April 11, 2015
di Alessia Drò – All’Università di Amburgo, in Germania,
più di un migliaio di persone tra attivisti, studenti, gruppi di
femministe e intellettuali provenienti da tutto il mondo, hanno partecipato in
questi giorni, dal 3 al 5 Aprile 2015, alla conferenza internazionale
“Challenging Capitalist Modernity II” per discutere delle
prospettive aperte dai movimenti di liberazione curdi e da altre realtà
in lotta.
Era il 3 Febbraio del 2012 quando
all’Università di Amburgo associazioni di
studenti curde e tedesche strettamente imparentate e connesse ai movimenti per
la libertà in Kurdistan decisero di realizzare la prima giornata di una
conferenza dal titolo “Challenging Capitalist Modernity. Alternative
Concepts and the Kurdish Quest”.
Organizzata dalla rete “Network for an
Alternative Quest”, la conferenza creò le condizioni perché
intellettuali, studenti e attivisti di differenti provenienze e ambienti
potessero dar luogo a un’analisi critica dei
sistemi capitalistici.
Quegli incontri, che conosciamo
grazie alla documentazione completa degli interventi (su http:// networkaq.net)
furono un successo.
La seconda conferenza “Challenging
Capitalist Modernity II” svoltasi quest’anno dal 3 al 5 Aprile, si
è data grazie alla grande organizzazione e
accoglienza che ha permesso un altissimo livello di scambio e confronto.
Ha influito il fatto che
a tre anni di distanza dal primo evento, il 26 Gennaio di questo stesso anno,
il cantone di Kobânê è stato liberato dall’Isis,
contro l’avanzata dei jihadisti in Siria.
A partire da questa data si sono riattivati canali di
solidarietà internazionali alla battaglia del Rojava con il sostegno di
delegazioni provenienti da tutto il mondo.
Ma la lotta per la libertà in Kurdistan, attiva
da più di trent’anni, non inizia e non finisce con la liberazione
della città di Kobânê.
Una conferenza di tale portata richiama a
riservare grande importanza e responsabilità rivolte al presente, al
passato e al futuro, nei confronti dei metodi di traduzione, spesso incastrati
in logiche eurocentriche e acontestuali, altre volte
catturati da confusa idealizzazione.
Una tra le traduzioni che più
difficilmente trovano luogo nella riflessione attuale e che parlano
dell’esigenza di nuovi campi d’interrogazione, è il
fondamentale ruolo del femminismo nella lotta di liberazione curda. Cosa si po’ imparare in occidente da questa esperienza?
In un’analisi storica e generale degli
apporti del movimento curdo, Reimar Heider, portavoce della Iniziativa
Internazionale “Freedom for Abdullah Öca¬lan – Peace in
Kurdistan”, ha raccontato come soprattutto a partire dagli anni ’90
la popo¬la¬zione curda abbia dato vita ad una nuova proposta e
pra¬tica poli¬tica che mette al centro, come primaria e prioritaria
nella liberazione nazionale, la liberazione delle donne. È lo stesso
Öca¬lan a scrivere che dalle relazioni di potere tra uomo e donna derivano tutte le forme di relazione capitalistiche che
alimentano schiavitù, dispotismo, fascismo e militarismo. (Liberare la vita.
Durante la conferenza del 2012 è stata
denunciata l’assenza di approfondimento di
specifiche interlocutrici sull’esperienza dei movimenti delle donne
curde: quest’anno nella seconda giornata della conferenza un’intera
sessione è stata dedicata ad interventi di attiviste e di intellettuali
direttamente implicate nei movimenti di liberazione in quei territori.
In simultanea traduzione sei lingue (turco,
tedesco, curdo, spagnolo, italiano, inglese), scandivano le giornate per
persone provenienti da diverse città della Germania,
dell’Inghilterra, della Danimarca, della Norvegia, e provenienti dal
Belgio, dal Kurdistan, dall’India, dall’Italia, dal Sud Africa,
dagli Stati Uniti, dalla Turchia, dall’Olanda, dai Paesi Baschi, dalla
Catalogna, infine poi dalla Svizzera, dall’Iraq e dalla Svezia.
I temi si sono sviluppati in modo comparativo
muovendosi tra la teoria e la pratica, con uno sguardo sia alle esperienze di
lotta reali, che all’analisi di nuovi concetti possibili, anche con
riferimento alle teorie del potere, (per esempio quelle elaborate da Gramsci e
da Foucault), in relazione ai principi del
confederalismo democratico promossi dal leader del PKK Abdullah Öcalan,
dal 1999 detenuto in isolamento nella pri¬gione di İmralı.
Modernità capitalista e
autonomia democratica
È rilevante notare che alla prima conferenza
del 2012 attraverso la lettura di un suo messaggio, Öca¬lan abbia
denunciato esplicitamente un fatto spesso omesso: «Se
all’apparenza, come è stato detto al
mondo intero, il mio arrivo a İmralı è dato da
un’operazione di successo dei Servizi Segreti Turchi, la mia permanenza
qui è in realtà stata resa possibile da un sistema elaborato
dalla modernità capitalista, guidato dagli Stati Uniti e dall’Unione
europea, più specificatamente, l’enorme operazione che mi ha
portato qui, è stata guidata da forze speciali e illegali della
Nato».
Nella prima sessione del 3 Aprile, è
stata rintracciata, oltre l’esistenza di un fondamentalismo religioso, un
più profondo fondamentalismo ideologico da parte delle potenze mondiali,
che agisce attraverso alleanze per il controllo
politico di aree geologiche di grande interesse e maggiore profitto per
l’estrazione di risorse petrolifere nel Medio Oriente.
Questo è il fondamentalismo che
permette, spiega il professore tedesco Elmar Alvater, «che attorno a
ciò che oggi chiamiamo Rojava ci siano oltre 9 milioni di curdi in
diaspora».
Le soluzione proposta, è chiaro da subito, deve necessariamente
essere a livello internazionale e partire da una prospettiva ecologica
precipuamente post-coloniale. E continua: «Il
sistema di estrazione di energie fossili si sta
esaurendo così come i confini del concetto di Stato-Nazione, che
sembrano troppo stretti per dare spazio a vite che sentono l’esigenza di
elaborare un’ecologia sociale configurata non solo con nuove forme
energetiche ma con nuove forme di relazione tra i generi, di comunanza, di
produzione, di consumo».
Il capitalismo non è infatti leggibile solo come un modello
economico, perché si sviluppa attraverso una cultura ideologica che fa
riferimento ad un modello politico statale basato su valori egemoni che
agiscono sull’ambiente e sui fondamenti antropologici dell’umano. Così,
l’attivista curdo Kenan Ayaz, nell’intervento “Capitalism-
Acumualtion of Value or Power?” spiega che non
bisogna avere un approccio riduzionista al capitalismo, come quello delle
prassi del socialismo reale basato sulle filosofie tedesche: «Noi, con
Öca¬lan, siamo tornati indietro di 5000 anni in un’indagine
storica, per capire quali valori fossero stati sotterrati dall’arrivo del
capitalismo, che non è eterno, che è nato e si è
sviluppato nel contesto specifico
dell’Europa».
Critica al valore e nuove misure
L’analisi del contesto capitalista è il
tema principale della prima giornata ma i modi di affrontarlo sono molto
differenti: David Harvey, nel suo intervento intitolato Nation-State. God on earth? riconosce come il
problema principale per un movimento anticapitalista sia «lo scambio dei
valori», ritenendolo centrale nell’idea dello spazio autonomo dei
comuni di Kobânê. Tuttavia ritiene allo
stesso tempo che «se per gli scambi non si mette in questione il ruolo
del valore del dollaro, non si è veramente autonomi».
David Harvey sembra soffermarsi, per capire,
«quale sia la natura del capitalismo», su una discussione che verte
specificatamente sull’analisi dell’economico inteso come
dispiegamento della forma valore monetaria in un approccio analitico marxista
che dia conto dei movimenti diretti delle banche alla sussunzione continua nel
sociale per parte dell’economico.
La sua relazione, conclusasi
nel delineare la contraddizione a suo avviso fondamentale per
Kobânê, cioè «quella tra valori e moneta»,
lascia spazio alla forte voce dell’attivista indiana Radha D’Souza.
Illustrando come non sia mai nominato il legame che
sussiste tra capitalismo e colonialismo, Radha D’Souza evidenzia la
necessità di mettere in luce su più livelli gli effetti di
dominio e potere, riportabili non solo sulla base del controllo monetario.
Il controllo operato dalla Legge e dalla
Scienza, imposte come forme uniche di conoscenza al servizio dei sistemi
neocolonialisti e capitalisti hanno avuto infatti
effetti precisi di dominio presenti tuttora in India.
Da una prospettiva postcoloniale, Souza
sembra proporre, lontana da un livello di analisi
basato su un approccio esclusivamente economicista in seno ad una macropolitica
globale, un approccio femminista e situato, ereditato dalla filosofia tamil:
«Dobbiamo iniziare a costruire in piccolo per vivere in grande, e questo
è il contrario dell’industrialismo che ci dice di costruire in
grande per rendere però sempre più piccole e insignificanti le
nostre vite. Parliamo a partire dai luoghi in cui
siamo».
Raccontando del metodo di
“Rigenerazione nella Resistenza”, Souza ha riportato l’esperienza
politica di alcuni villaggi indiani, che si sono
riappropriati delle tecniche di irrigazione per la difesa della
biodiversità e che producono oggi energia in modo autosufficiente, al di
là del monopolio statale indiano e lontani dalle tecniche distruttive
vincolate a processi di estrazione imposta.
Nell’esigenza di una critica serrata
all’uso del concetto di valore, la seconda giornata è rilevante
per l’intervento di David Graeber, che ha risignificato i termini di
produzione e riproduzione sottolineando che
«quando si parla di produzione, si parla sempre di produzione di cose,
come nel paradigma del lavoro industriale trionfante nel XIX secolo, mentre il
lavoro, produce persone, esseri umani» (si veda su questo punto il suo
libro “Toward an Anthropological Theory of Value”). Quando Graeber parla della produzione di persone, legge Marx
«da una prospettiva femminista, e mi riferisco per esempio alle
riflessioni di Mariarosa dalla Costa. Quando mi
riferisco al lavoro, riconosco che il lavorare è un simbolo che nella
pratica lascia essere ciò che simbolizza».
Nel parlare del valore, Graeber parla di
«una misura che non si può comparare con un’altra misura,
non si può cioè a sua volta misurare. I
marxisti a volte dimenticano di usare i termini degli economisti di un altro tempo». Graeber descrive efficacemente il
paradosso per cui oggi si arriva a considerare il
lavoro un valore in sé al di là del fatto che si sia sfruttati o
no, e invita a riflettere sulle linee di svalorizzazione, discorsive e
monetarie, quindi simboliche, che oggi per esempio si riversano su lavori che
potrebbero invece risultare “socialmente importanti”, come quello
dell’educazione: l’esigenza avvertita è allora di
riformulare le idee base sul valore a partire da un approccio femminista,
trasformando radicalmente il senso delle nostre vite e attività
quotidiane.
Ma cosa questo possa
significare, lo ha forse spiegato meglio, prima dell’intervento di David
Graeber, Saniye Varli, della cooperativa Bağlar in collegamento diretto da
Dyarbakir: il progetto di cui lei e altre donne fanno parte, nato nei suburbi
di Amed inizialmente come organizzazione contro la violenza sulle donne, si
sviluppa come un modello alternativo di economia, a livello ecologico e nelle
pratiche quotidiane. Cominciando da zero, la cooperativa ha creato una catena di autoproduzione e di distribuzione diretta di cibo e altre
necessità, in rete con i villaggi vicini, in un lavoro che «mette
in gioco la costruzione di una democrazia dal basso contro gli interessi
strategici e politici che qui si riversano».
«Per noi – spiega Saniye –
è importante pensare al valore di ogni cosa del
vivente, perché il capitalismo attacca la mentalità delle
persone, e dice che solo se pensi secondo i suoi valori puoi avere
successo». A partire dalla creazione di tessuti
sociali che legano comunità nate dal basso, senza profitto, con il
sostegno del comitato dell’economia del KJA, (il Congresso delle donne
libere curde nato nel 2003 dal lavoro dei comitati di quartiere e dalle
assemblee locali) le donne qui «vivono una vita libera». «Per
noi è importante praticare nella vita sociale, la condivisione. Forse
questo per voi non ha significato, ma per noi la condivisione è
importante perché si può praticare ovunque anche in mezzo alle
differenze e alle diversità».
L’augurio di Saniye è la
speranza di rivedersi presto nella ricostruzione di un Kurdistan libero.
Istanze femministe per il cambiamento
Un altro augurio, inaspettato, è stato mandato in diretta, in
collegamento video da Kobânê, anche da una comandante delle
unità di autodifesa delle donne, delle YPJ. «Le donne vivono in
libertà» è stato urlato da tutte le persone presenti:
«Jin Jiyan Azadî»; un coro improvviso nell’auditorio
gremito è risuonato continuo come l’espressione di
un desiderio condiviso e rafforzato dalle parole sentite dalla diretta:
«Gli argomenti che oggi state discutendo sono
fondamentali per dare vita nuova a tutti i popoli del Medio Oriente e del
mondo. Il sistema basato su un’ideologia che monopolizza, rende
necessario organizzarsi in quanto persone umane e queste cose spero siano trattate in questa conferenza. Voglio
ringraziarvi dai territori che hanno condotto questa resistenza».
Dalla comandante delle YPJ, arriva chiara
l’importanza delle istanze femministe nel
processo di cambio sociale. Tra le attiviste chiamate a parlare dopo di lei,
Fidan Yildirim, sin dagli anni ‘80 parte del movimento
di liberazione delle donne in Kurdistan, ha ricordato l’importanza
dell’educazione, dell’autorganizzazione e dell’autodifesa.
In particolare quest’ultima parola non
può essere compresa se non la si colloca nel
contesto, di guerra, in cui viene elaborata, e se la si racchiude, in modo
incongruo, in un senso militare statalista o nel senso guevarista del foquismo.
L’autodifesa, non ha niente a che
vedere con qualsiasi forma di potere e di monopolio della violenza: «ogni
comune e assemblea provvede a farla funzionare,
sapendo che la libertà della donna è al centro della
società intera».
Sara Aktaş, imprigionata undici anni per
essersi unita al movimento di liberazione curda e dopo la scarcerazione, altri
cinque anni per aver fatto parte al DOKH (Democratic Free Women’s
Movement), ha riflettuto su come «la liberazione della donna secondo il
socialismo non sia centrale tanto quanto la lotta di classe» e su come le
YPJ, nate nel 2004 e riconosciute ufficialmente nel 2011, siano
un’esperienza radicalmente differente, perché nata da una critica
allo Stato e ai modelli di socialismo reale che hanno fornito esempi chiari di oppressione per le donne.
Ciò che stupisce è che
l’esperienza delle YPJ non è vista in termini trionfalistici ma
riconosciuta nella sue forme di sperimentazione:
l’autodifesa, che va sempre di pari passo con l’autoformazione e
l’apprendimento continuo, non è rappresentata da Sara Aktaş
solo come una forma di liberazione anticoloniale, ma come una forza che a
partire dalla conoscenza delle contraddizioni e delle difficoltà, agisce
in termini di consapevolezza e contemporaneamente nella ricostruzione delle
relazioni e della società intera. Il concetto di autodifesa,
sembra generare una’esperienza di forza che ha efficacia nel proprio
agire e che a partire dai corpi incarnati si esplica come una risignificazione
continua delle norme sociali dominanti, che non può essere leggibile
solo nei termini “di una questione femminile”.
Gli scritti di Öcalan vengono
letti così considerando «lo sfruttamento sessuale ad un livello
sociale e politico più profondo, connesso al sistema statale e ad un
positivistico riduzionismo biologico, e, le forme patriarcali, impediscono la
liberazione degli uomini tanto quanto quella delle donne e della società
intera: lo sfruttamento di genere va messo in relazione con gli altri tipi di
sfruttamento».
Traduzione e trasformazione
La libertà femminile qui non si può intendere sotto la forma di
una libertà singolare o individuale ma prevede il cambiamento
dell’intero sistema in cui viviamo.
L’istituzione della jinologia, come
forma altra di sapere, nasce dall’esigenza, per usare le parole di Dilar
Dirik, che su questo tema sta scrivendo una tesi di
dottorato, di elaborare «una sociologia della libertà, in cui la
produzione di saperi per parte di donne si pone come modello critico allo
scientismo imperante nelle scienze umane, anche con una rilettura e riscrittura
continua della storia contro la conoscenza del già dato come perpetrato
dallo status quo».
La liberazione qui non è un obiettivo,
ma un metodo, una pratica continua.
Lo specifico del movimento delle donne curde, nella lotta contro lo stato
colonialista, segue richiami precisi a percorsi suggeriti e tracciati altrove
dal femminismo anarchico e postcoloniale.
La posta in gioco è ben delineata nell’intervento intitolato Relazioni di
potere: Stato e Famiglia di Nazan Ustündağ, docente di sociologia ad
Istanbul e parte del Women for Peace and Academics for peace.
Le strategie di lotta in Kurdistan «stanno concretamente cambiando le
relazioni di genere all’interno della famiglia». Assunta da subito
come un micro-stato del dominio maschile e dello sfruttamento del lavoro
femminile e come il fulcro di normalizzazione dell’oppressione nella
società, Nazan Ustündağ invita a riflettere
sull’importanza delle pratiche di educazione
alternative portate, oltre la famiglia, dalle donne curde, mentre, sottolinea,
«Erdogan sviluppa scuole private per il controllo delle condotte,
richiamando le madri ad esser buone educatrici per i propri figli».
Pratiche ancora da sperimentare, spiega
Ustündağ, ma che sono attivate attraverso reti di amicizie
e forme di relazionalità alternative, che prendono piede nelle
istituzioni autorganizzate delle Case delle donne, nei partiti politici,
sfidando i ruoli tradizionali di genere con altre forme di intimità
oltre la famiglia nucleare tradizionalmente intesa.
La domanda: “cosa
possono imparare le femministe occidentali dall’esperienza delle donne
curde?”, posta all’inizio, troverà probabilmente più
di una risposta se ci saranno momenti riflessione collettivi che implichino
degli spostamenti, in un apprendimento continuo, in spazi di traduzione oltre
procedimenti binari.
L’esperienza della conferenza
all’Università di Amburgo, fuori da un
qualsiasi tipo di accademicismo asfittico, si è posta, nella
consapevolezza di abitare in un mondo abitato da più mondi, come uno
spazio aperto di socialità e condivisione, stimolando la creazione di
nuove alleanze e l’espansione di reti politiche già esistenti,
incoraggiando l’incontro diretto nell’ambito di una solidarietà
piena e autodeterminata.
Nel momento in cui il neoliberismo occulta
sempre di più la dimensione necessaria della relazione, della interdipendenza della cooperazione, mette in questione
la libertà delle nostre vite.
Altre pratiche sembrano interrogarci richiamandoci ad elaborare collettivamente
nuove soluzioni per riformulare il nodo centrale del legame sociale. «In
Rojava stiamo cercando di rinnovare quello che per noi vuol dire
società. Venite a vedere quello che stiamo facendo, ad imparare e a
scambiare le vostre conoscenze», è l’esortazione di una
delle attiviste curde, durante la conferenza.
Nuovi paradigmi e nuove visioni emergenti
dalle lotte in Medio Oriente, possono permetterci di decostruire le nostre
categorie, in vista di una riappropriazione degli assi di valorizzazione delle
nostre attività a partire da un processo
relazionale e creativo. Fuori dall’apparato
amministrativo della messa a tutela e quello gestionale del rischio, potremmo
iniziare a chiederci: perchè stanno lottando oggi le donne in Rojava?
Bibliografia
AA.VV. Kurdistan, Rojava. Viaggio nella rivoluzione delle
donne, I quaderni di radio onda rossa 2015.
AA.VV. Challenging Capitalist
Modernity. Alternative Concepts and the
Kurdish Quest, International Initiative Edition 2012.
Abdullah Ocalan, Liberare la vita.
Abdullah Ocalan, Confederalismo democratico, Edizioni Iniziativa Internazionale
2013.
Sara Sakine Cansiz, Tutta la mia vita è stata una lotta, Vol. I,
Uiki-Onlus 2015.
Janet Biehl (a cura di), The Murray Bookchin Reader, Black Rose Books,
Montréal 1999.
© 2013 UiKi ONLUS Team