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“Se non ci fosse consenso per Daesh, Daesh non esisterebbe” dice un compagno curdo
nel nord dell'Iraq. “Perchè la gente di Mosul non si
ribella, non insorge? Perchè a molti di loro va più che bene”. Facciamo notare
che in Siria molti combattenti di Daesh provengono
dall'estero: Uzbekistan, Kazachstan,
Cecenia. “Ci sono, ma non sono la maggioranza; la
maggioranza sono siriani”. Difficile immaginare, d'altra parte, una forza
composta da alcune migliaia di militanti, per quanto violenti e bene armati,
che possa controllare una città come Mosul in Iraq,
con oltre un milione di persone, se fosse da tutti, indistintamente, malvoluta.
La verità è che otto anni di terribile occupazione angloamericana
(e italiana), succeduta dal potere dispotico di un governo corrotto e predatorio installato a Baghdad, hanno prodotto uno stato
di disperazione tale, nelle province sunnite
settentrionali di Al-Anbar e Niniveh,
da far apparire, a gran parte della popolazione, le milizie di Al-Baghdadi il male minore.
I racconti dei sopravvissuti
all'arrivo dell'Is, ormai profughi in altre città
dell'Iraq, delineano un quadro ambiguo, dove il califfato appare anche un
“mostro provvidenziale” per le potenze regionali e internazionali. Fallito il
brutale tentativo americano di addomesticamento degli
iracheni, il paese è finito nelle mani di un partito, Al-Dawa
(sciita), vicino all'Iran. La secessione sostanziale del Kurdistan del
presidente Barzani, che dal
“Avevamo le armi per combattere e
i Peshmerga curdi erano
presenti in forze nel nostro villaggio; ma si sono ritirati, e ci hanno detto
di fare altrettanto” racconta Hussein, un medico ezida nel campo profughi di Dawodya,
provincia di Duhok (Kurdistan iracheno
settentrionale). Con i suoi 4.205 profughi, tutti provenienti dall'Iraq, i suoi
99 prefabbricati e le sue 621 famiglie ezide, arabe, curde e turcomanne, il campo è,
di fatto, un Iraq in miniatura. Diviso in “quartieri” secondo affinità
linguistiche o religiose, che travalicano ampiamente nel sociale e nel
personale, è comunque – dicono i suoi amministratori, che esibiscono dietro
ogni scrivania il ritratto del presidente Barzani –
“una piccola isola di pacifica convivenza e rispetto reciproco”. “Ho cercato di
fuggire a nord, ma i Peshmerga mi hanno fermato a un
posto di blocco” continua Hussein. “Eravamo migliaia.
Solo dopo alcune ore, mentre i miliziani di Daesh
sparavano sulla folla e ci inseguivano per tutta la zona, i Peshmerga
sono fuggiti e siamo potuti fuggire anche noi”.
Le scene raccontate dai fuggiaschi
a Dawodya o a Erbil sono le
stesse che riferiscono quelli di Batman, nel
Kurdistan turco, o i cristiani fuggiti da Karakosh e Mosul, oggi riparati ad Ainkawa:
né l'esercito iracheno, né i Peshmerga del Pdk hanno affrontato Daesh. Un
profugo di Makhmur scoppia a ridere quando gli
rivolgiamo questa domanda: “Daesh non combatte mai
quando entra nelle città: entra in centri ormai disertati dalle forze rivali, e
combatte solo quando viene attaccato”. Popolazioni stremate, strati proletari
pronti a sottomettersi a qualunque gang pur di sopravvivere, gente oppressa da
decenni, che non aspetta altro che l'amministrazione della vita torni ai
consigli della sharia che da secoli gestiscono le
controversie nelle loro città: è lo sfondo sociale su cui si è inserito in
questi due anni lo stato islamico con i suoi convogli di pick up incolonnati
sulle autostrade, contro cui molti arabi sunniti, al
di là delle opinioni politiche, hanno ritenuto di non aver voglia, motivo o
possibilità di combattere.
Majid è arabo sunnita, ma viene da Singal,
città a maggioranza ezida. Non ha ritenuto di dover
restare e appoggiare i nuovi invasori. “Avevamo visto in TV quel che avevano
fatto nelle altre città: uccidevano i soldati e i poliziotti, e mio fratello è
poliziotto. Inoltre avevamo parenti a Qamishlo [in
Siria, Ndr] che ci avevano detto per telefono:
arriveranno e diranno di non voler fare del male a nessuno, poi inizieranno a
uccidere poliziotti e soldati”. Sahid è torcomanno, di Mosul. Quando gli
chiediamo la sua confessione religiosa, si spaventa: siamo tutti uguali, dice
preso da una specie di panico: sunniti o sciiti, non
fa alcuna differenza. Come quasi tutti i turcomanni
di Mosul, è sciita: una fede che verrebbe rispettata
da Baghdad in giù, ma che nel nord dell'Iraq può creare solo problemi. “Quando
i quartieri ovest di Mosul sono stati occupati da Daesh abbiamo deciso di andarcene. Ci avrebbero ucciso
tutti per la nostra religione” confessa.
Giura che il governo di Mosul, prima dell'arrivo di Daesh, era ottimo, che non c'era alcun problema. Nei
quartieri ovest in cui viveva, spiega un altro uomo – padre di famiglia arabo
ma cristiano – stava anche la gente più facoltosa, tra cui molti cristiani e curdi. Il lato est, oltre il Tigri, è la parte della città
dove vivono le masse diseredate arabe musulmane, ci dice: lì, nei primi giorni,
l'Isis ha imposto il suo potere, per poi giungere
sull'altro lato, dove la gente è fuggita all'impazzata. Nonostante la rapidità
della conquista della città, sarebbe sbagliato pensare che il potere salafita sia giunto dal nulla: “Io non andavo più a Mosul dal 2004, nonostante a volte ne avessi bisogno per
ottenere dei documenti” racconta Hussein; “Ben prima
di Daesh i salafiti erano
pronti ad aggredirci o ucciderci se solo ci vedevano per strada. Perchè avrei
dovuto andare in un posto così?”; e i cristiani di Ainkawa,
per la maggior parte assiri, raccontano delle tasse
che i salafiti pretendevano dalle famiglie non
musulmane ben prima dell'invasione dell'Isis.
“Non c'era Daesh,
ma c'era Al-Qaeda [che già aveva preso il nome “Stato
islamico in Iraq”, Ndr]. Hanno sempre assassinato
cristiani a Mosul, ma non credere che con gli sciiti
vada meglio: alcuni di loro hanno ucciso un cristiano a Baghdad, l'altro
giorno, perché vendeva delle birre”. Jabal è ezida, ha una buona istruzione e insegna nel campo dal
mattino alla sera tutti i giorni, per 140 dollari al mese; implora una
raccomandazione per lavorare come traduttore presso i giornalisti occidentali.
Tutti gli danno ragione quando dice che le minoranze, in Iraq, avrebbero
bisogno di protezione internazionale: “Basterebbero dieci soldati dall'Europa
per proteggere Singal” dice un uomo turcomanno dall'altro lato del prefabbricato in cui siamo
seduti, evidenziando il carattere mitico che qui, nel bene o nel male, assume
l'immagine della forza militare straniera.
La richiesta di forze straniere
va di pari passo con la protesta ingenua per il loro comportamento: “Ho visto
con i miei occhi un aereo Usa sorvolare un convoglio di Daesh
e aspettare che tutti i miliziani fossero in salvo prima di colpire il furgone
vuoto” afferma il Mukhtar ezida
del campo. Hussein gli fa eco: “Per sette giorni Daesh ha massacrato, stuprato e terrorizzato a Singal e dintorni. Soltanto dopo gli americani hanno
iniziato a bombardare”. Racconta la fuga sulle montagne, la morte di un suo
anziano conoscente per fame: era rimasto nascosto nella sua casa, in un
villaggio abbandonato, e nessuno l'aveva visto, ma tutto attorno c'erano
soltanto miliziani. “L'occidente è potente, può controllare il mondo: perché
non può sconfiggere Daesh?” chiede furente un signore
turcomanno, concludendo con la tipica frase: “Fanno
tutto per il petrolio”. Un ragazzo sui vent'anni
interviene: “Non dovete chiederci queste cose, i rapporti tra Daesh e l'America. Siamo gente senza educazione, non
possiamo comprendere la politica. Io ho dovuto lasciare Mosul,
è due anni che non vado a scuola”.
Chi ricostruirà la verità, le
responsabilità personali e politiche, gli eventi e il contesto? I testimoni
appaiono traumatizzati e impauriti, regolarmente preoccupati che le loro
risposte possano innescare processi o conseguenze che non riescono a
controllare. Da un lato, hanno timore a raccontare le loro storie; dall'altro,
vorrebbero che esse provocassero come per magia benefici evidenti e immediati,
e per questo non di rado sembrano soltanto in parte sinceri, come fossero
impegnati ad aggiungere o sottrarre particolari che ritengono rilevanti, al
fine di produrre a loro volta una narrazione senza chiaroscuri, dove tutto dev'essere semplice e coerente su dove sta il bene e dove
sta il male. Testimonianze già raccolte dalle Ong
occidentali, dal governo curdo, dalle Nazioni Unite e
che ciononostante, in questa forma schietta, non hanno mai raggiunto le pagine
dei nostri quotidiani: le popolazioni dell'Occidente devono a loro volta
restare all'oscuro, percepire l'Iraq come un mondo incomprensibile da cui
emerge soltanto una barbarie incontrollata, che può giustificare
imperscrutabili tempistiche di guerra.
Le testimonianze di questi
profughi raccolte dai poteri locali e internazionali, con mezzi ben più potenti
e capillari di qualsiasi organo d'informazione indipendente, saranno filtrate
da molteplici interessi e dalle coscienze sporche di centinaia di istituzioni,
prima di finire sul tavolo di qualche ricercatore isolato e lontano, magari a
sua volta preoccupato – come spesso accade – di non urtare questa fazione o
quel governo. Con il tempo, l'inquinamento dei fatti e la loro organizzazione
storico-concettuale, funzionale a questa o a quella narrazione della storia,
prevarrà. La verità sulle conquiste dello stato islamico rimarrà per lo più
sepolta nei giorni caotici dell'estate
Appare chiaro – né sussiste
contraddizione – che fu entrambe le cose; e a farne le spese furono queste
persone, obbligate a vivere in tende o baracche con cinquanta o con meno dieci
gradi, vittime dei razionamenti alimentari, delle paludi di fango e del vuoto
di giornate vissute negli spazi aperti di cieli e montagne che paiono loro,
tuttavia, prigioni. Sono tutti, senza quasi eccezione, impazienti di prendere
una qualsiasi barca per l'Europa, una qualsiasi via lontano da qui; e non ritengono
rilevante che forse moriranno nell'Egeo, saranno picchiati sotto il filo
spinato macedone o stipati in gabbie dai poliziotti francesi a Calais. Questa
storia se la vogliono lasciare alle spalle a tutti i costi, e a loro poco
cambierà che cosa, un giorno, scriveranno gli storici. “Soltanto il Pkk ci ha aiutati, quando scappammo da Singal”
dice Hussein. Jamal parla
sottovoce, mentre passiamo in una via stretta tra due caravan: “Vorrei che a Singal governassero le Ypg”. Lo
dice con aria circospetta, temendo che qualcuno del personale del campo lo
possa sentire: “Sono gli unici che aiutano le persone per il solo fatto che
sono persone”.
Corrispondenza realizzata per
Radio Onda d'Urto e Infoaut,
con la collaborazione di Stefania
Fortuna
Postato 22nd March 2016 da Davide Grasso