possa avere esito positivo: tracciare un curriculum
antiamericano che riporti all’11 settembre, essendo gli statunitensi un nemico
tangibile in aree dove la morte arriva dai loro droni
4 facendo anche vittime innocenti, può portare consenso. Tuttavia,
come vedremo, sappiamo che con progressiva intensità Aqap
deve far fronte alla nuova sirena del terrorismo jihadista,
lo Stato Islamico (Is), al quale in principio, cioè dopo la proclamazione della nascita del califfato da
parte di Abū Bakr al-Baġdādī (29 giugno 2014), l’organizzazione sembrava
voler aderire.
La seconda cosa che il libro sui Tamīm ci spiega è che nonostante vi sia un piano di analisi che richiede di considerare il fenomeno nel suo
complesso, le situazioni locali in cui il jihadismo
terrorista si muove e si sviluppa non sono di secondaria importanza, anzi ne
determinano più di ogni altra cosa i destini. In altre parole, è principalmente
il teatro locale che determina il nascere e lo svilupparsi del
jihadismo in una determinata area. Uno sviluppo che
oggi si coniuga con la comparsa dello Stato Islamico e la sua
visione politico-strategica.
Nel caso dello Yemen,
la disputa ancora in corso, e della quale non conosciamo gli esiti, si è
concentrata sulla legittimità del califfato e ha coinvolto l’organizzazione a
diversi livelli. Per analizzarla è necessario tornare indietro al 19 agosto
2014, quando si diffonde la notizia secondo cui Aqap
avrebbe annunciato il suo supporto all’Is
Non sappiamo se dietro queste due prese di
posizione si celasse una battaglia per la leadership
interna ad Aqap o se le divergenze fra i due fossero
la prova di una ormai insanabile frattura all’interno dell’organizzazione, con
una parte di essa che si avvicina all’Is. Sappiamo
tuttavia che entrambi i leader, a distanza di qualche giorno (9 e 12 gennaio),
rivendicano l’attentato alla redazione parigina di Charlie
Hebdo in nome di Aqap.
Le cronache del mese successivo ci raccontano poi dell’uccisione di al-Naẓārī durante un attacco
di droni americani 9 e della defezione di
un gruppo di jihadisti di Aqap
che dichiarano la propria adesione all’Is 10.
3. Anche per la Libia l’analisi della dinamica jihadista e dell’ascesa
dello Stato Islamico non può prescindere da fattori locali. In quel paese il jihadismo ha una storia in gran
parte «nazionale»: attecchisce dalla fine degli anni Ottanta e, in diversi
casi, si diversifica dall’agenda globale di al-Qā‘ida
(si veda ad esempio l’evolversi del principale gruppo jihadista
libico degli anni Novanta, la Ğama‘a al-Islāmiyya al-Muqātila bi-Lībiyā, o Lifg) il cui
principale obiettivo resta, fino alla disfatta di fine anni Novanta, tutto
libico.
Gli anni Duemila, segnati da quel
rovescio, avevano visto da una parte le «riabilitazioni» dei jihadisti in prigione, e le successive scarcerazioni da
parte di Gheddafi, e dall’altra la diaspora (per lo più afghana) o il ritorno
all’attività sotterranea di chi non era caduto nelle maglie della sicurezza del
Colonnello. E se alcuni libici andarono a infoltire le
file del nucleo centrale di al-Qā‘ida, arrivando
anche a ricoprire ruoli importanti, altri defluirono in Iraq, dove nel 2007
costituivano il contingente straniero più folto all’interno dell’allora Stato
Islamico di Iraq (Isi) 11. La
«capitale» del jihadismo
libico, ieri come come oggi, era Derna (il 60% dei
combattenti libici nell’Isi proveniva da lì). L’altro
importante polo, in questa particolare classifica, era Bengasi
(con il 24%) 12.
Il momento di svolta in Libia arriva nel
2011: il dopo-Gheddafi vede il rimontare del jihadismo in diverse forme. I
combattenti del Lifg liberati dalle prigioni libiche
o i qaidisti di ritorno da altri teatri, fra cui quello iracheno, si distribuiscono tra diverse
organizzazioni. Alcuni, dopo un esordio combattente, entrano a far parte del
panorama politico (arrivano a presentarsi alle elezioni, perdendo),
affiliandosi a cordate islamiste (ad esempio quella
dei Fratelli musulmani) ma non qaidiste.
Altri scelgono invece posizioni estreme, allineate alla nuova strategia di al-Qā‘ida: vediamo comparire Anṣār
al-šarī‘a in due «versioni», quella di Bengasi e quella di Derna, nelle cui campagne già dal 2012
si segnalavano campi di addestramento jihadisti.
Entrambi i leader dell’organizzazione, Muḥammad
al-Zahāwī (morto lo scorso gennaio 13) e Abū Sufyān bin
Qumū, fanno parte del gruppo di jihadisti
liberati da Gheddafi (il secondo è un ex prigioniero
di Guantánamo consegnato al Colonnello nel 2008 dagli
americani) ed entrambi sono legati, in forma più o meno
diretta, al nucleo centrale di al-Qā‘ida
Gli Anṣār
al-šarī‘a entrano nel mirino
statunitense dopo l’assalto al presidio diplomatico americano di Bengasi dell’11 settembre 2012. Restano tuttavia gruppi
separati (sventolano bandiere diverse) i cui destini
si legano alle vicende locali nelle quali sono coinvolti. A Derna, nell’aprile
2014, la formazione confluisce all’interno della Mağlis
al-Šūrā Šabāb al-Islām, la Camera di consultazione della gioventù
islamica. La nuova sigla raccoglie insieme diversi gruppi jihadisti
della città, la quale, dopo qualche resa di conti interna 15 e in
due passi successivi (giugno e ottobre 2014) finisce per divenire la «prima
colonia» del nuovo Is al di fuori dei territori
di Siria e Iraq 16. Derna, che durante i giorni della caduta della Ğamāhīriyya libica era stata
indicata dalla facile propaganda gheddafiana come un
«emirato islamico», diventa invece la capitale di una provincia (wilāya) del neocaliffato.
Dall’ottobre del
In ottobre il Washington
Post ne contava in tutto 556 21 e sappiamo che la loro
affiliazione a diversi gruppi jihadisti, alcuni dei
quali non sono legati ad al-Qā‘ida o all’Is, ricalca grosso modo appartenenze maturate in origine.
Ancora nel settembre 2014 la posizione di un buon numero di jihadisti
libici espatriati nei confronti dell’Is non era
chiara: molti erano partiti dalla Libia per unirsi alla Ğabhat al-Nuṣra, cioè alla sigla qaidista siriana o
ad altre formazioni non qaidiste 22. Di
certo un ruolo nella conquista dell’egemonia a Derna l’hanno
avuto i circa 300 combattenti della Katībat al-Battār al-Lībī, che sotto le
bandiere dell’Isis aveva combattuto 3nella
Siria orientale, a Dayr al-Zawr
e poi a Mosul 23.
In Libia, il cancro dello Stato Islamico
si propaga in una cornice complessa, con alcuni punti di contatto con la
situazione yemenita e con quella siriana: per farsi
largo nella città di Derna, dove ha il suo quartier
generale, ha combattuto contro altre formazioni jihadiste
rivali e, presumibilmente, contro coloro che più hanno legami e contatti con al-Qā‘ida. Allo stesso tempo, ha caratteristiche sue proprie sia logistiche che organizzative, pur
promuovendosi con strumenti di propaganda simili a quelli della «casa madre»
(si veda il video delle decapitazioni di cittadini egiziani copti).
L’Is agisce portando guerra e terrore in uno scenario
specifico come quello libico, in cui l’intervento di
attori esterni – da una parte Egitto ed Emirati col governo di Tobruk e dall’altra Turchia e Qatar con quello di Tripoli –
si combina con una tendenza alla frammentazione, che spesso segue il tracciato
delle identità tribali (tribù che qui come in Siria o in Iraq guardano spesso
più ai loro interessi che alle bandiere) e che favorisce azioni come
l’occupazione di Sirte.
Emblematica in questo senso è la notizia, apparsa il
19 febbraio 24, secondo la quale la brigata inviata a Sirte da
Misurata per riprendere la città gheddafiana per
eccellenza non attacca in attesa dei risultati dei negoziati fra Stato Islamico
di Libia e leader tribali. Fatto che riporta alla mente una vecchia intervista
di Fausto Biloslavo all’ex dittatore, il quale alla
domanda se temesse o meno di finire come Saddam Hussein risponde: «No, no,
la nostra guerra è contro al-Qā‘ida», ma se gli
occidentali, prosegue, «si comportano con noi come hanno fatto in Iraq, la
Libia uscirà dall’alleanza internazionale contro il
terrorismo». «Ci alleiamo con al-Qā‘ida», conclude, «e dichiariamo la guerra santa» 25.
È in questo contesto
– ritornando all’importanza del fattore «locale» – che dobbiamo inserire le
ormai famosissime minacce su Roma. Come dimostra la pubblicistica, queste sono
le ultime di una lunga e scomposta serie (con al-Rūm nel
Corano si indica piuttosto l’impero bizantino) e
potrebbero far pensare a un reale e immediato pericolo di grandi proporzioni,
ma che ha più senso valutare nel quadro della situazione libica. Uno scenario
in cui l’Italia si trova contemporaneamente nei panni dell’ex potenza coloniale
e di uno dei maggiori attori nel gioco degli interessi
economici legati all’approvvigionamento di gas e petrolio.
4. Diversi sono gli analisti che si sono
cimentati nella mappatura dello Stato Islamico, prima
e dopo la nascita del califfato. Ayman Ğawād al-Tamīmī, a pochi mesi
dalla nascita dell’Isis 26, usava il termometro delle
bay‘a, «i riconoscimenti come leader» ad Abū Bakr
al-Baġdādī. Ne derivava una raccolta decisamente nutrita di testimonianze provenienti da Arabia
Saudita, Somalia, Libano, Sinai, Ahwaz (Iran arabofono), Libia e Tunisia. Sappiamo che poi, con la
proclamazione del califfato, seguirono altre adesioni: ad esempio Boko Haram e una frazione
algerina di al-Qā‘ida nel Maghreb islamico (Aqmi), i
Soldati del califfato in terra d’Algeria (Ğund al-oeilāfa fī arḍ
al-Ğazā’ir).
Più tardi Aaron Y. Zelin, in un
articolo scritto all’indomani del messaggio audio di al-Baġdādī su menzionato del novembre 2014 27,
si soffermava invece sul «modello di adesione allo Stato Islamico», che
prevedeva la dismissione di denominazioni precedenti, la fondazione di una
provincia (wilāya) e la nomina di un
governatore (wālī). Il «jihadologo» notava che, nonostante la pletora di adesioni, le uniche aree dove le nuove sigle potrebbero
davvero attecchire sono in Libia e nel Sinai, dove le organizzazioni hanno la
possibilità di innestarsi nelle tradizionali reti di «traffici, contrabbando e
attività legate al mercato nero».
Le zone in cui sono state istallate le due
province sono aree critiche dal punto di vista delle
attività suddette. Il modello infatti, sebbene sia
molto lontano da ciò che chiamiamo Stato, prevede una sostenibilità di tipo
economico che può essere raggiunta solo sovrapponendo un organigramma e una
struttura organizzativa leggera
La tanto temuta e millantata espansione
territoriale dell’Is, dunque, è condizionata dalle
particolari situazioni locali, in primo luogo dalla possibilità di produrre un
budget grazie alle attività criminali. L’organizzazione raccoglie consensi
«generici», attraverso i quali riesce a tenere in
piedi la rete del reclutamento, o adesioni in contesti divisivi nei quali
diverse fazioni, qaidiste o meno, si contendono
un’area o un traffico. Ma trova una difficile espansione in aree dove è più
radicato un jihadismo
locale: lo vediamo paradossalmente anche in Siria dove ci sono qaidisti e altri jihadisti che
combattono regolarmente contro l’Is 31, che non
riesce a entrare in zone che pure dichiara di gestire (esempio: la situazione
della wilāya di Aleppo 32).
5. Queste riflessioni ci riportano a
prendere in considerazione nel dettaglio il luogo dove l’idea stessa di Stato
Islamico è nata: la fascia sunnita dell’Iraq. Qui
avviene la mutazione di al-Qā‘ida
in Iraq (o meglio Tanẓīm Qā‘idat
al-jihād fī Bilād al-Rāfidayn) in Isi (poi Isis nel 2013 e Is nel 2014), dopo la morte (7 giugno 2006) dello storico
«dissidente» Abū Mus‘ab al-Zarqāwī e la fusione (ottobre 2006) con una federazione
di gruppi jihadisti locali, la Mağlis
Šura al-Muğāhidīn fi al-Iraq.
Lo scenario che troviamo nella fascia sunnita alla nascita dell’Isi è molto istruttivo per l’analisi dell’oggi e
sviluppa riflessioni in più direzioni. Il primo elemento di differenza rispetto
a tutte le altre esperienze qaidiste coeve è proprio
la divisione del paese in tre settori: sommariamente il Sud sciita, il Nord curdo e il Centro sunnita. Al safe haven qaidista, un luogo di addestramento
e di fuga impervio e di difficile accesso, lontano dai centri politici e
economici di paesi comunque poveri e fragili, si sostituisce un territorio che
invece è il rifugio degli orfani di Saddam Hussein, un’area dove ha covato per anni il risentimento
per l’invasione americana e dove la repressione è più marcata. La zona più
svantaggiata dal punto di vista della partecipazione alla ricostruzione e al
fragile e contraddittorio processo di state building
statunitense.
Come puntalizzava
Alireza Doostdar
nell’ottobre 2014 33: «In Iraq le città che ora sono controllate
dall’Is sono state fra quelle che più hanno resistito
al controllo americano durante l’occupazione e le più recalcitranti nei
confronti della costituzione del nuovo Stato. La distruzione che queste città
hanno subito», spiegava Doostdar, «ha avuto come
unico risultato l’inasprimento delle posizioni dei
suoi residenti. Falluja, la prima città caduta nelle
mani dell’Is», continua, «è famosa per essere stata
devastata dalle operazioni americane di controinsurrezione
del 2004. E combatte tuttora con quell’eredità fatta di aumento di casi di tumore, mutazioni genetiche, difetti
di nascita e disabilità attribuite all’uranio
impoverito delle munizioni americane» 34. «A Mosul»,
conclude Doostdar, «molti di
coloro che si sono uniti all’Is sono stati nelle
carceri del governo iracheno. Sono nell’ordine delle migliaia e includono
contestatori pacifici che si sono opposti al sempre più autoritario governo del
primo ministro Nūrī al-Mālikī»
35.
In uno studio su al-Qā‘ida
in Iraq del dicembre 2013 36, Michael Knights spiegava: «A partire dalla
metà del 2010 l’Isi era “un morto che cammina”.
L’organizzazione aveva subito battute di arresto
critiche alla fine del 2006 e all’inizio del 2007 quando le milizie tribali arabo-sunnite – la Ṣaḥwa (Risveglio) – si erano rivoltate contro al-Qā‘ida. In parallelo, alcune
operazioni militari dirette dagli Stati Uniti avevano protetto la Ṣaḥwa e portato a termine spietate e frenetiche
operazioni di controterrorismo che avevano ridotto al-Qā‘ida in Iraq a brandelli.
Il gruppo dei volontari stranieri e il
denaro iniziarono a scarseggiare. Le cellule di al-Qā‘ida subirono un processo di disintegrazione,
producendo criminali locali dediti a rapimenti e estorsioni utili a pagare i
salari degli affiliati più che a finanziare l’insurrezione. Pur dedicandosi
diffusamente e con profitto ad attività illecite 37,
nell’aprile 2010 al-Qā‘ida in Iraq aveva perso i suoi
due più importanti leader, l’emiro Abū ‘Umar al-Baġdādī
e il ministro della guerra Abū Ayyūb
al-Maṣrī, e, secondo il comandante americano in
Iraq, generale Ray Odierno, era in procinto di
disintegrarsi. In una conferenza stampa del 4 giugno 2010, il generale
statunitense notava come «negli ultimi novanta giorni abbiamo catturato o
ucciso 34 dei 42 maggiori leader di al-Qā‘ida in Iraq». Tuttavia, come osservato da Jacob N. Shapiro e Danielle F. Jung
38, i leader dell’Isi seppero creare
meccanismi gestionali durevoli che permisero
all’organizzazione di sopravvivere alle pesanti perdite di affiliati, al turnover
dei vertici e ai cambiamenti politici locali.
In un lavoro del 2007 sul ruolo (centrale)
dei foreign fighters
nell’Isi 39, Joseph
Felter e Brian Fishman esaminavano la perdente «sfida strategica»
dell’organizzazione, dovuta al «fondere le esigenze ideologiche della sua constituency globalizzata
con gli interessi reali dei relativamente secolarizzati iracheni». In quegli
anni nel paese «la maggior parte dei gruppi militanti non aveva questo problema
strategico. Una vasta maggioranza dei militanti in Iraq», spiegavano Felter e Fishman, «non aveva
nulla a che fare con al-Qā‘ida. Erano focalizzati
sull’agenda irachena: sicurezza, distribuzione di potere e denaro, confessionalismo». «Questi combattenti», concludevano,
«erano un miscuglio di nazionalisti sunniti, baatisti, milizie sciite e organizzazioni islamiste. Confondere uno di questi gruppi con al-Qā‘ida non è soltanto sbagliato ma anche pericoloso,
anche se il fallimento politico dell’Isi non deve oscurare il fatto che l’Iraq ha portato migliaia di giovani
di tutto il mondo a unirsi alla causa di al-Qā‘ida».
La sfida strategica però da perdente è
diventata vincente. E il cambiamento avviene
nell’estate del 2010, quando la leadership dell’Isi
passa nelle mani di Abū Bakr
al-Baġdādī, uno degli intraprendenti ex prigionieri
del carcere americano di Camp Būkā (Iraq meridionale)
40. Nell’aprile dell’anno successivo assistiamo a
un rilancio dell’organizzazione in base alle linee della «nuova strategia» del
nucleo centrale di al-Qā‘ida, e la conseguente
conquista di «un significativo spazio operativo all’interno delle comunità
arabe sunnite». L’Isi
«sembra aver razionalizzato i suoi obiettivi a breve termine
e sincronizzato la propaganda con le crescenti preoccupazioni degli arabi sunniti iracheni» 41.
Il punto di svolta finale segue in
parallelo la progressiva disintegrazione della Siria, a
partire dall’inizio del 2012. Il paese, che per anni era
stato la pressoché unica stazione di transito per i foreign
fighters diretti in Iraq 42, diventa
prima il «rifugio sicuro» – sotto l’ombrello della neonata Ğabhat
al-Nuṣra – dei jihadisti
che operavano in Iraq, e poi la culla dell’Isis
(aprile 2013). Questo si distacca da al-Qā‘ida e in
breve conquista Raqqa, città abbandonata da al-Asad e appena restituita ai rivoluzionari siriani,
facendone, senza incontrare resistenza se non nel contesto
della società civile cittadina, il suo centro strategico-militare.
Fino all’offensiva che porta alla presa di
Mosul (10 giugno 2014), la città di Raqqa, l’Anbār siriano, i territori
della Siria attorno all’Eufrate e i corridoi che portano alle regioni frontaliere con la Turchia, costituiranno il punto di
partenza strategico e militare, lo spazio dove sperimentare una propria forma
di dominio e l’area di raccolta dei frutti della propaganda globale.
Ma è nel teatro iracheno del 2006-7 che l’odierno Is
matura il nuovo pensiero strategico (la fondazione di uno Stato) e anche una
pratica politica volta a cercare appoggi in fazioni e gruppi «ideologicamente»
molto lontani dal jihadismo.
La sfida si trasforma dunque in vittoria grazie al «buco nero» della Siria,
dove l’Isis trova terreno fertile e già «coltivato»
da anni di guerra e distruzione per sviluppare ed espandere il
suo expertise criminale. Nonostante questo, è ancora in Iraq che
bisogna tornare se si vuole rispondere a uno degli
interrogativi che il mondo ha di fronte: in che misura e in che forma il
modello di Stato Islamico è esportabile?
6. Un punto sul quale tutti si trovano
d’accordo nel considerare l’attività odierna dell’Is è il livello insostenibile di crudeltà e barbarie.
Sul tema si sono interrogati in molti, ricorrendo ai più diversi strumenti di analisi. Ma la costatazione di
un avvenuto balzo in avanti nella presentazione a scopi propagandistici di questo orrore non può portare frutti senza concentrare
l’attenzione su quella che si può definire «l’esperienza irachena». Ancora Alireza Doostdar, nel chiedersi
quali siano le basi ideologiche dell’Is sottolinea che, sebbene un buon numero di analisti si
concentri sulle sue origini salafite o wahhabite, la barbarie dello Stato Islamico ha altri
natali: «La brutalità dell’Is non è emersa dal
nulla», sottolinea il ricercatore, «ma è parte di un
intero sistema che ha iniziato a espandersi più di dieci anni fa». Tendiamo a
dimenticare o a rimuovere che «la prima decapitazione videoregistrata
di un cittadino americano in Iraq», spiega Doostdar,
«fu condotta dai predecessori dell’Is nel
«Nel 2011 emerse che
alcuni soldati americani in Afghanistan», continua Doostdar,
«andavano a caccia di civili per sport e raccoglievano le loro dita e i loro
denti come souvenir.
Nel bagno di sangue confessionale che ha sommerso l’Iraq
dopo l’invasione americana, le decapitazioni perpetrate dagli insorti sunniti diventarono una forma morbida di reciprocità nei
confronti dei miliziani sciiti che praticavano fori nelle loro vittime usando
trapani elettrici». «Il punto», conclude, «non è
identificare il momento esatto in cui la crudeltà è emersa nel corso della
lunga guerra globale a guida americana contro il terrorismo, ma che individuare
una sola dottrina religiosa come estremista non ci aiuterà a capire questi
cicli di brutalità, che si sono nutriti per anni di narrazioni e immagini di
tortura, assassini e profanazioni».
Grazie a queste riflessioni, notiamo il
convergere della visione strategica e della teoria del comando nell’Is. La gestione della barbarie, una pubblicazione
diffusa a partire dal 2005 e tornata recentemente alla
ribalta per i paralleli che individua nelle pratiche di dominio e nei video di
propaganda dell’Is, non è l’ultima dimostrazione
della «disumanità» di questi «diavoli» quanto un ulteriore indizio della
consapevolezza che l’Is ha del sistema in cui
fiorisce e della proprietà con la quale lo maneggia, anche in ottica
promozionale. Il cuore del libro, come ricorda Steve
Niva 43, non è il pensiero salafita o wahhabita che si ricongiunge a una
tradizione islamica più o meno ricca, bensì una coerente catena di conosciuti
studi sul controllo e il governo nel contesto di un’insurrezione armata.
L’opera più citata è The War of the Flea di Robert Taber, un classico americano che certamente ha ben poco a
che fare con l’islam.
È con un occhio ai «bisogni ideologici»
dei foreign fighters
e un altro alla «gestione della barbarie» che dobbiamo leggere la famosa oeuṯba di Abū Bakr al-Baġdādī dal
minbar della moschea alNūri,
la moschea congregazionale di Mosul
(vedi documento nella pagina seguente).
7. Le cronache militari ci dicono che lo Stato Islamico arretra in alcune aree (come
Aleppo o Kobani). Gli attacchi dal cielo, dicono gli
osservatori, hanno reso difficili se non impossibili quelle ormai iconografiche
avanzate trionfali di decine e decine di pick-up che,
incolonnati, macinano chilometri di deserto senza incontrare ostacoli. Nel Nord
curdo si ammassano armi e uomini in vista della
riconquista di Mosul. Ma, comunque
vada a finire, e non c’è ragione di credere che la città non venga tolta ai
terroristi, il sistema della barbarie è destinato a permanere, mostrando un
livello di crudeltà che altri teatri come Libia e Sinai non conoscono e che,
forse non ancora a lungo, rende imperfetti e deboli i «cloni» nati negli ultimi
mesi. Annientare l’impianto militare dello Stato Islamico senza sanare davvero
e in tutti i suoi aspetti la grande ferita dell’Iraq
porterà inevitabilmente l’Is a reincarnarsi in un
nuovo e più sofisticato mostro.
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www.criticalthreats.org/yemen/knutsen-zimmerman-warning-Aqap-looming-threat-yemen-august-14-2014
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15. www.libyaherald.com/2014/04/08/derna-islamist-leader-murdered
16. www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-first-colony-in-libya
17. www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-03-21/reportage-ribelli-islamici-tolleranti-231527.shtml
18. www.nytimes.com/2012/06/24/world/africa/libya-jihadis-offer-2-paths-democracy-or-militancy.
html?src=recg& pagewanted=all& _r=0
19. www.uruknet.info/?p=m87084& fb=1
20. www.washingtonpost.com/world/foreign-fighters-flow-to-syria/2014/10/11/3d2549fa-5195-11e4-8c24-487e92bc997b_graphic.html
21. www.washingtonpost.com/world/foreign-fighters-flow-to-syria/2014/10/11/3d2549fa-5195-11e4-8c24-487e92bc997b_graphic.html
22. www.joshualandis.com/blog/bayah-baghdadi-foreign-support-islamic-state-part-2/
23. edition.cnn.com/2014/11/18/world/isis-libya/
24. www.libyaherald.com/2015/02/19/misratan-forces-await-results-of-negotiations-with-is-in-sirte/#axzz3SqAdXmKa
25. www.ilgiornale.it/news/lultima-intervista-ra-s-far-fine-saddam-no-perch-sono.html
26. jihadology.net/2013/08/22/musings-of-an-iraqi-brasenostril-on-jihad-bayah-to-baghdadi-foreignsupport-for-sheikh-abu-bakr-al-baghdadi-and-the-islamic-state-of-iraq-and-ash-sham
27. www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-archipelago-of-provinces
28. www.bostonglobe.com/ideas/2014/12/14/the-terrorist-bureaucracy-inside-files-islamic-stateiraq/
QtRMOARRYows0D18faA2FP/story.html
29. www.nytimes.com/2015/02/15/world/middleeast/islamic-state-sprouting-limbs-beyond-mideast.
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30. Si veda per questo anche
www.washingtonpost.com/blogs/monkey-cage/wp/2015/01/28/the-islamic-states-model
31. soufangroup.com/tsg-intelbrief-extremists-and-rebels-battle-for-northern-syria/
32. www.reuters.com/article/2015/02/09/us-mideast-crisis-syria-islamicstate-idUSKBN0LD1L920150209
33. divinity.uchicago.edu/sightings/how-not-understand-isis-alireza-doostdar
34. Si veda per questo www.jadaliyya.com/pages/index/13537/the-toxicity-of-everyday-survival-in-iraq
35. www.niqash.org/articles/?id=3458
36. www.washingtoninstitute.org/uploads/Documents/testimony/KnightsTestimony20131212.pdf
37. www.aawsat.net/2010/09/article55249436
38. www.bostonglobe.com/ideas/2014/12/14/the-terrorist-bureaucracy-inside-files-islamic-stateiraq/
QtRMOARRYows0D18faA2FP/story.html
39. library.uoregon.edu/ec/e-asia/reada/felter.pdf
40. www.theguardian.com/world/2014/dec/11/-sp-isis-the-inside-story
42. J. FELTER, B. FISHMAN, vedi nota 39.
43. blogs.ssrc.org/tif/2015/02/20/the-isis-shock-doctrine
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