April 26, 2015
Dal Newroz
di
22 marzo
ore 6:00 – Partiamo da Diyarbakir in direzione di Suruc, vicino al
confine siriano a due passi e un filo spinato da Kobane. Qui l’esercito
partigiano curdo, l’Ypg e Ypj, ha difeso la città e inferto in
gennaio la prima grande sconfitta all’Isis. Una sconfitta che va ben
oltre il piano militare perchè nel Rojava – l’area della
Siria settentrionale abitata prevalentemente dai curdi – non si difende
solo una città, ma un’idea di società fondata sulla
parità di genere, il confederalismo democratico teorizzato dal leader
curdo Abdullah Ocalan, rinchiuso nell’isola-prigione di Imrali e
condannato all’ergastolo per attività separatista armata.
“In
Rojava abbiamo creato 3 cantoni autonomi, non solo per curdi ma con tutti i
popoli presenti (arabi, assiri, esidi); la nostra idea è una regione
democratica. Tutte le etnie devono convivere e avere rappresentanza nelle
amministrazioni dei cantoni” – ci spiega Asi Abdullah, co-presidente
PYD, il partito che governa il Rojava, a
“Isis
ha una strategia larga: vuole distruggere tutta la ricchezza della zona, ci
sono gruppi etnici che hanno una storia e
Nel
Kurdistan Rojava per quanto riguarda i diritti delle donne c’è un
avanzamento grande. Come donne abbiamo creato un sistema nuovo, siamo in prima
linea per una donna libera. Siamo un punto di riferimento per la storia.Per
esempio in ogni quartiere oltre alla Casa del Popolo c’è
La lotta del Rojava è una lotta per la liberazione delle donne.”
Nell’ottica
di un movimento fondamentalista è comprensibile come mai l’Isis si
sia così accanito su Kobane, attaccando con armi pesanti i quartieri dei
curdi con l’intento di raderli al suolo. Nell’ottica di un
movimento di liberazione unito da una forte componente identitaria, è
altrettanto comprensibile perché siano accorsi per unirsi alla lotta
civili da tutto il Kurdistan, curdi da tutto il mondo e “brigate
internazionali”, arrivati a rischiare la vita per difendere un’idea
di mondo basata su democrazia, parità di genere, mutualismo, autonomia,
sulla convivenza pacifica tra diverse etnie e sul rifiuto del concetto di stato
nazione.
Una visione inedita in un’area come il Medio Oriente dove la coesione
sociale è sempre stata garantita dalla sopraffazione di un gruppo di
potere rispetto ad altri, nella prosecuzione di una logica coloniale di
sfruttamento di territori e risorse.
22 marzo
ore 11:00 – A Suruc c’è ancora clima di festa per il recente
Newroz, il capodanno curdo. Dalle macchine sventolano bandiere del Kurdistan e
dello YPG. Un ragazzino ci accoglie con una bandiera di Ocalan grande quanto
lui. Nascondersi dietro la sua icona, qui, significa affermare la propria
identità. Andiamo alla municipalità per un incontro con Mustafa
Dogal, diplomatico del Congresso Democratico, qui da sei mesi per gestire la
crisi di Kobane. Nel pomeriggio proveremo ad entrare a Kobane.
“Abbiamo
accolto complessivamente in tutto centoventiseimila rifugiati dalla Siria, in
pratica raddoppiando la popolazione dell’area. In particolare qui a Suruc
ci sono sei campi profughi per la popolazione del cantone di Kobane. Uno
gestito dallo stato turco turco tramite l’Afad (protezione civile turca),
cinque dai compagni curdi. Con la differenza che nei i campi gestiti totalmente
dall’autonomia curda i rifugiati sono liberi di muoversi , mentre quello
dell’Afad è gestito militarmente, quindi per uscire serve
l’autorizzazione. Inoltre al contrario degli altri è stato
costruito dopo la liberazione di Kobane. Ma a quel punto i rifugiati non
volevano andare in un campo profughi, volevano tornare a Kobane!”
In quei
campi ci siamo stati e la riconoscenza verso i curdi turchi e il PKK è
grande. Per gli sfollati questa solidarietà fraterna ha rappresentato un
bagliore nel buio dell’occupazione dell’Isis.
Prosegue
Mustafa Dogal: “Dal 1945 ad oggi i quattro paesi in cui viviamo (Turchia,
Siria, Iraq, Iran) sono membri delle nazioni unite, ma tutti hanno fatto un
embargo contro il popolo curdo e contro chiunque venga ad aiutare i curdi.
Per 70 anni l’unità curda non è stata possibile proprio per
colpa dei confini e dei regimi totalitari degli stati nazione. Ci hanno diviso
in maniera forte, con la volontà di non farci tornare insieme.
Ad esempio ora per noi l’aiuto dei Peshmerga iracheni è
importante, anche se poco, perchè aiuta l’unità curda.
È un inizio. I curdi uniti sono forti, divisi no, e non solo i curdi,
ringraziamo anche i fratelli occidentali come voi. Perchè la
civiltà è partita da qui tra il Tigri e l’Eufrate, la gente
europea e americana ha le sue radici qui e voi dovreste avere a cuore le vostre
radici.
Noi combattiamo per la democrazia in tutto il mondo.
Se l’area controllata dai curdi sarà sicura tutto il mondo
sarà sicuro.
Se ci aiuterete a difendere quest’area i fondamentalisti non potranno
più svilupparsi e la democrazia potrà durare nel tempo. Il popolo
curdo è l’assicurazione dell’intero mondo.”
Dogal si
dilunga sul rapporto con la comunità internazionale: “PKK non
è terrorista e le Nazioni Unite devono capirlo. Specialmente dopo Kobane
e Shengal (il genocidio degli Ezidi perpetrato dall’ISIS, in cui il PKK
ha salvato migliaia di persone facendole rifugiare in Turchia), l’intero
mondo ha capito la lezione. Tardi, ma ormai si è capito chi è terrorista
e chi no. Il popolo curdo nella storia non ha mai voluto conquistare un nuovo
territorio, l’unica cosa che vuole è vivere sulla sua terra con
dignità e onore. Come gli altri popoli, non di più e non di
meno.”
Parla con
tranquillità e senza troppo trasporto Mustafa Dogal. Molti curdi sono
così, occhi intensi, in cui si può percepire il dramma delle
ingiustizie passate, ma anche l’orgoglio e la speranza che traspaiono dai
loro racconti.
Vogliamo
portare la nostra solidarietà a Kobane e ci dirigiamo verso il confine.
Il nostro compito è raccogliere informazioni sulle condizioni della
città e degli abitanti per poter organizzare gli aiuti. “La
ricostruzione di Kobane è la nostra priorità” ci aveva
detto Asia Abdullah. Sappiamo che la frontiera è stata militarizzata
dall’esercito turco ma che motivo ci sarebbe di respingerci, la battaglia
è finita da più di due mesi.
Arrivati
al confine vediamo sventolare all’orizzonta la bandiera del YPG,
illuminata da un raggio di sole.
Ci
chiedono i passaporti, siamo 60, tutti italiani, vogliamo stare in Rojava solo
per qualche ora. Il nostro accompagnatore parla in turco con il militare,
sorride verso di noi dicendo che “dai, forse passiamo”. Il militare
telefona in prefettura. Niente da fare. Un gruppo di osservatori internazionali
munito di sole macchine fotografiche è comunque troppo scomodo. La
militarizzazione delle frontiere con
Di
nascosto fotografiamo automobili abbandonate a pochi metri dal confine. Gli
abitanti di questo piccolo villaggio vicino Mesher ci spiegano che da Kobane le
persone sono scappate in poche decine di minuti, buttando tutto quello che
potevano in macchina dirigendosi verso la frontiera turca e, una volta giunti a
destinazione, abbiano poi abbandonato auto e bagagli sperando forse di
recuperarle in seguito. Ma i militari turchi non permettono che i civili vadano
a prendere le loro cose, che diventano così bottino di guerra dei
militanti dell’Isis. Lo spettacolo è desolante, ricorda le
immagini di Pripyat, la città abbandonata dopo l’esplosione di
Cernobyl, con la differenza che in questo caso l’abbandono non è
conseguenza di un incidente catastrofico ma della barbarie dell’uomo.
22 marzo
ore 17:00 – Torniamo verso Diyarbakir. Nel cuore rimane lo sconforto per
il grande senso di ingiustizia che si respira in queste terre, dove la
prepotenza incivile ha la meglio sulla voglia di libertà di un popolo
millenario.
Risuonano però nella testa le parole di speranza di Dogal, perchè
la giustizia alla fine deve trionfare, un futuro di libertà e pace
è là dietro l’orizzonte, proprio come quella bandiera che
sventola illuminata da un raggio di sole.
“Tutto quello che vogliamo è la democrazia per l’intero
mondo e per la donna. Solo per questo c’è stata la lotta armata
del PKK. E’ chi schiaccia la nostra identità che dovrebbe essere
portato di fronte alla Corte Internazionale. Dersim, Roboski, cos’hanno
fatto in quei posti? È nei nostri e nei vostri occhi. Affermare il
contrario non cambia la realtà.Se guardate la storia chiamarono
terrorista anche Nelson Mandela, e poi?
di
Federico Maccagni e Pierpaolo Tassi
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