Se l’Isis sta avanzando
in Iraq e Siria, è perché a
Washington vogliono proprio questo. Lo conferma un documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012, desecretato il 18 maggio 2015
di Manlio Dinucci
Roma, 11 giugno
2015, Nena News - Mentre
lo Stato islamico occupava Ramadi, la seconda città dell’Iraq,
e il giorno dopo Palmira nella
Siria centrale, uccidendo migliaia di civili e costringendone
alla fuga decine di migliaia,
la Casa Bianca dichiarava: «Non ci
possiamo strappare i capelli ogni
volta che c’è un intoppo nella campagna contro l’Isis» (The New York
Times, 20 maggio). La campagna
militare, «Inherent Resolve», è stata
lanciata in Iraq e Siria oltre nove mesi
fa, l’8 agosto 2014, dagli Usa e loro
alleati: Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia,
Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e altri. Se avessero usato i loro
cacciabombardieri come avevano
fatto contro la Libia nel 2011, le forze dell’Isis, muovendosi in spazi aperti, sarebbero state facile bersaglio. Esse hanno invece potuto
attaccare Ramadi con colonne di autoblindo
cariche di uomini ed esplosivi.
Gli Usa
sono divenuti militarmente impotenti? No:
se l’Isis sta avanzando in Iraq
e Siria, è perché a Washington vogliono proprio questo. Lo conferma un documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012, desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo conservatore «Judicial Watch» nella
competizione per le presidenziali.
Esso riporta che «i paesi
occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione che tentano di
controllare le aree orientali, adiacenti alle province irachene occidentali», aiutandole a «creare rifugi sicuri
sotto protezione internazionale».
C’è «la possibilità
di stabilire un principato salafita nella Siria orientale,
e ciò è esattamente ciò che vogliono
le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq
e Iran)».
Il documento del
2012 conferma che l’Isis, i cui primi
nuclei vengono dalla guerra di Libia,
si è formato in Siria, reclutando soprattutto militanti salafiti sunniti che, finanziati da Arabia Saudita e altre monarchie, sono stati riforniti
di armi attraverso
una rete della Cia (documentata,
oltre che dal New York Times, da un rapporto di «Conflict Armament
Research»). Ciò spiega
l’incontro nel maggio 2013 (documentato fotograficamente) tra il senatore Usa John
McCain, in missione in Siria
per conto della Casa
Bianca, e Ibrahim al-Badri,
il «califfo» a capo dell’Isis. Spiega
anche perché l’Isis ha scatenato l’offensiva in Iraq
nel momento in cui il governo dello
sciita al-Maliki prendeva le distanze da Washington,
avvicinandosi a Pechino e Mosca. Washington, scaricando
la responsabilità della caduta di Ramadi
sull’esercito iracheno, annuncia ora di
voler accelerare in Iraq l’addestramento e armamento delle «tribù sunnite».
L’Iraq sta andando nella direzione
della Jugoslavia, verso la disgregazione, commenta l’ex segretario alla difesa Robert Gates.
Lo stesso
in Siria, dove Usa e alleati continuano ad addestrare e armare miliziani per rovesciare il governo di
Damasco. Con la politica
del «divide et impera»,
Washington
continua così ad alimentare
la guerra che, in 25 anni, ha provocato stragi, esodi, povertà, tanto che molti giovani
hanno fatto delle armi il
loro mestiere. Un terreno sociale su cui fanno presa
le potenze occidentali, le monarchie loro alleate, i «califfi»
che strumentalizzano l’Islam e la divisione tra sunniti e sciiti.
Un fronte della guerra, al cui interno vi sono divergenze sulla tattica (ad esempio, su quando
e come attaccare l’Iran),
non sulla strategia. Armato dagli Usa,
che annunciano la vendita (per 4 miliardi di dollari) all’Arabia
Saudita di altri 19 elicotteri, per la guerra nello Yemen, e a Israele di altri
7400 missili e bombe, tra
cui quelle anti-bunker per l’attacco
all’Iran. Nena News