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Dal fronte di Azawi: le Ypg sul cammino di Deir El Zor
A Shaddadi, cento chilometri da Deir
El Zor, gli edifici portano
ancora le insegne nere dell'Is; lungo le strade le targhe dello stato islamico campeggiano sui
lampioni della luce, i cartelli stradali del califfo giacciono sull'asfalto rovesciati. Su una rotonda
spartitraffico la bandiera delle forze siriane democratiche, guidate
dalle Ypg, sventola a mo' di sfregio sopra il simbolo
dei miliziani di Al-Baghdadi. Siamo accompagnati da Gabar, Ypg australiano, e due
compagni curdi. Una piccola strada asfaltata conduce
nel deserto, verso il villaggio di Azawi,
e taglia la Siria in due parti: sul lato sinistro il deserto è territorio di Daesh, su quello destro delle forze democratiche siriane.
Questa regione, subito a nord di Deir El Zor, non è parte del Rojava: area completamente araba, il suo controllo di non
fa parte delle rivendicazioni territoriali del movimento curdo.
“Prenderemo Deir El Zor, Raqqa e Mosul
[le tre roccaforti dello stato islamico, Ndr] e lo
faremo per il bene dell'umanità” spiega un compagno a Shaddadi;
“poi, non appena una costituzione federale sarà approvata per la Siria,
ritireremo tutte le nostre forze in Rojava”.
Il
confine tra Siria liberata e Siria occupata dall'Is
appare come una terra di nessuno, una grande pianura
disabitata, dove è possibile non scorgere nessuna forma di vita per decine di
chilometri. L'auto su cui viaggiamo è costretta a
uscire dalla carreggiata e percorrere spicchi di deserto quando sulla strada
incrociamo la carcassa di un'autobomba. Barricate di terriccio e check-point improvvisati si susseguono quasi ad ogni
chilometro, finendo per essere tutt'uno con l'arido
paesaggio. Una piccola costruzione di cemento ospita, in mezzo al nulla, un
negozietto di generi di prima necessità, circondato da un gregge di pecore. I
combattenti delle Ypg scendono dall'auto per comprare
bevande energetiche e sigarette. Il ragazzino che gliele sporge avrà sette o otto anni. Negli ultimi cinque deve aver visto soltanto
soldati e guerriglieri alternarsi come conquistatori in questa zona disabitata:
regime, Fsa, Al-Qaeda,
stato islamico, Ypg-Ypj. Fino a
un paio di settimane fa, quando l'Is è stato
costretto a retrocedere di alcuni chilometri, era probabilmente impossibile,
per lui e per le donne che ridono imbarazzate a fianco al negozio, vedere
persone dai tratti occidentali arrivare fin qui.
Il
panorama desertico restituisce un senso di apertura
estetica in totale contrasto con l'atmosfera di guerra, in cui colpi di mortaio
possono provenire dai villaggi all'orizzonte, o attacchi di terra da Deir El Zor.
Impossibile non chiedersi come questa linea invisibile sia
considerata dal lato opposto, dai miliziani che magari ci osservano con il
binocolo, incalzati dall'avanzata delle Ypg da nord e
accerchiati dalle Sdf a Raqqa,
in queste ore sotto attacco del Pkk, delle Ybs, dei peshmerga e
dell'esercito di Baghdad anche a Mosul.
Improvvisamente il panorama piatto, dai colori chiari, è rotto dalla presenza
di una duna, su cui avvertiamo una scena surreale: quattro bambini sui quattro
o cinque anni compaiono sulla sua cima, e salutano il nostro veicolo con le due due dita alzate in segno di
vittoria. Cosa vorranno dire? Sono felici del
passaggio delle Ypg, o avrebbero rivolto quel saluto
a qualsiasi miliziano o soldato, perché nati in un mondo in cui gli adulti
rivolgono talvolta quel gesto a veicoli pieni zeppi di armi
e divise? Difficile dirlo.
A cinquanta chilometri da Deir El Zor, compare un piccolo
villaggio di quattro o cinque case disabitate. Le Ypg
ci vengono incontro contente, sebbene l'età di molti di loro sia probabilmente
diversa da quella che chiunque si aspetterebbe. Sono giovanissimi. Non sono
bambini, ma ridono come se lo fossero. Una delle case abbandonate è diventata il loro quartier
generale, tipicamente ricoperta di caricatori, kalashnikov,
granate, teiere e tappeti. Sui tetti, le mitragliatrici sono pronte per l'uso:
gli attacchi dell'Is, ci dicono, avvengono con
regolarità; spesso si tratta di colpi di mortaio – il nemico è a due chilometri – ma non mancano le incursioni suicide con
camion-bomba e gli assalti in piena regola. Non ci sono trincee, né barriere,
muri o sacchi di sabbia: soltanto il deserto separa salafiti
da una parte, compagni dall'altra. In un villaggio su questa linea, poco tempo fa,
uno di questi attacchi si è risolto in un massacro per le Ypg, ci dice un combattente: quaranta morti. Su un
edificio poco distante, una ragazza sorveglia il comando delle Ypj. Una sua compagna ci affida questo messaggio: “Donne in
Europa che amate la vita, venite ad aiutarci in Rojava”.
Bextewar, 53 anni, di Hassake,
nella sua vita ne ha viste di tutti i colori: ha lavorato come mobiliere in
Angola, in Algeria, in Libia, e adesso da tre anni è nelle Ypg.
Su un tetto, spiega a Gabar come i partiti alleati
dell'Unione Sovietica avessero introdotto riforme
secolari in Afghanistan, e come gli Stati Uniti abbiano supportato la creazione
della guerriglia islamista grazie alla quale Osama Bin Laden
ha poi potuto costituire Al-Qaeda, di cui si
fronteggia qui la costola eterodossa, e se possibile più sanguinaria, nata trent'anni dopo. “Noi non desideriamo vendicarci sui nostri
prigionieri, semmai rieducarli” dice. Qualcuno interviene, e non è d'accordo:
“Sarebbe molto più semplice metter loro una pallottola in testa”. Bextewar non si scompone, spiega
con pazienza: “Sono spesso ragazzi di diciotto anni la cui mente è stata
plagiata da idee insane, che meritano la possibilità di conoscere un'altra
vita”. Quale, gli chiediamo? “Una vita nuova, fatta di pace e democrazia, in
cui musulmani, cristiani ed ezidi possano vivere
assieme e rispettarsi l'un l'altro”.
Bextewar si trova qui perché “Ocalan
ha scritto che quando c'è la guerra del popolo, bisogna unirsi ad essa”. Ciham invece è turco, di Istanbul; ha 23 anni, ed è entusiasta per l'esperienza
che ha vissuto a Gezi Park, piazza Taqsim, tre anni fa. “Sono venuto qui
perché sono socialista. È normale, sono
internazionalista. Qui è come la guerra di Spagna, ci sono
i franchisti, gli antifascisti e le brigate
internazionali”. Le Ypg sono una
forza per il confederalismo, dice, un'idea
utile per tutta la Siria. I suoi riferimenti sono Che Guevara,
Lenin, Stalin. Stalin uccideva anche i comunisti, facciamo
notare per sondare la sua reazione; risponde: “È la politica”. “Noi combattiamo
tanto contro Daesh quanto contro il regime siriano:
sono espressione dello stesso sistema” continua; e sul supporto della “comunità
internazionale” afferma: “Non so cosa stiano facendo, so solo che qua vedo
combattenti da tutto il mondo, che vengono e aiutano:
europei, americani, australiani. Loro sono il nostro supporto internazionale,
anzi internazionalista. Gli stati, e in primis gli Stati Uniti, portano avanti
soltanto i loro interessi imperialisti, come la Turchia e l'Italia, ossia gli
altri paesi della Nato”.
Gabar interviene, precisa di esser stato a lungo
nell'esercito australiano; “Ma non è parte della Nato...”,
dice speranzoso Ciham, che si imbarazza quando le sue
aspettative vengono deluse: “Questo non va bene!”. Gabar
allora ammicca: “Le armi della Nato ti piacciono,
però!”, ed entrambi scoppiano a ridere. Gabar non ha
nessuna ragione ideologica per essere al fronte: “Ho visto i massacri dell'Isis in televisione, e mi è bastato”. Ha partecipato a
decine di battaglie, visto la morte da vicino diverse volte e perso già venti
amici, quasi tutti curdi. “Una volta ho dovuto
raccogliere i pezzi di uno di loro, la cui auto era saltata su una mina,
nell'arco di quaranta metri, e metterli in sacchetti di plastica”. Non ha alcun
rispetto per i miliziani dell'Is: “Una volta ne ho
interrogato uno con altre Ypg. Aveva trecento dollari
in tasca, ha detto che ottengono cento dollari per
ogni persona che ammazzano. Non sono idealisti, sono
mercenari”. Gabar e Ciham
sostengono di aver trovato le prove, nelle abitazioni perquisite, di uso di cocaina ed eroina da parte dei loro nemici.
“Quale
religione ammette di violentare e uccidere i bambini?” chiede Gabar, e conclude: “Se ci tengono
a morire per la loro causa, sono qui per aiutarli”. Lui stesso ha perso la
fede, “un tempo credevo in Dio, ora non più”. Bextewar
gli passa un amuleto sottratto a un miliziano caduto,
una catenina con al fondo una chiave, la chiave del paradiso. “Quindi se giro questa compaiono cento vergini?” scherza Gabar, e tutti scoppiano a ridere. Bextewar
dice di non capire gli occidentali che restano senza moglie. I ragazzi vogliono
parlare di mafia e di calcio: “Lucarelli, del Livorno, la curva socialista!”, esclama Ciham.
Ogni tanto i compagni esplodono colpi di mitragliatrice verso il deserto, a
scopo dissuasivo. “Questo tempo nuvoloso sarebbe perfetto per un loro attacco”.
Ciononostante, l'attacco non ha luogo. Lasciamo la truppa mentre gioca a calcio, con le ragazze che si fanno
scherzi usando una scavatrice in quello che potrebbe essere il loro ultimo
giorno. Riprendiamo la via per Shaddadi. Dopo qualche
chilometro, i quattro misteriosi bambini sono ancora nello stesso punto, scesi
appena sotto la duna. Rivolgono ancora, alle Ypg, il
loro enigmatico saluto.
Corrispondenza
per Radio Onda d'Urto e Infoaut dalla regione di Azawi, Siria
Postato 6th April 2016 da Davide Grasso