Il racconto
di Zero Calcare: «Io nell’inferno di Kobane»
September 08, 2015
di Daniela Paba – Il fumettista
a Marina Café Noir ha parlato
Ci sono laboratori di socialità alternativa
e creatività che vantano una storia:
la storia dei centri sociali. Ci sono, tra
le montagne turche, laboratori di democrazia
dove le donne curde, armate di kalashnikov,
combattono l’Isis; peccato che la cattiva coscienza dell’Occidente le rubrica come un
fenomeno esotico da “magazine”.
Raccolta tra il
Giardino sotto le mura e il Terrapieno, la comunità di lettori
di Marina Café Noir, segue i
Chourmo che, come pifferai magici, portano il pubblico
tra i punk e i guerriglieri
Quanto peso hanno i centri sociali nel panorama artistico alternativo italiano dicono sul palco
«I centri sociali risalgono ai primi
del Novecento, nascono come
luoghi di socialità, dove la classe operaia sperimenta forme di libertà
e organizzazione – ha ricordato
Philopat – Nel Sessantotto cominciano le occupazioni a Milano: la prima è l’Hotel Commercio in Piazza
Fontana. Ci arrivano gli studenti fuori
sede ma ci sono anche molti
artisti». «A Roma il movimento dei centri
sociali si diffonde come un virus dai reduci
Colpisce al cuore l’ironia di Zerocalcare:
«Io non ho memoria lunga,
do la mia definizione scolastica: sono spazi vuoti, sottratti
all’abbandono e resi alla comunità. Ma questa definizione è anche la mia esperienza
personale: anziché stare fuori dalla metro a fare nulla, siamo cresciuti
tra stimoli, film, eventi autogestiti in modo diverso».
Dal palazzo seicentesco di
«All’inizio una parte
Una “rivoluzione mentale”
la definisce Alcu che fonda accademie
dove si sperimentano pratiche di uguaglianza
tra i sessi,
dove il corpo femminile non fa paura, dove interi villaggi sono gestiti
dalle donne. Più che uno
stato-nazione i curdi sognano una
nazione fatta di tante bandiere,
lingue e religioni, senza un governo: come un giardino pieno di fiori. «A 13 anni mi hanno definito
terrorista, poi ho capito che i governi
fascisti chiamano i partigiani “terroristi”.
Non stiamo combattendo per morire o uccidere ma perché siamo state costrette. A Kobane come a Rojave combattiamo contro i carri
armati che l’Italia vende ai miliziani. La nostra lotta ha 40 anni e non quattro, ma nessuno la vuole vedere. Le donne curde ritratte
in mimetica ispirano gli stilisti per le collezioni ma vivere in divisa non è bello, siamo sporche e puzziamo. Per l’Occidente il PKK è un partito di terroristi che
va bene se combatte l’ISI; ma dal PKK sono nate
le donne di Rojave».
La Nuova Sardegna Gelocal