Intervista
al portavoce del governo di Erbil su divisioni interne e obiettivi interni,
mentre proseguono gli scontri tra peshmerga e milizie sciite. Intanto Russia e
Usa proseguono per la loro strada: Putin vola a Teheran, Kerry ad Abu Dhabi.
Chiara Cruciati – Il Manifesto
Erbil, 24 novembre
2015, Nena News – «Il nostro obiettivo è chiaro, non ne
facciamo mistero: puntiamo all’indipendenza del Kurdistan all’interno dei
confini iracheni». Va dritto al punto Safin Dezaee, portavoce del governo regionale kurdo (Krg). Questo
potrebbe essere il momento buono per premere sull’acceleratore
dell’indipendenza, ulteriore terremoto per un Iraq in pezzi, ormai gestito da
milizie e eserciti separati.
Ciò non significa che l’obiettivo sarà
ampliato: l’autonomia dell’intero Kurdistan è
impensabile. «Dobbiamo essere realistici – spiega al manifesto
Dezaee – Il Kurdistan è stato diviso, il popolo kurdo è stato
diviso. Una realtà triste ma in Iraq
vogliamo vivere nel presente. I kurdi vivono in condizioni geografiche
e demografiche diverse nei paesi in cui si trovano: in Turchia buona parte dei
kurdi vive in Anatolia; in Siria è lo stesso,
sacche di kurdi in tutto il territorio. Una soluzione come quella del Kurdistan
iracheno non è detto che sia applicabile».
A monte le diverse visioni politiche e reti
di alleanze che caratterizzano le altre realtà, quella di Rojava e quella turca,
inspirata dagli ideali del Pkk. Che Erbil si stia operando per ottenere una
maggiore autonomia da Baghdad non è un mistero e l’ultimo anno ne ha palesato
le strategie: «L’Iraq è già diviso. Per questo nel 2003 i
nostri leader andarono a Baghdad per proporre un
Iraq
federale, democratico e pluralista. Ma le cose non sono andate così».
Né stanno migliorando: gli scontri a Kirkuk tra peshmerga e
milizie sciite sono quotidiani. Erbil rivendica la città come propria, seppure
imputi al governo di Baghdad
la responsabilità dell’attuale situazione: «L’art. 140 della Costituzione
irachena disegna una road map per discutere lo status di Kirkuk – continua Dezaee – ma dal 2004 non è
stato implementato. Sembra che Baghdad
deliberatamente ritardi questo processo. Quando Mosul cadde in mano all’Isis,
fu Baghdad a chiedere ai peshmerga di entrare a Kirkuk per difenderla. Lo
abbiamo fatto e ora restiamo».
Una situazione simile il Krg non la immagina
per Mosul: si
moltiplicano le dichiarazioni sull’intenzione di non marciare sulla seconda
città irachena. Lo ripete anche Dezaee: «Mosul
deve essere liberata da Baghdad,
con l’eventuale sostegno dei peshmerga. Non è un’operazione di per sé
impossibile, ma è irrealizzabile senza un piano di inclusione della comunità
sunnita, che ha appoggiato Daesh in risposta alle discriminazioni del governo centrale. Se
questo non accade, se la gente di Mosul e le tribù locali non vedranno la fine
del tunnel, probabilmente non parteciperanno alla liberazione della città».
L’ennesima divisione, insuperabile con gli
attuali equilibri e i raid internazionali che si concentrano sulla Siria e
tengono in un angolo Mosul: ieri il governo
iracheno ha sospeso i voli sopra il Kurdistan
a causa dell’intensità delle manovre aeree russe dal Mar Caspio. Missili, però,
diretti in Siria.
Putin a Teheran, Kerry ad Abu Dhabi
Qui l’operazione russa copre la
controffensiva dell’esercito governativo. Domenica Damasco ha preso il
controllo sia della superstrada nordorientale tra Latakia e Aleppo che le
colline di Zahia, lungo il confine turco, zona strategica che riaccende i
timori di Ankara
per il sostegno indifesso di Mosca ad Assad. Un avversario condiviso con il
Golfo e che, nonostante tenga un profilo basso per garantirsi impunità nelle
operazioni contro lo Yemen, non disdegna di ritagliarsi un ruolo. Nel
fine settimana Riyadh
ha annunciato un meeting il 15 dicembre delle opposizioni moderate siriane, per
riunificare forze spezzettate e poco rappresentative. Ieri a dare a re Salman
una pacca sulla spalla è stato il segretario di Stato Usa Kerry che è
volato ad Abu Dhabi per incontrare le delegazioni emiratina e saudita e dare il
suo contributo ai negoziati.
Chissà se il segretario di Stato sarà stato
inquietato dall’ultima uscita della Coalizione Nazionale, alleato principe
dell’Occidente: ieri il suo capo, Khaled Khoja, ha fatto appello ad al
Nusra e a chi al suo interno è «un rivoluzionario onorevole» perché prendano le
distanze da al Qaeda e si pongano sotto l’ombrello delle opposizioni moderate.
Una richiesta già mossa in passato e figlia degli obiettivi comuni: al
Nusra ha fini nazionali e non trasnazionali come il “califfato” di al-Baghdadi.
Ma una simile apertura mostra la legittimità che i moderati riconoscono ad un
gruppo dichiarato terrorista dagli Usa
e che probabilmente vorrebbero parte dei futuri negoziati, visto che controlla
la provincia di Idlib e parte di Aleppo.
Nelle stesse ore, mentre il premier
britannico Cameron annunciava per giovedì una nuova richiesta al parlamento per
un intervento in Siria, l’inviato speciale Usa faceva sapere che «molto
presto» nel paese arriveranno truppe speciali che organizzino le forze locali
anti-Isis. È probabile che saranno dispiegate a nord, dove sono attivi i
combattenti kurdi, nuovo riferimento della Casa Bianca, ma dove soprattutto è
tornato attivo l’esercito governativo. Si tratta del
primo dispiegamento ufficiale di truppe Usa sul suolo siriano.
L’accelerazione è frutto del protagonismo russo. Mosca non
perde tempo e ribatte: mentre Kerry volava nel Golfo, Putin sbarcava a Teheran.
Al centro della discussione con il presidente iraniano Rowhani e l’Ayatollah
Khamenei c’è stata la Siria e il piano di pace di Mosca, molto simile
a quello che Teheran ha tentato per mesi di far passare.