April 21, 2015
«Alle
donne afgane di Rawa, alle donne della resistenza iraniana, a quelle del Rojava
dobbiamo guardare. Noi non abbiamo fatto che applicare un modello escludente,
così maschile, e guarda il risultato: ci troviamo nel ventunesimo secolo
sempre più emarginate e sulla difensiva». «Abbiamo comunque
tracciato un cammino nella storia
Noi che
negli anni ’70 abbiamo fatto parte
Ci
muoviamo in formazione con le donne di Kobane, quelle rientrate dai campi
profughi di Urfa, in Turchia, e quelle che la città non l’hanno
mai abbandonata, lungo le strade polverose della parte ovest scandendo lo
slogan simbolo di questo 8 marzo “Jin, Jiyan, Azadi”, Donna, vita,
libertà. In mano sventolano bandiere tagliate a triangolo gialle e verdi
sulle quali hanno ricamato le lettere “YPG” e “YPJ”.
Siamo
dirette alla base dell’Unità di protezione delle donne per rendere
loro omaggio e ringraziarle del coraggio e determinazione mai venuti meno contro
le milizie del Daesh (Isis). In realtà, in programma avevamo la visita
al fronte orientale, circa 100 chilometri da Kobane dove i combattimenti si
sono spostati. Ma la mattina stessa era stata annullata. «Gli scontri
sono pesantissimi» ci aveva spiegato Siam, la rappresentante del governo
del cantone «solo ieri sono rientrati i corpi di cinque combattenti,
quattro ragazzi e una ragazza, uccisi due giorni fa. Troppo
pericoloso».Mi tengo in fondo accanto a Shavin, capo settore
comunicazione, una giovane di 28 anni che mi traduce pazientemente in un
inglese un po’ stentato quanto viene detto dalle partecipanti. Le donne
sono vestite in abiti tradizionali arabi o curdi, alcune indossano pantaloni,
camicia e giacca, altre ancora una sorta di divisa militare. Arriviamo al
centro delle YPJ e veniamo accolte da una compagnia di combattenti
sull’attenti.
Alzo il
viso dal taccuino su cui per tutta la strada ho preso appunti. Una ad una
passiamo di fronte alle YPJ stringendo loro la mano. L’emozione è
molto forte, quella che mi sale alla gola e me la chiude riesco a malapena a
nasconderla. Sono giovanissime, avranno tra i 15 e i 19 anni. Volti dolcissimi
in cui brillano occhi d’acciaio. Accanto alla gamba in posizione di
riposo tengono il kalashnikov. Tra loro scorgo la ragazza con cui solo due
notti prima avevo passato il confine turco-siriano clandestinamente. Non riesco
a trattenermi e l’abbraccio forte, spinta da un innato istinto materno a
proteggere.
Una delle
donne più anziane inizia a parlare a voce alta guardandole. «Sta
ricordando che Kobane è libera perché tutte loro non si sono
arrese di fronte al nemico. E le ringrazia per la lotta che continuano a
portare avanti in difesa del Rojava» mi traduce Shavin. Le risponde la
comandante della compagnia: «Ricordiamo oggi le martiri Arin, Destina,
Zozan, Hebun e tutte le altre il cui sacrificio giorno dopo giorno ci infonde
il coraggio a proseguire sul cammino da loro tracciato. E non dimentichiamo Apo
(Ocalan, nda), padre del confederalismo democratico e ispiratore delle
formazioni combattenti YPG e YPJ. La vittoria è nostra».
Applausi e
grida di approvazione tra le donne in visita. Mi ferma una giovane reporter con
teleoperatrice al seguito e mi chiede una breve intervista. Si presenta quale
inviata della rete televisiva locale Ronahi TV. I loro uffici si trovano al
Media Centre, un tempo sede dell’amministrazione siriana, a poche
centinaia di metri di distanza.
Quando
entra nella sala riunioni del Media Centre dove la stiamo aspettando, il suo
sorriso aperto e sicuro illumina tutto. Alta, i capelli scuri tirati indietro a
scoprire un volto stanco ma bello Xezne Nebi, direttrice di Ronahi TV ha un
carisma naturale reso più spiccato dall’esperienza unica che si
è trovata a vivere: rimasta intrappolata nella città insieme ad
alcuni suoi colleghi dopo l’attacco improvviso lanciato dal Daesh, ha
portato avanti l’ardua sfida di far conoscere al mondo quanto accadeva a
Kobane.
La guardo
parlare a scatti mentre ci racconta di quei giorni e di quelle notti
interminabili. «Tutto era difficilissimo. L’attacco militare
violento ci ha colti assolutamente impreparati. Ci siamo trovati a improvvisare
ed era complicatissimo. Privi di elettricità anche ricaricare computer e
batterie era un’impresa. Ma dopo i primi momenti di totale sbandamento
abbiamo capito che non avevamo scelta e dovevamo rischiare perché
raccontare i crimini che i miliziani dell’Isis stavano commettendo a
Kobane era un nostro preciso dovere, non solo come giornalisti ma come
cittadini».
Parla,
muovendo le mani dalle dita lunghissime nell’aria, di come corressero per
le strade bombardate rischiando ogni attimo di trovarsi tra il fuoco incrociato
dei combattimenti, per scovare un punto qualsiasi da cui trasmettere.
Attraversando nella notte quartiere dopo quartiere la città seguendo i
combattenti di YPG e YPJ, assistevano alla loro morte o a quella di molti
abitanti inermi: in un’unica notte in 163 vennero uccisi dal Daesh. La
liberazione di Kobane richiedeva un impegno e una determinazione costante e
incrollabile. «Per la prima volta la guerra era reale, non scorreva sugli
schermi televisivi. Con essa la morte aveva fatto irruzione nella vita di tutti
noi. Dovevo lottare ogni attimo di ogni singolo giorno contro il terrore, ma
prendevo il coraggio e la forza dalla resistenza incredibile dei nostri
combattenti: non avevo il diritto di aver paura. Anche io con il mio lavoro
stavo contribuendo alla liberazione della mia terra».
Da non
più di due anni Xezne è giornalista, ma in questi mesi si
è caricata la responsabilità di un intero studio televisivo come
una vera reporter di guerra. Con i suoi colleghi ha ripreso le immagini degli
scontri, le ha montate sfruttando gli esigui mezzi a disposizione e le ha
inviate al mondo. «Non eravamo giornalisti professionisti, lo siamo diventati
sul campo come i combattenti di YPG e YPJ hanno dovuto crescere militarmente
imparando quali fossero le tattiche di una guerriglia urbana mentre
c’erano dentro. Una volta il Media Centre venne colpito dai
bombardamenti. Sono rimasta leggermente ferita, i miei colleghi fortunatamente
indenni, ma non vi nascondo che la mia prima preoccupazione fu lo stato di
salute delle telecamere e dei computer. L’unico mio pensiero in quei
giorni era poter realizzare al meglio l’informazione».
Sono
incuriosita su quale sia stata la reazione dei tanti reporter arrivati qui a
Kobane in questi ultimi mesi, di fronte al racconto della sua esperienza.
Sorride quando glielo chiedo e scuote la testa. «Veramente non ne ho
incontrato nessuno finora. Comunque, avrei bisogno di cinque anni per scrivere
quanto vissuto in questi mesi. Non avevo l’esperienza del giornalista
navigato, me la sono costruita in mezzo alla battaglia, alla distruzione, alla
morte. Lo dovevo ai tanti caduti tra i combattenti soprattutto alle ragazze che
non avevano esitato a prendere le armi e affrontare un nemico oscuro e
terrificante. Lo dovevo alla mia terra, a Kobane per quello che è e
rappresenta nella storia della regione. Il giornalismo non è
sensazionalismo, è raccontare innanzitutto i fatti. Nel Rojava è
in atto una rivoluzione sociale, politica, economica che va testimoniata, resa
all’opinione pubblica con rispetto. La verità è
l’unica scelta che abbiamo».
Ci
alziamo, deve partecipare ad una riunione ed è in ritardo. Ride di gusto
quando al momento dei saluti le chiediamo un parere sull’uso che gli
organi d’informazione internazionali fanno delle immagini che ritraggono
le giovani componenti di YPJ. «Riflette la funzione del capitalismo
neoliberista. Mostrare in prima pagina, quasi in vetrina le fotografie delle
graziose combattenti curde rientra nel sistema di mercificazione. Ma la
verità è un’altra, quella che noi non ci stancheremo mai di
riportare: al di là delle loro belle facce quelle donne hanno il
coraggio e la capacità di realizzare qualsiasi cosa. Il capitalismo
mostra l’involucro e non l’anima delle persone. Non solo qui nel
Rojava ma in tutto il mondo è doveroso rivelare la vera natura delle
donne di cui proprio queste ragazze di YPJ sono divenute il simbolo».
di
Patrizia Fiocchetti – LASPRO
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