Limes

 

http://www.limesonline.com/

 

STATO ISLAMICO, L’ARCHITETTURA DEL TERRORE

Pubblicato in: CHI HA PAURA DEL CALIFFO - n°3 - 2015

La parabola vincente dell’Is a guida al-Baġdādī. La strategia di penetrazione in Libia e la creazione di forme di governo sul territorio, basate sui traffici. L’importanza del fattore locale. La gestione dell’orrore. Per batterlo occorre curare l’Iraq, dove tutto è nato.

di Lorenzo DECLICH
Redazione Limes

1. ALL’INIZIO DI FEBBRAIO AL-MALAHIM Media, la struttura che confeziona la propaganda di al-Qā‘ida nella Penisola Arabica (Aqap), pubblicava un libro dal titolo I Banū Tamīm fra il jihād di chi è passato e l’epica di chi è venuto dopo 1. Si tratta di un lungo brano apologetico, scritto da uno šay yemenita (āmid bin amūd al-‘Umān al-Tamīmī), che attualizza la storia di una tribù araba, i Banū Tamīm, le cui origini preislamiche rintracciamo nel Nağd (odierna Arabia Saudita). La tribù ha avuto un ruolo anche nella Mecca di Muammad e una parte di essa entra a far parte, nei secoli, del panorama tribale yemenita e in particolare del aramawt interno, una vastissima regione – patria della famiglia bin Laden – dove oggi Aqap è presente in forze 2.

La prefazione al libro è firmata dal leader di Aqap, irAbd al-Karīm al-Wuayyišī, e si concentra in particolare sull’ultimo tratto di storia, quello del XXI secolo, ricordandoci «gli eroi» dei Tamīm caduti nella guerra contro l’America, fra cui figura uno degli attentatori dell’11 settembre. L’operazione è chiara: legare al presente un passato mitico, in cui i Banū Tamīm vengono ritratti come campioni del jihād, per incitare i membri locali della tribù a unirsi ad Aqap e a far rivivere sotto quella bandiera gli antichi fasti.

Quale sia l’impatto reale di una pubblicazione del genere nel contesto qaidista dell’odierno aramawt non è chiaro. Essa, tuttavia, può offrire diversi spunti di riflessione. Per prima cosa ci ricorda che la propaganda di Aqap in Yemen passa anche, ormai da qualche anno, per il tentativo di raccogliere attorno a sé le tribù yemenite che si trovano nelle aree in cui Aqap opera. Infatti Aqap nasce da una «migrazione» di jihadisti in gran parte stranieri verso aree periferiche dello Yemen (in particolare nelle aree più remote del governatorato di al-Ğawf). Jihadisti che, sulle prime, avevano contatti sporadici con le popolazioni presenti sul territorio e, anzi, a esse erano invisi tanto che Aqap trovava nelle strutture tribali un ostacolo alla propria espansione.


2. Aqap nasce nel 2009 dalla fusione della branca yemenita di al-Qā‘ida, ridotta all’osso, e di quella saudita in fuga dal regno e in cerca di un rifugio sicuro. Il successivo «mescolarsi con le masse», anche allo scopo di reclutare approfittando dello scontento generale, fa parte della nuova strategia di al-Qā‘ida, inaugurata alla morte di Osama bin Laden e nel contesto delle rivolte del 2011. Una strategia che, globalmente, passa per la creazione di nuove entità meno identificabili col brand qaidista – si pensi agli Anār al-šarī‘a, presenti in diversi paesi 3, o alla Ğabhat al-Nura in Siria – e per una presenza militare sul terreno.

Sebbene oscurata, soprattutto dal punto di vista mediatico, dall’ascesa dello Stato Islamico – che ne raccoglie in parte la lezione – questa strategia ha avuto modo di svolgersi con coerenza proprio nello Yemen. È probabile che la propaganda diretta alle tribù possa avere esito positivo: tracciare un curriculum antiamericano che riporti all’11 settembre, essendo gli statunitensi un nemico tangibile in aree dove la morte arriva dai loro droni 4 facendo anche vittime innocenti, può portare consenso. Tuttavia, come vedremo, sappiamo che con progressiva intensità Aqap deve far fronte alla nuova sirena del terrorismo jihadista, lo Stato Islamico (Is), al quale in principio, cioè dopo la proclamazione della nascita del califfato da parte di Abū Bakr al-Baġdādī (29 giugno 2014), l’organizzazione sembrava voler aderire.

La seconda cosa che il libro sui Tamīm ci spiega è che nonostante vi sia un piano di analisi che richiede di considerare il fenomeno nel suo complesso, le situazioni locali in cui il jihadismo terrorista si muove e si sviluppa non sono di secondaria importanza, anzi ne determinano più di ogni altra cosa i destini. In altre parole, è principalmente il teatro locale che determina il nascere e lo svilupparsi del jihadismo in una determinata area. Uno sviluppo che oggi si coniuga con la comparsa dello Stato Islamico e la sua visione politico-strategica.

Nel caso dello Yemen, la disputa ancora in corso, e della quale non conosciamo gli esiti, si è concentrata sulla legittimità del califfato e ha coinvolto l’organizzazione a diversi livelli. Per analizzarla è necessario tornare indietro al 19 agosto 2014, quando si diffonde la notizia secondo cui Aqap avrebbe annunciato il suo supporto all’Is 5. A seguito della decisione di al-Baġdādī di espandere lo Stato Islamico in Algeria, Egitto, Libia, Arabia Saudita e Yemen (13 novembre 2014) 6, uno degli ideologi di Aqap, āri al-Naārī, stabiliva invece che la sua organizzazione sarebbe rimasta fedele al leader di al-Qā‘ida Ayman al-awāhirī 7. Il mese precedente un altro leader di Aqap, ir bin ‘Alī al-Ānsī, aveva invocato invece l’unione delle forze in Siria 8, dopo la divisione maturata in seguito al dissidio in seno alla Ğabhat al-Nura, la formazione qaidista siriana, fra il leader di questa, Abū Muammad al-Ğawlānī, e al-Baġdādī, il futuro califfo di Mosul, che nell’aprile 2013 sancì la nascita dell’allora Stato Islamico di Iraq e Levante (Isis).

Non sappiamo se dietro queste due prese di posizione si celasse una battaglia per la leadership interna ad Aqap o se le divergenze fra i due fossero la prova di una ormai insanabile frattura all’interno dell’organizzazione, con una parte di essa che si avvicina all’Is. Sappiamo tuttavia che entrambi i leader, a distanza di qualche giorno (9 e 12 gennaio), rivendicano l’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo in nome di Aqap. Le cronache del mese successivo ci raccontano poi dell’uccisione di al-Naārī durante un attacco di droni americani 9 e della defezione di un gruppo di jihadisti di Aqap che dichiarano la propria adesione all’Is 10.


3. Anche per la Libia l’analisi della dinamica jihadista e dell’ascesa dello Stato Islamico non può prescindere da fattori locali. In quel paese il jihadismo ha una storia in gran parte «nazionale»: attecchisce dalla fine degli anni Ottanta e, in diversi casi, si diversifica dall’agenda globale di al-Qā‘ida (si veda ad esempio l’evolversi del principale gruppo jihadista libico degli anni Novanta, la Ğama‘a al-Islāmiyya al-Muqātila bi-Lībiyā, o Lifg) il cui principale obiettivo resta, fino alla disfatta di fine anni Novanta, tutto libico.

Gli anni Duemila, segnati da quel rovescio, avevano visto da una parte le «riabilitazioni» dei jihadisti in prigione, e le successive scarcerazioni da parte di Gheddafi, e dall’altra la diaspora (per lo più afghana) o il ritorno all’attività sotterranea di chi non era caduto nelle maglie della sicurezza del Colonnello. E se alcuni libici andarono a infoltire le file del nucleo centrale di al-Qā‘ida, arrivando anche a ricoprire ruoli importanti, altri defluirono in Iraq, dove nel 2007 costituivano il contingente straniero più folto all’interno dell’allora Stato Islamico di Iraq (Isi) 11. La «capitale» del jihadismo libico, ieri come come oggi, era Derna (il 60% dei combattenti libici nell’Isi proveniva da lì). L’altro importante polo, in questa particolare classifica, era Bengasi (con il 24%) 12.

Il momento di svolta in Libia arriva nel 2011: il dopo-Gheddafi vede il rimontare del jihadismo in diverse forme. I combattenti del Lifg liberati dalle prigioni libiche o i qaidisti di ritorno da altri teatri, fra cui quello iracheno, si distribuiscono tra diverse organizzazioni. Alcuni, dopo un esordio combattente, entrano a far parte del panorama politico (arrivano a presentarsi alle elezioni, perdendo), affiliandosi a cordate islamiste (ad esempio quella dei Fratelli musulmani) ma non qaidiste. Altri scelgono invece posizioni estreme, allineate alla nuova strategia di al-Qā‘ida: vediamo comparire Anār al-šarī‘a in due «versioni», quella di Bengasi e quella di Derna, nelle cui campagne già dal 2012 si segnalavano campi di addestramento jihadisti. Entrambi i leader dell’organizzazione, Muammad al-Zahāwī (morto lo scorso gennaio 13) e Abū Sufyān bin Qumū, fanno parte del gruppo di jihadisti liberati da Gheddafi (il secondo è un ex prigioniero di Guantánamo consegnato al Colonnello nel 2008 dagli americani) ed entrambi sono legati, in forma più o meno diretta, al nucleo centrale di al-Qā‘ida 14. In questi due gruppi confluiscono i combattenti più radicali.

Gli Anār al-šarī‘a entrano nel mirino statunitense dopo l’assalto al presidio diplomatico americano di Bengasi dell’11 settembre 2012. Restano tuttavia gruppi separati (sventolano bandiere diverse) i cui destini si legano alle vicende locali nelle quali sono coinvolti. A Derna, nell’aprile 2014, la formazione confluisce all’interno della Mağlis al-Šūrā Šabāb al-Islām, la Camera di consultazione della gioventù islamica. La nuova sigla raccoglie insieme diversi gruppi jihadisti della città, la quale, dopo qualche resa di conti interna 15 e in due passi successivi (giugno e ottobre 2014) finisce per divenire la «prima colonia» del nuovo Is al di fuori dei territori di Siria e Iraq 16. Derna, che durante i giorni della caduta della Ğamāhīriyya libica era stata indicata dalla facile propaganda gheddafiana come un «emirato islamico», diventa invece la capitale di una provincia (wilāya) del neocaliffato.

Dall’ottobre del 2014 a oggi l’Is è entrato a far parte del paesaggio politico-militare libico, producendo le proprie cellule dedite ad atti terroristici in diverse aree del paese. In questa espansione non ha alcun ruolo un vecchio jihadista come ‘Abd al-Hakīm al-aādī, leader del Lifg di Derna e indicato come «emiro» dai gheddafiani, che aveva raccontato di aver inviato combattenti in Iraq 17, il quale nel giugno 2012 dichiarava di credere nelle elezioni 18 ed era scampato a un attentato nell’aprile precedente 19. Piuttosto, possono aver avuto parte quei libici «di ritorno» 20 che abbiamo visto combattere in Siria prima e dopo la nascita dell’Isis. Il loro coinvolgimento nella vicenda libica si inserisce in un processo diverso, legato alla storia della rivoluzione siriana, da quello che portò i vecchi jihadisti a emigrare in Iraq a partire dal 2003.

In ottobre il Washington Post ne contava in tutto 556 21 e sappiamo che la loro affiliazione a diversi gruppi jihadisti, alcuni dei quali non sono legati ad al-Qā‘ida o all’Is, ricalca grosso modo appartenenze maturate in origine. Ancora nel settembre 2014 la posizione di un buon numero di jihadisti libici espatriati nei confronti dell’Is non era chiara: molti erano partiti dalla Libia per unirsi alla Ğabhat al-Nura, cioè alla sigla qaidista siriana o ad altre formazioni non qaidiste 22. Di certo un ruolo nella conquista dell’egemonia a Derna l’hanno avuto i circa 300 combattenti della Katībat al-Battār al-Lībī, che sotto le bandiere dell’Isis aveva combattuto 3nella Siria orientale, a Dayr al-Zawr e poi a Mosul 23.

In Libia, il cancro dello Stato Islamico si propaga in una cornice complessa, con alcuni punti di contatto con la situazione yemenita e con quella siriana: per farsi largo nella città di Derna, dove ha il suo quartier generale, ha combattuto contro altre formazioni jihadiste rivali e, presumibilmente, contro coloro che più hanno legami e contatti con al-Qā‘ida. Allo stesso tempo, ha caratteristiche sue proprie sia logistiche che organizzative, pur promuovendosi con strumenti di propaganda simili a quelli della «casa madre» (si veda il video delle decapitazioni di cittadini egiziani copti). L’Is agisce portando guerra e terrore in uno scenario specifico come quello libico, in cui l’intervento di attori esterni – da una parte Egitto ed Emirati col governo di Tobruk e dall’altra Turchia e Qatar con quello di Tripoli – si combina con una tendenza alla frammentazione, che spesso segue il tracciato delle identità tribali (tribù che qui come in Siria o in Iraq guardano spesso più ai loro interessi che alle bandiere) e che favorisce azioni come l’occupazione di Sirte.

Emblematica in questo senso è la notizia, apparsa il 19 febbraio 24, secondo la quale la brigata inviata a Sirte da Misurata per riprendere la città gheddafiana per eccellenza non attacca in attesa dei risultati dei negoziati fra Stato Islamico di Libia e leader tribali. Fatto che riporta alla mente una vecchia intervista di Fausto Biloslavo all’ex dittatore, il quale alla domanda se temesse o meno di finire come Saddam Hussein risponde: «No, no, la nostra guerra è contro al-Qā‘ida», ma se gli occidentali, prosegue, «si comportano con noi come hanno fatto in Iraq, la Libia uscirà dall’alleanza internazionale contro il terrorismo». «Ci alleiamo con al-Qā‘ida», conclude, «e dichiariamo la guerra santa» 25.

È in questo contesto – ritornando all’importanza del fattore «locale» – che dobbiamo inserire le ormai famosissime minacce su Roma. Come dimostra la pubblicistica, queste sono le ultime di una lunga e scomposta serie (con al-Rūm nel Corano si indica piuttosto l’impero bizantino) e potrebbero far pensare a un reale e immediato pericolo di grandi proporzioni, ma che ha più senso valutare nel quadro della situazione libica. Uno scenario in cui l’Italia si trova contemporaneamente nei panni dell’ex potenza coloniale e di uno dei maggiori attori nel gioco degli interessi economici legati all’approvvigionamento di gas e petrolio.


4. Diversi sono gli analisti che si sono cimentati nella mappatura dello Stato Islamico, prima e dopo la nascita del califfato. Ayman Ğawād al-Tamīmī, a pochi mesi dalla nascita dell’Isis 26, usava il termometro delle bay‘a, «i riconoscimenti come leader» ad Abū Bakr al-Baġdādī. Ne derivava una raccolta decisamente nutrita di testimonianze provenienti da Arabia Saudita, Somalia, Libano, Sinai, Ahwaz (Iran arabofono), Libia e Tunisia. Sappiamo che poi, con la proclamazione del califfato, seguirono altre adesioni: ad esempio Boko Haram e una frazione algerina di al-Qā‘ida nel Maghreb islamico (Aqmi), i Soldati del califfato in terra d’Algeria (Ğund al-oeilāfa ar al-Ğazā’ir).

Più tardi Aaron Y. Zelin, in un articolo scritto all’indomani del messaggio audio di al-Baġdādī su menzionato del novembre 2014 27, si soffermava invece sul «modello di adesione allo Stato Islamico», che prevedeva la dismissione di denominazioni precedenti, la fondazione di una provincia (wilāya) e la nomina di un governatore (wālī). Il «jihadologo» notava che, nonostante la pletora di adesioni, le uniche aree dove le nuove sigle potrebbero davvero attecchire sono in Libia e nel Sinai, dove le organizzazioni hanno la possibilità di innestarsi nelle tradizionali reti di «traffici, contrabbando e attività legate al mercato nero».

Le zone in cui sono state istallate le due province sono aree critiche dal punto di vista delle attività suddette. Il modello infatti, sebbene sia molto lontano da ciò che chiamiamo Stato, prevede una sostenibilità di tipo economico che può essere raggiunta solo sovrapponendo un organigramma e una struttura organizzativa leggera 28 a un’intensa e redditizia attività criminale. Cosa che, al momento, non appare possibile in paesi come Algeria, Arabia Saudita e Yemen. Infine, lo scorso febbraio Eric Schmitt e David D. Kirkpatrick sul New York Times si chiedevano cosa ci fosse di vero nell’idea che lo Stato Islamico si stesse espandendo in Medio Oriente 29. L’analisi portava alle conclusioni che le realtà sul territorio spesso non coincidono con quelle della propaganda, sebbene il fenomeno dell’adesione formale allo Stato Islamico sia in forte aumento 30.

La tanto temuta e millantata espansione territoriale dell’Is, dunque, è condizionata dalle particolari situazioni locali, in primo luogo dalla possibilità di produrre un budget grazie alle attività criminali. L’organizzazione raccoglie consensi «generici», attraverso i quali riesce a tenere in piedi la rete del reclutamento, o adesioni in contesti divisivi nei quali diverse fazioni, qaidiste o meno, si contendono un’area o un traffico. Ma trova una difficile espansione in aree dove è più radicato un jihadismo locale: lo vediamo paradossalmente anche in Siria dove ci sono qaidisti e altri jihadisti che combattono regolarmente contro l’Is 31, che non riesce a entrare in zone che pure dichiara di gestire (esempio: la situazione della wilāya di Aleppo 32).


5. Queste riflessioni ci riportano a prendere in considerazione nel dettaglio il luogo dove l’idea stessa di Stato Islamico è nata: la fascia sunnita dell’Iraq. Qui avviene la mutazione di al-Qā‘ida in Iraq (o meglio Tanīm Qā‘idat al-jihād Bilād al-Rāfidayn) in Isi (poi Isis nel 2013 e Is nel 2014), dopo la morte (7 giugno 2006) dello storico «dissidente» Abū Mus‘ab al-Zarqāwī e la fusione (ottobre 2006) con una federazione di gruppi jihadisti locali, la Mağlis Šura al-Muğāhidīn fi al-Iraq.

Lo scenario che troviamo nella fascia sunnita alla nascita dell’Isi è molto istruttivo per l’analisi dell’oggi e sviluppa riflessioni in più direzioni. Il primo elemento di differenza rispetto a tutte le altre esperienze qaidiste coeve è proprio la divisione del paese in tre settori: sommariamente il Sud sciita, il Nord curdo e il Centro sunnita. Al safe haven qaidista, un luogo di addestramento e di fuga impervio e di difficile accesso, lontano dai centri politici e economici di paesi comunque poveri e fragili, si sostituisce un territorio che invece è il rifugio degli orfani di Saddam Hussein, un’area dove ha covato per anni il risentimento per l’invasione americana e dove la repressione è più marcata. La zona più svantaggiata dal punto di vista della partecipazione alla ricostruzione e al fragile e contraddittorio processo di state building statunitense.

Come puntalizzava Alireza Doostdar nell’ottobre 2014 33: «In Iraq le città che ora sono controllate dall’Is sono state fra quelle che più hanno resistito al controllo americano durante l’occupazione e le più recalcitranti nei confronti della costituzione del nuovo Stato. La distruzione che queste città hanno subito», spiegava Doostdar, «ha avuto come unico risultato l’inasprimento delle posizioni dei suoi residenti. Falluja, la prima città caduta nelle mani dell’Is», continua, «è famosa per essere stata devastata dalle operazioni americane di controinsurrezione del 2004. E combatte tuttora con quell’eredità fatta di aumento di casi di tumore, mutazioni genetiche, difetti di nascita e disabilità attribuite all’uranio impoverito delle munizioni americane» 34. «A Mosul», conclude Doostdar, «molti di coloro che si sono uniti all’Is sono stati nelle carceri del governo iracheno. Sono nell’ordine delle migliaia e includono contestatori pacifici che si sono opposti al sempre più autoritario governo del primo ministro Nūrī al-Mālikī» 35.

In uno studio su al-Qā‘ida in Iraq del dicembre 2013 36, Michael Knights spiegava: «A partire dalla metà del 2010 l’Isi era “un morto che cammina”. L’organizzazione aveva subito battute di arresto critiche alla fine del 2006 e all’inizio del 2007 quando le milizie tribali arabo-sunnite – la awa (Risveglio) – si erano rivoltate contro al-Qā‘ida. In parallelo, alcune operazioni militari dirette dagli Stati Uniti avevano protetto la awa e portato a termine spietate e frenetiche operazioni di controterrorismo che avevano ridotto al-Qā‘ida in Iraq a brandelli.

Il gruppo dei volontari stranieri e il denaro iniziarono a scarseggiare. Le cellule di al-Qā‘ida subirono un processo di disintegrazione, producendo criminali locali dediti a rapimenti e estorsioni utili a pagare i salari degli affiliati più che a finanziare l’insurrezione. Pur dedicandosi diffusamente e con profitto ad attività illecite 37, nell’aprile 2010 al-Qā‘ida in Iraq aveva perso i suoi due più importanti leader, l’emiro AbūUmar al-Baġdādī e il ministro della guerra Abū Ayyūb al-Ma, e, secondo il comandante americano in Iraq, generale Ray Odierno, era in procinto di disintegrarsi. In una conferenza stampa del 4 giugno 2010, il generale statunitense notava come «negli ultimi novanta giorni abbiamo catturato o ucciso 34 dei 42 maggiori leader di al-Qā‘ida in Iraq». Tuttavia, come osservato da Jacob N. Shapiro e Danielle F. Jung 38, i leader dell’Isi seppero creare meccanismi gestionali durevoli che permisero all’organizzazione di sopravvivere alle pesanti perdite di affiliati, al turnover dei vertici e ai cambiamenti politici locali.

In un lavoro del 2007 sul ruolo (centrale) dei foreign fighters nell’Isi 39, Joseph Felter e Brian Fishman esaminavano la perdente «sfida strategica» dell’organizzazione, dovuta al «fondere le esigenze ideologiche della sua constituency globalizzata con gli interessi reali dei relativamente secolarizzati iracheni». In quegli anni nel paese «la maggior parte dei gruppi militanti non aveva questo problema strategico. Una vasta maggioranza dei militanti in Iraq», spiegavano Felter e Fishman, «non aveva nulla a che fare con al-Qā‘ida. Erano focalizzati sull’agenda irachena: sicurezza, distribuzione di potere e denaro, confessionalismo». «Questi combattenti», concludevano, «erano un miscuglio di nazionalisti sunniti, baatisti, milizie sciite e organizzazioni islamiste. Confondere uno di questi gruppi con al-Qā‘ida non è soltanto sbagliato ma anche pericoloso, anche se il fallimento politico dell’Isi non deve oscurare il fatto che l’Iraq ha portato migliaia di giovani di tutto il mondo a unirsi alla causa di al-Qā‘ida».

La sfida strategica però da perdente è diventata vincente. E il cambiamento avviene nell’estate del 2010, quando la leadership dell’Isi passa nelle mani di Abū Bakr al-Baġdādī, uno degli intraprendenti ex prigionieri del carcere americano di Camp Būkā (Iraq meridionale) 40. Nell’aprile dell’anno successivo assistiamo a un rilancio dell’organizzazione in base alle linee della «nuova strategia» del nucleo centrale di al-Qā‘ida, e la conseguente conquista di «un significativo spazio operativo all’interno delle comunità arabe sunnite». L’Isi «sembra aver razionalizzato i suoi obiettivi a breve termine e sincronizzato la propaganda con le crescenti preoccupazioni degli arabi sunniti iracheni» 41.

Il punto di svolta finale segue in parallelo la progressiva disintegrazione della Siria, a partire dall’inizio del 2012. Il paese, che per anni era stato la pressoché unica stazione di transito per i foreign fighters diretti in Iraq 42, diventa prima il «rifugio sicuro» – sotto l’ombrello della neonata Ğabhat al-Nura – dei jihadisti che operavano in Iraq, e poi la culla dell’Isis (aprile 2013). Questo si distacca da al-Qā‘ida e in breve conquista Raqqa, città abbandonata da al-Asad e appena restituita ai rivoluzionari siriani, facendone, senza incontrare resistenza se non nel contesto della società civile cittadina, il suo centro strategico-militare.

Fino all’offensiva che porta alla presa di Mosul (10 giugno 2014), la città di Raqqa, l’Anbār siriano, i territori della Siria attorno all’Eufrate e i corridoi che portano alle regioni frontaliere con la Turchia, costituiranno il punto di partenza strategico e militare, lo spazio dove sperimentare una propria forma di dominio e l’area di raccolta dei frutti della propaganda globale. Ma è nel teatro iracheno del 2006-7 che l’odierno Is matura il nuovo pensiero strategico (la fondazione di uno Stato) e anche una pratica politica volta a cercare appoggi in fazioni e gruppi «ideologicamente» molto lontani dal jihadismo. La sfida si trasforma dunque in vittoria grazie al «buco nero» della Siria, dove l’Isis trova terreno fertile e già «coltivato» da anni di guerra e distruzione per sviluppare ed espandere il suo expertise criminale. Nonostante questo, è ancora in Iraq che bisogna tornare se si vuole rispondere a uno degli interrogativi che il mondo ha di fronte: in che misura e in che forma il modello di Stato Islamico è esportabile?


6. Un punto sul quale tutti si trovano d’accordo nel considerare l’attività odierna dell’Is è il livello insostenibile di crudeltà e barbarie. Sul tema si sono interrogati in molti, ricorrendo ai più diversi strumenti di analisi. Ma la costatazione di un avvenuto balzo in avanti nella presentazione a scopi propagandistici di questo orrore non può portare frutti senza concentrare l’attenzione su quella che si può definire «l’esperienza irachena». Ancora Alireza Doostdar, nel chiedersi quali siano le basi ideologiche dell’Is sottolinea che, sebbene un buon numero di analisti si concentri sulle sue origini salafite o wahhabite, la barbarie dello Stato Islamico ha altri natali: «La brutalità dell’Is non è emersa dal nulla», sottolinea il ricercatore, «ma è parte di un intero sistema che ha iniziato a espandersi più di dieci anni fa». Tendiamo a dimenticare o a rimuovere che «la prima decapitazione videoregistrata di un cittadino americano in Iraq», spiega Doostdar, «fu condotta dai predecessori dell’Is nel 2004 in risposta, dicevano, alle fotografie e ai video di torture, stupri e assassini dei detenuti della prigione di Abū Ġurayb».

«Nel 2011 emerse che alcuni soldati americani in Afghanistan», continua Doostdar, «andavano a caccia di civili per sport e raccoglievano le loro dita e i loro denti come souvenir. Nel bagno di sangue confessionale che ha sommerso l’Iraq dopo l’invasione americana, le decapitazioni perpetrate dagli insorti sunniti diventarono una forma morbida di reciprocità nei confronti dei miliziani sciiti che praticavano fori nelle loro vittime usando trapani elettrici». «Il punto», conclude, «non è identificare il momento esatto in cui la crudeltà è emersa nel corso della lunga guerra globale a guida americana contro il terrorismo, ma che individuare una sola dottrina religiosa come estremista non ci aiuterà a capire questi cicli di brutalità, che si sono nutriti per anni di narrazioni e immagini di tortura, assassini e profanazioni».

Grazie a queste riflessioni, notiamo il convergere della visione strategica e della teoria del comando nell’Is. La gestione della barbarie, una pubblicazione diffusa a partire dal 2005 e tornata recentemente alla ribalta per i paralleli che individua nelle pratiche di dominio e nei video di propaganda dell’Is, non è l’ultima dimostrazione della «disumanità» di questi «diavoli» quanto un ulteriore indizio della consapevolezza che l’Is ha del sistema in cui fiorisce e della proprietà con la quale lo maneggia, anche in ottica promozionale. Il cuore del libro, come ricorda Steve Niva 43, non è il pensiero salafita o wahhabita che si ricongiunge a una tradizione islamica più o meno ricca, bensì una coerente catena di conosciuti studi sul controllo e il governo nel contesto di un’insurrezione armata. L’opera più citata è The War of the Flea di Robert Taber, un classico americano che certamente ha ben poco a che fare con l’islam.

È con un occhio ai «bisogni ideologici» dei foreign fighters e un altro alla «gestione della barbarie» che dobbiamo leggere la famosa oeuba di Abū Bakr al-Baġdādī dal minbar della moschea alNūri, la moschea congregazionale di Mosul (vedi documento nella pagina seguente).


7. Le cronache militari ci dicono che lo Stato Islamico arretra in alcune aree (come Aleppo o Kobani). Gli attacchi dal cielo, dicono gli osservatori, hanno reso difficili se non impossibili quelle ormai iconografiche avanzate trionfali di decine e decine di pick-up che, incolonnati, macinano chilometri di deserto senza incontrare ostacoli. Nel Nord curdo si ammassano armi e uomini in vista della riconquista di Mosul. Ma, comunque vada a finire, e non c’è ragione di credere che la città non venga tolta ai terroristi, il sistema della barbarie è destinato a permanere, mostrando un livello di crudeltà che altri teatri come Libia e Sinai non conoscono e che, forse non ancora a lungo, rende imperfetti e deboli i «cloni» nati negli ultimi mesi. Annientare l’impianto militare dello Stato Islamico senza sanare davvero e in tutti i suoi aspetti la grande ferita dell’Iraq porterà inevitabilmente l’Is a reincarnarsi in un nuovo e più sofisticato mostro.

1. www.sendspace.com/file/cmkaig

2. www.washingtonpost.com/world/middle_east/al-qaedas-yemen-branch-eyes-a-new-haven/2013/08/08/d0efa992-0041-11e3-8294-0ee5075b840d_story.html;www.aawsat.net/2014/08/article55335081/yemen-military-say-hadhramaut-controlled-by-al-qaeda, www.criticalthreats.org/yemen/knutsen-zimmerman-warning-Aqap-looming-threat-yemen-august-14-2014

3. foreignpolicy.com/2012/09/21/know-your-ansar-al-sharia/

4. www.longwarjournal.org/yemen-strikes.php

5. www.yementimes.com/en/1808/news/4216/Aqap-announces-support-for-ISIL.htm

6. www.bbc.com/news/world-middle-east-30041257

7. www.longwarjournal.org/archives/2014/11/al_qaeda_in_the_arab_1.php

8. www.longwarjournal.org/archives/2014/10/Aqap_leader_calls_on.php

9. www.bbc.com/news/world-middle-east-31147424

10. www.reuters.com/article/2015/02/11/us-yemen-security-qaeda-idUSKBN0LF0E720150211

11. www.stratfor.com/analysis/libya-jihadist-threat

12. library.uoregon.edu/ec/e-asia/reada/felter.pdf

13. www.nytimes.com/2015/01/25/world/africa/libyan-militant-group-says-its-leader-mohammed-alzahawi-was-killed.html

14. foreignpolicy.com/2012/09/21/know-your-ansar-al-sharia

15. www.libyaherald.com/2014/04/08/derna-islamist-leader-murdered

16. www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-first-colony-in-libya

17. www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-03-21/reportage-ribelli-islamici-tolleranti-231527.shtml

18. www.nytimes.com/2012/06/24/world/africa/libya-jihadis-offer-2-paths-democracy-or-militancy. html?src=recg& pagewanted=all& _r=0

19. www.uruknet.info/?p=m87084& fb=1

20. www.washingtonpost.com/world/foreign-fighters-flow-to-syria/2014/10/11/3d2549fa-5195-11e4-8c24-487e92bc997b_graphic.html

21. www.washingtonpost.com/world/foreign-fighters-flow-to-syria/2014/10/11/3d2549fa-5195-11e4-8c24-487e92bc997b_graphic.html

22. www.joshualandis.com/blog/bayah-baghdadi-foreign-support-islamic-state-part-2/

23. edition.cnn.com/2014/11/18/world/isis-libya/

24. www.libyaherald.com/2015/02/19/misratan-forces-await-results-of-negotiations-with-is-in-sirte/#axzz3SqAdXmKa

25. www.ilgiornale.it/news/lultima-intervista-ra-s-far-fine-saddam-no-perch-sono.html

26. jihadology.net/2013/08/22/musings-of-an-iraqi-brasenostril-on-jihad-bayah-to-baghdadi-foreignsupport-for-sheikh-abu-bakr-al-baghdadi-and-the-islamic-state-of-iraq-and-ash-sham

27. www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/the-islamic-states-archipelago-of-provinces

28. www.bostonglobe.com/ideas/2014/12/14/the-terrorist-bureaucracy-inside-files-islamic-stateiraq/ QtRMOARRYows0D18faA2FP/story.html

29. www.nytimes.com/2015/02/15/world/middleeast/islamic-state-sprouting-limbs-beyond-mideast. html?_r=2

30. Si veda per questo anche www.washingtonpost.com/blogs/monkey-cage/wp/2015/01/28/the-islamic-states-model

31. soufangroup.com/tsg-intelbrief-extremists-and-rebels-battle-for-northern-syria/

32. www.reuters.com/article/2015/02/09/us-mideast-crisis-syria-islamicstate-idUSKBN0LD1L920150209

33. divinity.uchicago.edu/sightings/how-not-understand-isis-alireza-doostdar

34. Si veda per questo www.jadaliyya.com/pages/index/13537/the-toxicity-of-everyday-survival-in-iraq

35. www.niqash.org/articles/?id=3458

36. www.washingtoninstitute.org/uploads/Documents/testimony/KnightsTestimony20131212.pdf

37. www.aawsat.net/2010/09/article55249436

38. www.bostonglobe.com/ideas/2014/12/14/the-terrorist-bureaucracy-inside-files-islamic-stateiraq/ QtRMOARRYows0D18faA2FP/story.html

39. library.uoregon.edu/ec/e-asia/reada/felter.pdf

40. www.theguardian.com/world/2014/dec/11/-sp-isis-the-inside-story

41. M. KNIGHTS, vedi nota 36.

42. J. FELTER, B. FISHMAN, vedi nota 39.

43. blogs.ssrc.org/tif/2015/02/20/the-isis-shock-doctrine

Articoli correlati

AUTOBIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DELCALIFFO’

Limes ha chiesto a un analista esperto del contesto in cui vive il sedicente califfo Abū Bakr al-Baġdādī di provare a mettersi nei suoi panni. Ripercorrendo passo per passo i percorsi che lo hanno elevato al rango attuale.

L’Iraq strappa Mosul Est allo Stato Islamico

La rassegna dal e sul Medio Oriente.
Oggi: l’esercito iracheno annuncia la presa di Mosul Est; Iran e Siria firmano cinque accordi economico-commerciali; uno dei principali gruppi dell’opposizione armata siriana non sarà presente ai negoziati di Astana.