Rojava come la
Catalogna del 1936? Kobane come Barcellona con i suoi
anarchici, le colonne Durruti, il Poum,
i collettivi industriali e le comuni agricole?… I paralleli storici non reggono
mai, ma sono proprio i guerriglieri curdi di Rojava, le Unità di
protezione del popolo, a proporre il paragone – forse su ispirazione di un articolo dell’antropologo, e attivista
anarchico, David Graeber, noto per il suo libro
“Debito: i primi 5000 anni” – anche con una foto nella quale compare il famoso
ritratto della diciassettenne antifascista francese Marina Ginestà
i Coloma, in realtà una giornalista, scattato da Juan Guzmán sul tetto dell’Hotel Colón.
Giornalisticamente parlando, quello che sta accadendo nel nord della
Siria nelle tre aree attorno Kobane, Afrin, Qamishli somiglia un po’ a
quanto accadde nella Spagna durante la guerra civile. Nell’area nord
occidentale della Siria (Rojava significa ovest), i
curdi stanno cercando di organizzarsi politicamente
nel vuoto generato dalla guerra civile che sta dilaniando il paese e che ha
portato tra l’altro al rafforzamento dell’Isis, il
nemico (insieme alla Turchia di Erdogan,
che effettua bombardamenti aerei), contro cui combattono una guerra per la
sopravvivenza. Hanno dato vita a quella che è ormai
chiamata la Rivoluzione di Rojava, iniziata nel 2012:
la società si è organizzata sulla base dei principi di democrazia diretta,
eguaglianza (anche tra i sessi) e, per quanto possibile, di sostenibilità
economica. L’idea è di procedere verso una forma di socialismo libertario,
ispirato alle idee del municipalismo o comunalismo del (post)anarchico ed ecologista sociale Murray Bookchin, adottate dopo la
cattura e la detenzione anche dal leader dei curdi
turchi Abdullah Ocalan,
fino ad allora un tradizionale marxista-leninista. Il
sistema è stato persino paragonato a quello della democrazia diretta di Atene.
In realtà la costituzione – roussovianamente
definita Contratto sociale – che è stata approvata dalle assemblee popolari
l’anno scorso, malgrado tutta l’enfasi data dagli abitanti della Rojava alle assemblee di villaggio e di città, alle
associazioni, alle imprese autogestite dal
maggioritario Movimento per una società democratica, appare nella sua
forma piuttosto convenzionale, anche se piuttosto avanzata, soprattutto per il
Medio Oriente. Attribuisce anzi a una riserva di
legge, che deve essere quindi approvata dal parlamento centrale, la definizione
dei compiti dei consigli municipali. Anche se viene
adottato il principio di autogoverno e quello di decentramento, sembra che
costruisca più un sistema gerarchico di “sussidiarietà”
– per così dire cattolico ed europeo – che uno orizzontale di “sovranità delle
sfere” – protestante e americano – più coerente con un sistema libertario. I
governatori dei cantoni – così chiamati su ispirazione del modello svizzero –
sono addirittura eletti dal Parlamento e non dai cittadini.
Le risorse
naturali, la terra e gli edifici delle tre Regioni autonome o cantoni (Kobane, Safrin, Jazira anche se l’area controllata dai curdi
si è ora estesa, malgrado i bombardamenti turchi e le
tre aree virtualmente non sono più separate) sono di proprietà pubblica. Il
loro uso e la loro distribuzione saranno “determinate dalla legge”
, ma non vengono individuati criteri. La costituzione protegge inoltre
la proprietà privata – anche se è più vicina al proudhoniano possesso – e vieta i monopoli. Sul piano
strettamente politico, è prevista la divisione dei poteri – più una corte
costituzionale.
I diritti
civili, con un riferimento esplicito a tutte le convenzioni internazionali sui
diritti umani, sono protetti. La libertà di espressione
e di informazione può però essere limitata, e non necessariamente attraverso
una legge, “tenendo conto della sicurezza delle Regioni Autonome, della
sicurezza e dell’ordine pubblico, del rispetto della vita privata e della
prevenzione e del perseguimento dei reati”. È previsto l’habeas
corpus – nessuno può essere arrestato se non nelle modalità
prevista dalla legge – e le perquisizioni devono essere autorizzate da
un magistrato. La pena di morte e la tortura sono vietate. Un’enfasi
particolare è riservata alle donne, alle quali è riservato il 40% dei posti in
tutte le istituzioni, consigli e assemblee dell’area. Nessuno può sposarsi
prima della maggiore età e sono vietati “trattamenti crudeli, inumani e
degradanti” dei bambini: un riferimento non esplicito, secondo alcuni
interpreti, all’infibulazione. Stato e religione sono
separati, anche se la formula del giuramento dei parlamentari prevede un
riferimento a “dio onnipotente”.
Come nasce
allora il paragone con la Catalogna? Per capirlo occorre guardare a quella che
in Italia si sarebbe chiamata un tempo la costituzione
materiale, il funzionamento concreto della società e della sua organizzazione.
Maggioritario, nell’area, è il Movimento per una società democratica, guidato
dall’ingegnere chimico Salih Muslim
Muhammad e da Asya Abdullah. Il suo programma pone molta enfasi sulle comuni (di strada, di villaggio, di città), sulle
associazioni, sulle cooperative, sulla partecipazione dal basso e sulla
gestione collettiva delle risorse economiche. Agli stessi principi si ispirano le diverse milizie, tutte decentralizzate: le Unità per la protezione del popolo, le Unità per la protezione delle donne, l’Asaysh, sostanzialmente una forza di polizia, guidata da un
uomo e una donna, più un’unità speciale contro gli stupri e la violenza
domestica. Anche le forze militari, sia pur votate alla disciplina, si
riuniscono in assemblea, a scadenze regolari e su
richiesta dei miliziani, hanno un proprio statuti: è una struttura che
condivide il progetto politico di Rojava e per questo
motivo si è argomentato – lo ha fatto per esempio David Graeber –
che il governo centrale ha di fatto ben pochi poteri. Secondo Human Rights Watch
e Kurdwatch,
numerosi sono stati comunque i casi di abusi, tra cui
arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, tortura, persino episodi di pulizia
etnica. La situazione sembra in miglioramento, ma Kurdwatch continua a segnalare episodi, soprattutto di
arruolamenti forzati.
Anche in Rojava, come in Spagna, sono accorsi diversi volontari da
ogni parte del mondo: soprattutto statunitensi e turchi (non tutti curdi, peraltro), spagnoli, tedeschi, un italiano (Karim Franceschi, tornato nelle
Marche), diversi australiani tra cui l’ex sindacalista laburista Matthew Gardiner (ora rientrato
in patria). Un battaglione internazionale per la libertà, in cui sono confluiti
anarchici, marxisti-leninisti, maoisti e seguaci dello hoxhaismo (la variante albanese del maoismo), si è formato
a giugno, anche sulla falsariga delle Brigate internazionali spagnole. Non mancano staffette umanitarie, in Italia organizzate da Rojava Calling. Come
in Catalogna, anche in Rojava, e almeno fino al 2013,
si sono verificati scontri interni: tra le milizie e i gruppi arabi, ma anche
tra le diverse formazioni e i diversi partiti curdi. Ora la situazione è più calma: a Kobane
non ci sono gli stalinisti non sparano sugli anarchici come in Spagna, dove gli
scontri tra i sostenitori della rivoluzione fecero, secondo alcune
ricostruzioni, 75mila morti.