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Shaddadi,
Rojava: vita nella città liberata
La guerra in Siria continua, nonostante il regime e alcuni gruppi di “opposizione”
(Il consiglio nazionale siriano, espressione politica di ciò che resta del
cosiddetto “Free Syrian Army”) pensino di poter decidere le sorti del paese
senza aver distrutto o coinvolto, rispettivamente, le due forze principali del
conflitto siriano: i salafiti di Jabat Al-Nusra e dello stato islamico da un
lato (possibilmente appoggiati in forme indirette da Arabia Saudita, Qatar e
Turchia) e il consiglio siriano democratico espressione delle forze curde,
arabe e cristiane che combattono in Rojava (sostenuto in forme altrettanto
indirette, e ambigue, da Russia e Stati Uniti). Ad Hassake, confine meridionale
del Rojava orientale, i volontari delle Sdf (forze democratiche siriane) e
delle Ypg (unità di protezione popolare) scherzano e fumano scambiandosi
battute su religione e politica nel loro quartier generale, mentre i volti di
Cristina Mogherini e Staffan de Mistura passano in TV senza attrarre più di
tanto la loro attenzione.
Hassake vede ancora la presenza
del regime, con l'appoggio di una milizia cristiana minoritaria, in alcuni
quartieri del centro. Check point con soldati e bandiere siriane delimitano
l'accesso di quelle aree, in contrasto con le enormi bandiere del Kurdistan
(verdi, gialle e rosse) che sventolano nel resto della città, a sottolineare
quale dovrà esserne il futuro. Nelle periferie stormi di bambini si inseguono
tra asfalto e macerie, edifici bombardati e case in costruzione. A sud della
città inizia il deserto, indefinita distesa di arido terriccio e sterpaglie. La
strada per Deir El Zor, roccaforte dell'Is nell'oriente siriano, è
continuamente interrotta da cumuli di terra che obbligano le automobili a
procedere a zig-zag, per rallentarne l'avanzata in prossimità degli
innumerevoli check-point delle Sdf. Considerevoli greggi di pecore intasano
ulteriormente la strada, circondati da gruppetti di pastori con i volti bendati
e lunghi bastoni in mano, in media un adulto ogni tre o quattro bambini. Con il
procedere dei chilometri, l'idioma curdo tende a sparire, se non in bocca alle
Ypg: la popolazione predominante, a sud di Hassake, è araba.
I check-point non si interrompono
fino all'ingresso militarizzato di Shaddadi, ultima conquista delle Ypg ai
danni dell'Is. Negozi chiusi, strade vuote e silenziose, serrande arrugginite e
abbassate, edifici crollati sotto i bombardamenti statunitensi. “Abbiamo dato
noi le coordinate Gps agli americani, durante i combattimenti – ride un
combattente Ypg indicando un compagno – ben presto è arrivato l'aereo, e ha
colpito con precisione”. L'aiuto che ricevono dagli Stati Uniti non è il
massimo, dice, ma è più preciso di un intervento russo: “Quelli, se gli dai le
coordinate, radono al suolo tutto il quartiere”. I compagni tengono a
sottolineare la qualità dell'operazione di tre settimane fa: “Abbiamo
circondato la città di notte, provenendo da due lati. Improvvisamente i
miliziani di Daesh si sono accorti che eravamo entrati e hanno cominciato a
sparare, ma ben presto hanno dovuto morire o arrendersi” racconta Brusk,
originario di Amuda, nel nord del Rojava.
“Ho fatto tutte le operazioni nei
cantoni di Cizire e Kobane; quasi tutti i miei amici sono morti, io sono state
ferito tre volte: al ventre, al collo, alla gamba. In confronto ad altre
operazioni, quella di Shaddadi è stata semplice”. Alcuni dei combattenti
internazionali che hanno preso parte all'assalto dicono che i miliziani, quando
hanno capito di essere in trappola, hanno resistito con disperazione, per poi
nascondersi tra la popolazione: “A volte entravamo nelle case e li trovavamo
appena sbarbati, la barba e il rasoio ancora sul lavandino; difficile valutare
come agire”. “Daesh sta crollando – dice Brusk – ormai il loro morale è a
terra”. Judi, un altro compagno, aggiunge ridendo: “Quando li abbiamo
catturati, gridavano 'non siamo di Daesh!'; “e allora, abbiamo loro chiesto, a
cosa vi servono i kalashnikov?”.
Mervan, sedici anni, ci
accompagna per la città su un mezzo Toyota con il cambio e il volante ricoperti
di finta pelliccia e musica house sparata dall'autoradio a tutto volume. Per le
strade i pochi civili rimasti evitano i contatti con la truppa e rifiutano di
essere fotografati. Donne velate in nero, uomini seduti al sole, ragazzini
timidi e schivi. Mervan e il suo compagno Ager si fermano a comprare bibite e
snacks in un negozietto. Il gestore vende e incassa, ma non mostra cordialità.
Questa gente è curda o araba, chiediamo a Mervan? “Tutti arabi”, risponde.
Sulla questione le versioni sono diverse. C'è chi dice che esista una minoranza
curda a Shaddadi e chi, anche tra le Ypg, lo nega. Non tutti, del resto, sono
bene informati: per molti, questa è soltanto l'ennesima città attraversata.
Certo è che i civili rimasti non superano il centinaio, sebbene alcuni compagni
pretendano di negare anche questo. Altri, invece, raccontano: “Quando abbiamo
preso la città, i miliziani che non avevamo ucciso o catturato sono riusciti a
fuggire grazie a un ammirevole sistema di tunnel da loro costruito, che
conduceva fuori città; poi anche parte della popolazione è partita”.
Un combattente europeo ci
racconta i saccheggi avvenuti dopo la liberazione: “La gente rimasta ha
cominciato a entrare nelle case dei vicini, abbandonate, e a prendersi tutto:
cibo, vestiti, mobili, frigoriferi, materassi. Siamo intervenuti e abbiamo
fatto restituire alcune cose, ma la situazione era fuori controllo, non abbiamo
potuto fare molto”. Difficile leggere la composizione politica di questi
luoghi: in realtà come queste la politicità di ogni narrazione dei fatti, anche
la più banale, è portata all'estremo dai testimoni; nessuno darà mai una
versione minimamente equilibrata. Le Ypg dicono che è stata la popolazione a
chiedere l'intervento delle Sdf, per telefono. “La gente era stremata: non
aveva più niente da mangiare, lo stato islamico era arrivato a requisire le
automobili in cambio di zucchero”. Non è escluso che alcuni abitanti vedano le
Ypg come il male minore anche per ragioni economiche. “La presenza di Daesh non
fa bene all'economia delle città: con tutte le proibizioni che introducono,
molti beni – dalle sigarette in poi – non vengono più venduti”.
Il silenzio di Shaddadi, in ogni
caso, parla della guerra contemporanea come fattore di confinamento e
deportazione, riorganizzazione del “materiale umano” secondo una metafisica da
scaffale del supermercato, dove ogni luogo è deputato a un genere di prodotto –
o identità. La geografia politica è “purificata” dalla guerra e persiste come
fattore di controllo globale. Molti abitanti di Shaddadi se ne sono andati con
l'arrivo dell'Is, e quelli che erano rimasti perché lo appoggiavano se ne sono
andati adesso. Anche chi era rimasto per altri motivi ha paura a restare: come
potranno dimostrare che le loro opinioni politiche sono “sane” agli occhi del
nuovo “conquistatore”? Come sempre in queste situazioni, le differenze si fanno
sottili: nessun esercito, in guerra, è disposto a discutere questioni di lana
caprina, e la gente ha comprensibilmente paura. Un caso diverso è quello di
coloro che hanno attivamente aiutato le Sdf a scovare i miliziani
denunciandoli, conducendo le Ypg nelle loro case (in quanti hanno agito per
sincera volontà di vendetta, in quanti per convenienza?). Il risultato è una
miriade di villaggi e città disabitate, in questa come in tutte le altre
regioni della Siria. Chi manca all'appello potrebbe essere facilmente
rintracciato a Erbil, a Beirut – sulle coste turche dell'Egeo, a Idomeni.
Nel cortile del quartier generale
delle Ypg, che prima ospitava i comandanti dello stato islamico, ragazze e
ragazzi di Ypg e Ypj chiacchierano, giocano, poi vengono radunati ad ascoltare,
seduti, il discorso di promozione ideologica di un loro compagno. “I popoli
arabi e quello turco – spiega – non sono né peggiori, né diversi dai curdi, ma
oppressi e ingannati da stati capitalisti come Daesh, la Turchia, il regime
siriano”. Applausi scroscianti. Judi spiega che qui “ci sono combattenti di
ogni nazionalità: curdi della Siria, dell'Iraq e della Turchia, ma anche
turchi, arabi, iraniani”. Cristiani? “No, sono una fazione meno significativa
dal punto di vista militare”. Sul piazzale stazionano quattro o cinque Ypg
statunitensi, chiediamo loro da dove vengono: “Kansas, Florida...”. Siete
soldati, avete combattuto in Iraq? “Sono stato nell'esercito – dice uno – ma è
la mia prima esperienza all'estero”. Un altro aggiunge: “Ci sono forze speciali
Usa attive nell'area, conducono operazioni anche sul terreno da un paio di
mesi. Ieri hanno conquistato un villaggio”.
Nelle stanze, dove le Ypg-Ypj
dormono sugli stessi materassi che fino a un mese fa ospitavano i coetanei del
califfato, i muri sono ricoperti da scritte e pensieri dei miliziani ora morti
o fuggiti; la maggior parte in lingue incomprensibili, forse idiomi dell'Asia
centrale. “Molti dei miliziani catturati vengono dalla Siria, moltissimi dalla
Turchia, anche dalla Cecenia e dall'Azerbaigian, e dagli Stati Uniti”, dice
Judi. Un Ypg australiano afferma che solo dal suo paese i miliziani dell'Is
possono aggirarsi in 150-200. Continua Judi: “Ci sono anche curdi: l'emiro di
Shaddadi, morto durante il combattimento, era di Suleimaniya”. Nella base, come
nella città, non c'è internet né copertura telefonica, scarseggia l'acqua e si
mangia a base di riso e uova. Le Ypg amano sinceramente questa vita. Non sono
pagate: “Non siamo come i peshmerga del Kurdistan iracheno – dice Judi – noi combattiamo
per il popolo, per l'ideologia”. Quale ideologia? “Il socialismo: quello di
Marx, di Lenin, di Stalin, di Öcalan”. Anche Stalin? “Certo. Tutte le figure del passato socialista sono
controverse, perché hanno commesso l'errore di conservare lo stato. Lo stato –
afferma – è capitalista nella sua essenza”.
Dall'inviato di Radio Onda d'Urto e Infoaut a Shaddadi, Rojava
Postato 4th April 2016 da Davide Grasso