May 15, 2015
REPORTAGE
– Viaggio da Diyarbakir, città della Turchia definita la
“capitale del Kurdistan turco”, al confine con
Dal Newroz
di
Il
Newroz di Diyarbakir
Per 40 lire turche, un anziano signore in tuta seduto ai comandi di una gru, ci
invita a salire. Il montacarichi è traballante, ma non c’è
spazio per pensare alla sicurezza. A
Asia Abdullah, co-presidente PYD, il partito che governa il Rojava:
“La nostra idea è una regione democratica. Tutte le etnie devono
convivere e avere rappresentanza nelle amministrazioni dei cantoni”
Il Rojava
è un laboratorio in cui si sperimenta una nuova società fondata
sulla parità di genere e la convivenza pacifica tra diverse etnie
– ci spiega Asi Abdullah, co-presidente PYD, il partito che governa il
Rojava. “Abbiamo creato 3 cantoni autonomi, non solo per curdi ma per
tutti i popoli presenti (arabi, assiri, esidi, ndr); la nostra idea è
una regione democratica. Tutte le etnie devono convivere e avere rappresentanza
nelle amministrazioni dei cantoni”. Un’idea che assomiglia tanto a
quel confederalismo democratico teorizzato a più riprese dal leader
curdo Abdullah Ocalan, rinchiuso dal 1999 nell’isola-prigione turca di
Imrali, dove sconta l’ergastolo per attività separatista armata.
Un’idea
che Isis vede come una guerra aperta al fondamentalismo islamico e pertanto,
una minaccia da estirpare. “Anche donne di altre etnie lottano con
noi” – continua Asi Abdullah. Perchè Isis per le donne
è un grandissimo pericolo, vogliono cancellarne la storia, la cultura, e
quando le uccidono infieriscono su cadaveri. Sono il loro principale nemico e
il fatto che la donna del Rojava sia così emancipata per loro è
un fatto molto grave. Nel Kurdistan Rojava per quanto riguarda i diritti delle
donne c’è un avanzamento grande. Come donne abbiamo creato un
sistema nuovo, siamo in prima linea per una donna libera. Siamo un punto di
riferimento per la storia. Per esempio in ogni quartiere oltre alla Casa del
Popolo c’è
“In
ogni quartiere c’è
I
campi profughi di Suruc
Terra di frontiera per lo stato turco, terra di passaggio per il popolo curdo.
A Suruc c’è ancora clima di festa per il recente Newroz. Un
ragazzino ci accoglie con una bandiera di Ocalan grande quanto lui. Nascondersi
dietro la sua icona, qui, significa affermare la propria identità.
Andiamo alla municipalità per un incontro con Mustafa Dogal, diplomatico
del Congresso Democratico, da sei mesi in città per gestire la crisi
degli sfollati da Kobane. “Abbiamo accolto complessivamente in tutto
126mila rifugiati dalla Siria, in pratica raddoppiando la popolazione
dell’area – spiega Dogal – qui a Suruc ci sono sei campi
profughi per la popolazione del cantone di Kobane. Uno gestito dallo stato
turco tramite l’Afad (protezione civile turca), cinque dai compagni
curdi. Con la differenza che nei i campi gestiti totalmente
dall’autonomia curda i rifugiati sono liberi di muoversi , mentre quello
dell’Afad è gestito militarmente, quindi per uscire serve
l’autorizzazione. Inoltre al contrario degli altri è stato
costruito dopo la liberazione di Kobane. Ma a quel punto i rifugiati non
volevano più andare in un campo profughi, volevano tornare a
Kobane.”
I turchi
presidiano il confine con militari armati di mitra. La questione dei curdi
siriani è per loro l’estensione di una minaccia interna. Se si
rafforza il Rojava, si rafforzano tutti i curdi e non è tollerabile.
“Dal 1945 ad oggi i quattro paesi in cui viviamo (Turchia, Siria, Iraq,
Iran) sono membri delle Nazioni Unite, ma tutti hanno fatto un embargo contro
il popolo curdo e contro chiunque venga ad aiutare i curdi”, prosegue
Dogal appellandosi alla comunità internazionale e rimarcando il ruolo
del popolo curdo a tutela della democrazia occidentale. “Per 70 anni
l’unità curda non è stata possibile proprio per colpa dei
confini e dei regimi totalitari degli stati nazione. Ci hanno diviso in maniera
forte, con la volontà di non farci tornare insieme. I curdi uniti sono
forti, divisi no, e non solo i curdi, ringraziamo anche i fratelli occidentali
come voi. Perchè la civiltà è partita da qui tra il Tigri
e l’Eufrate, la gente europea e americana ha le sue radici qui e voi
dovreste avere a cuore le vostre radici. Noi combattiamo per la democrazia in
tutto il mondo. Se l’area controllata dai curdi sarà sicura, tutto
il mondo sarà sicuro. Se ci aiuterete a difendere quest’area i
fondamentalisti non potranno più svilupparsi e la democrazia
potrà durare nel tempo. Il popolo curdo è l’assicurazione
dell’intero mondo.”
Kobane,
aldilà del filo spinato
Vogliamo portare la nostra solidarietà a Kobane e ci dirigiamo verso il confine.
Arrivati al confine vediamo sventolare all’orizzonte la bandiera
dell’YPG, illuminata da un raggio di sole.
Di
nascosto fotografiamo automobili abbandonate a pochi metri dal confine. Gli
abitanti di questo piccolo villaggio vicino Mesher ci spiegano che da Kobane le
persone sono scappate in poche decine di minuti, buttando tutto quello che
potevano in macchina, dirigendosi verso la frontiera turca e, una volta giunti
a destinazione, abbiano poi abbandonato auto e bagagli sperando di recuperarle
in seguito. Ma i militari turchi non permettono che i civili vadano a prendere
le loro cose, diventate così bottino di guerra dei militanti
dell’Isis. Lo spettacolo è desolante, ricorda le immagini di
Pripyat, la città abbandonata dopo l’esplosione di Cernobyl, con
la differenza che in questo caso l’abbandono non è conseguenza di
un incidente catastrofico ma della barbarie dell’uomo.
di
Federico Maccagni e Cristiano Lissoni
il F.Q
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