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“Qui gestiamo le cose secondo il
'Gangman Style': voi
italiani dovreste saperne qualcosa”. Ilyas, una
quarantina d'anni e un completo in giacca e cravatta celeste, ci tiene a
pavoneggiare la sua pistola e si atteggia a piccolo boss di periferia per le
strade disperate di Ankawa, antica città mesopotamica oggi declassata a banlieue di Erbil, capitale del governo regionale curdo
(Krg) e meta di quasi tutti i cristiani fuggiti dalle
città conquistate dallo stato islamico, tra giugno e agosto 2014. Ilyas ha ottenuto un posto invidiabile nelle istituzioni
corrotte del Krg (“Non mi mancano i soldi, nè le armi”) e gestisce anche, ad Ankawa,
una piccola attività commerciale. Bassam ha 25 anni
ed è uno dei suoi tuttofare. È originario di un ricco quartiere residenziale
alla periferia di Falluja, a ovest di Baghdad, dove
si trovava nel 2003, quando in quella città scoppiò la prima rivolta contro
l'occupazione anglo-americana dell'Iraq; un episodio che lui ricorda in modo
diverso da tanti suoi coetanei musulmani.
“Da allora per noi cristiani sono
iniziati i problemi. I salafiti [Corrente
religiosa che chiede il ritorno al purismo islamico dei primi califfi, Ndr] hanno cominciato a introdurre per tutti il
criterio Halal”. «Halal»,
aggiunge sprezzante Ilyas, non è semplicemente un
modo di macellare la carne («Questo è ciò che dicono a voi, nel fottuto occidente»), ma ciò che è consentito e ciò che non
lo è, in generale, secondo la legge coranica. Anche i
cristiani di Falluja, secondo Al-Qaeda
– racconta Bassem – dovevano conformarsi ai dettami
del profeta, e le loro donne dovevano coprire i capelli fuori dalla propria
abitazione. Bassem e la sua famiglia hanno lasciato
per questo Falluja nel 2007, rifugiandosi prima a
Baghdad, poi a Mosul: “I conflitti tra sunniti, sciiti e cristiani erano diventati troppo gravi,
andarsene era l'unica soluzione”. Da Mosul, dove
negli ultimi anni Al-Qaeda aveva, analogamente,
commesso omicidi di cristiani, la sua famiglia si è poi trasferita a Karakosh, nella piana di Niniveh
(tra Mosul e Erbil), dove i
cristiani erano, fino al 2014, la quasi totalità della popolazione.
Nel giugno 2014 decine di
migliaia di persone di fede cristiana lasciarono Mosul
a causa dell'arrivo dell'Isis e trovarono rifugio per
le strade di Karakosh. “Non avevano nulla, non
avevano lasciato loro neanche i vestiti. Lo stato islamico li aveva spogliati
di tutto prima di lasciarli partire”. Poi, il 6 agosto, sette razzi si
abbatterono su Karakosh da Mosul,
facendo qualche morto e alcuni danni materiali. “Io ero arruolato nei Peshmerga – dice Bassam – ma i
miei superiori diedero l'ordine di evacuare subito la città”. I Peshmerga erano male equipaggiati, o troppo pochi? “Le armi
c'erano – risponde – gli uomini pure. Ci doveva essere qualche gioco sporco di
mezzo”. Il governo di Erbil decise che non era
strategico difendere i cristiani di Karakosh, così
come aveva deciso per gli ezidi di Singal appena sei giorni prima? Bassam,
come tutti i profughi che abbiamo finora intervistato, si dice incline a
pensarlo, ma Ilyas nega. Per sua stessa ammissione,
vuole mantenere una posizione più sfumata verso le istituzioni barzaniane, da cui percepisce un lauto stipendio: “Non
combatterono perché l'area è desertica, priva di alture, inadatta a uno scontro
con un avversario ben armato”.
A lui, più che criticare il
governo di Erbil, interessa attaccare la religione
musulmana. Una signora velata e la sua bambina si affacciano al suo negozio
chiedendo elemosina, ma lui le ignora con disprezzo: “Non vogliamo questa gente
ad Ankawa. Che cosa hanno fatto, loro, ai miei
fratelli di Mosul? Li hanno spogliati delle loro case
e dei loro averi”. Andreus aveva 15 anni quando l'Is ha attaccato Karakosh: “C'è
stata l'esplosione di un razzo e siamo andati a vedere. Abbiamo trovato due
bambini morti” racconta sorridendo imbarazzato, come avesse visto un film che i
genitori gli avrebbero proibito. L'anziano Bashar Yohanna ha una baracchetta sul
lato opposto del marciapiede, in cui vende tè ai passanti; ci implora di
fotografarla, pensando che ciò possa fargli pubblicità. “Ho capito che sarebbe
successo qualcosa quando ho visto la gente che faceva scorte al Bazar. Poi i
sacerdoti ci hanno detto che se la chiesa avesse suonato le campane a stormo,
tutti avremmo dovuto lasciare la città”. Così accadde il 6 agosto, dopo i primi
colpi di mortaio, mentre i miliziani dell'Is
raggiungevano Karakosh incolonnati sui loro Toyota.
Bashar non trattiene le lacrime mentre ricorda le migliaia di persone incolonnate
a piedi verso Erbil, gli ingorghi di auto, l'arrivo
ad Ankawa e le persone accampate «come animali»
attorno alla chiesa. Ricorda l'alternativa datagli al check
point dai miliziani dell'Isis:
avrebbe consegnato loro tutto, “oppure si sarebbero presi le mie quattro
figlie”. I profughi sarebbero stati sistemati alcune settimane dopo in dieci
campi allestiti ad Ankawa dal Krg,
tra cui Ankawa2, dove vivono 5.500 persone, circa 1.200 famiglie stipate in
1.040 prefabbricati. Ibrahim, originario di Bartella, un altro villaggio della piana di Niniveh ora in mano al califfato, si occupa della gestione
del campo con solo altre nove persone, per conto di «Pérè
Emmanuel», grazie a cui ha studiato dai padri domenicani a Mosul.
Ci accompagna in mezzo alla distesa immensa di container identici tra loro
ammassati l'uno affianco all'altro, composti ciascuno da due stanze per dormire
e un stanzino per i servizi igenici.
La chiesa del campo è stata
costruita dagli abitanti addizionando diversi prefabbricati e ponendo sopra
essi un tetto a spiovente. La messa viene celebrata in aramaico
e tradotta in arabo, e il rito scelto, poiché nel campo maggioritario, è quello
siriaco ortodosso; tuttavia, vi partecipano anche
cristiani caldei e della chiesa orientale assira. “Nonostante tra noi vi siano persone di confessione
orientale, siriaca, caldea
e ortodossa, apparteniamo tutti al popolo assiro, e
la nostra lingua è l'aramaico, la lingua di Gesù. Parliamo arabo per la strada, con gli arabi e i curdi, ma in famiglia usiamo sempre l'aramaico”.
Gli assiri dominavano la Mesopotamia
settentrionale nel XXV secolo a.c., con capitale Niniveh. Furono conquistati quasi duemila anni dopo, e
divennero gli abitanti sottomessi dell'Assiristan
persiano. Dopo la conquista alessandrina subirono l'influenza culturale greca,
per divenire popolazione contesa ai confini tra impero romano e persiano, fino
alla conquista musulmana, a cui arrivarono già convertiti in massa al
cristianesimo.
Mantennero in maggioranza questa
religione, ma dovettero pagare una tassa ai califfi, come previsto nel Corano,
a causa della loro mancata conversione. Dopo la caduta dell'Impero Ottomano
questa discriminazione venne meno in Iraq, ma le conquiste dello stato islamico
hanno tentato di riportare la situazione allo stato precedente. In qualità di
“emiro”, poco prima di autoproclamarsi califfo, Al-Baghdadi arrivò a Mosul il 6
giugno 2014. “Una settimana dopo, dopo la preghiera del venerdì, dai minareti
fu detto che, in ottemperanza al dettato coranico, i
cristiani avrebbero dovuto convertirsi, pagare una tassa o affrontare la
morte”. Al-Baghdadi chiese una riunione con i vescovi
di Mosul per affrontare la questione, ma questi
rifiutarono di incontrarlo. Tutti i cristiani partirono il giorno stesso per le
città della piana.
Nowel, vecchio dirigente scolastico, era uno di loro. Ci fa sedere sullo spazio
davanti al suo container, dove l'intera famiglia si sforza di allestire uno
spazio accogliente, offrendoci dell'acqua e del tè. «Le milizie di Daesh, una volta entrate a Mosul,
hanno vergato su tutte le case cristiane, in alfabeto arabo, la «N» di
«Nazareni» (termine utilizzato dai musulmani, spiega il sindaco di Ankawa, per denotare i cristiani)». Questo segno, dice Nowel, era preludio alla confisca delle abitazioni. «Come
potevamo fidarci? Al-Baghdadi aveva annunciato che i
cristiani sarebbero stati rispettati, ma appena i suoi miliziani hanno preso il
controllo della città i funzionari cristiani hanno smesso di percepire tanto lo
stipendio quanto i regolari razionamenti di cibo. Quando se ne sono usciti con
la storia della tassa, ce ne siamo andati». Sulla strada per Karakosh la sua famiglia incontrò il check
point dello stato islamico dove venne derubata di
soldi, oro e fedi matrimoniali; a cento metri di distanza si trovava il check point dei Peshmerga, che li fecero entrare a Karakosh
e, dopo che anch'essa fu attaccata, nel Kurdistan.
Bassam dice che non c'erano problemi con i musulmani prima dell'arrivo dell'Isis, ma Ilyas cerca palesemente
di storpiare la traduzione, capovolgendo il senso della sua risposta. Nowel afferma che non c'erano mai stati attriti tra
comunità cristiana e musulmani, sebbene alcuni gruppi organizzati attaccassero
i cristiani di tanto in tanto, ma Ibrahim interviene
a correggerlo: «Non è così. In ogni musulmano c'è un grande Daesh:
il dettato coranico impone all'umanità intera di
riconoscere Mohamed come ultimo profeta». Appare
chiaro che i leader della comunità cercano di dare alla contrapposizione che si
è creata in Iraq una curvatura religiosa e identitaria,
ma la popolazione non sembra percepire spontaneamente questo bisogno. Nowel protesta alle parole di Ibrahim,
si mette a urlare: non accetta, benché profugo, di affermare che tutti i
musulmani sono uguali, come vorrebbe Ibrahim. La
moglie tenta di intervenire, ma nessuno la ascolta; il figlio, Silwan, interviene contro il padre: «Se un musulmano crede
davvero, deve agire come Daesh. Soltanto i musulmani
meno rigorosi ci rispettano».
«Non è un problema di arabi o curdi, nè di sunniti
o sciiti: i musulmani sono così. Quando sono deboli stanno tranquilli, ma
appena si sentono forti vogliono imporre a tutti la loro fede» dice Ibrahim mentre ci accompagna all'uscita del campo: «Quelli
come Nowel, a Mosul,
avevano la grana, lavoravano per lo stato: per questo vogliono far pensare che Daesh sia un fenomeno isolato nella società islamica».
Anche lui, come Nowel, concorda nel dire che il
presidente del Krg Barzani
ama i cristiani e il Kurdistan è oggi ospitale verso di loro. «Le cose, però,
possono velocemente cambiare. Ti faccio un esempio: un amico curdo si è rifiutato di stamparmi dei santini l'altro
giorno, nonostante fare stampe sia ciò che gli dà da mangiare. Il rifiuto per
gli altri ce l'hanno dentro». Dal
Papa Francesco doveva visitare Ankawa a ottobre, ma ha rinunciato per motivi di sicurezza:
«Ha fatto male» dice Al-Makdici «Dovrebbe sapere che
la sua sicurezza non deriva dagli eserciti, ma da Dio». William, giovane
attivista vicino al partito, non ha dubbi su chi potrebbe attivare una
protezione efficace per i cristiani: «La Russia». Spiega come per lui la
questione sia nazionale prima che religiosa: occorre difendere la minoranza assira, tanto in Siria quanto in Iraq. In Siria, spiega, le
milizie assire Sotoro sono
al momento divise in due fazioni: una, quella originaria, combatte con il Pyd e le Ypg; un'altra, che si è
staccata, è fedele al governo siriano. Queste divisioni si ripercuotono qui,
alcune centinaia di chilometri più a est, sulle complesse affiliazioni
politiche che dividono la comunità di Ankawa, già
frammentata, sul piano religioso, da tante diverse tradizioni e riti cristiani.
«Gli americani sono venuti qui per prendersi i soldi, e così faranno tutti»
dice dal canto suo Ilyas, ostentando cinismo. «Siamo
noi, fin dall'antichità, i padroni di questa terra: non i russi, nè gli americani, non i curdi, nè gli arabi» aggiunge in un volo pindarico. «Chiunque
manderà dei soldati qui, in ogni caso, non lo farà certo per i miei occhi
azzurri».
Corrispondenza per Infoaut e Radio Onda d'Urto
realizzata insieme a Stefania
Fortuna ad Ainkawa, Iraq
Postato 5th March 2016 da Davide Grasso