July 15, 2015
di Suveyda Mahmud – Tanti sono i
volti, le parole, gli odori e i sentimenti
che si incontrano
camminando per le strade di Kobane. Raccontarli
è estremamente complicato perché qui tutto lo è, dai più normali bisogni quotidiani come mettere insieme il pranzo
con la cena fino ad avere dell’acqua o la corrente elettrica. La ricostruzione di una città totalmente
sventrata, devastata e avvolta da una
perenne nube polverosa, pare quasi impossibile.
A quattro mesi della liberazione
di Kobane, avvenuta lo scorso 26 gennaio dopo mesi
di strenua resistenza contro le armate dello Stato
Islamico, la vita però pare
pian piano riempire nuovamente queste vie. Lo testimoniano le tante attività commerciali riaperte, le ruspe ed i camion arrivate
dalle municipalità curde del Bakur (
A qualche chilometro dal centro città,
una delle prime case che incontri subito
dopo il
confine turco si trova sulla cima
di una dolce collinetta dove sventola consumata dal vento
una bandiera delle YPG. Dentro un vecchio pastore
indica appese al muro le foto di
due giovani, un ragazzo ed una ragazza. Sono
i suoi figli
e basta una gesto per capire che i daesh
gli hanno
tagliato la testa. Nonostante l’unica fonte di luce provenga da una piccola
torcia appoggiata a terra,
non serve altro per vedere i suoi occhi
riempirsi di lacrime.
In città praticamente tutti hanno
perso nella guerra almeno un componente della propria famiglia. Lo testimonia il cimitero
della città costruito subito dopo la fuga dell’ISIS
e già pieno, così come le tante foto dei martiri
appese ai muri crepati di
alcune case quasi intatte, miracolate in mezzo ad uno
scenario di morte fatto di piloni
di cemento spezzati e saracinesche piegate. In questo luogo il
riprendere della vita sembra impossibile, se non fosse che con una “strana”
normalità si continua ad andare avanti. La gente di Kobane
continua a combattere, non ha altra
scelta. I fucili hanno lasciato
spazio agli attrezzi di lavoro,
alle motorette, ai piccoli negozi
di alimentari e di vestiti, alle
pasticcerie e ai luoghi di ristoro.
Hassan gestisce insieme ad altri ragazzi un piccolo “ristorantino” molto spartano. Fuori i polli che
beccano, sfiorati dalle fiamme, dentro
un lungo bancone
con verdure tagliate ed una
griglia con qualche spiedino che sfrigola.
Ai pochi tavoli puoi trovare gente
Cosa può esserci di
peggio? Chi ha perso
i propri cari, la casa e tutto ciò che possedeva,
chi è tornato nonostante tutto cercando di ricominciare, non dovrebbe essere costretto nuovamente a scappare e a lasciare la propria terra, riconquistata versando lacrime e sangue, perché la comunità internazionale continua
ad assistere ancora troppo passivamente a quello che capita da queste parti.
Il sacrificio di chi qui è morto e di chi qui invece vuole vivere, non deve essere vano.
Rompere l’embargo turco che di
fatto non consente il passaggio
di aiuti e convogli umanitari verso Kobane è urgente, e stare a guardare non aiuterà gli abitanti di
Kobane. Di certo c’è che
da queste parti non hanno
nessuna intenzione di arrendersi. L’amore, l’umanità e l’ospitalità della
gente di Kobane ti fa
credere che tutto sia possibile,
che un mondo costruito sui principi
di uguaglianza, fratellanza a pace forse è già iniziato. Se
guardi negli occhi i bambini e le bambine di Kobane
capisci che qui l’ISIS non vincerà mai.
di Suveyda
AMhmud, European Affairs, luglio
2015
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