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Combattenti
arabi contro Daesh: “Vogliamo fare la rivoluzione a Raqqa”
Shervan – nome di fantasia – è un foreign
fighter che giunge dal Nord America, nelle file delle Ypg.
Ha partecipato da pochi giorni all'operazione di Shaddadi,
a sud di Hasakah, e fuma una sigaretta in un piccolo
avamposto militare lungo la strada per Qamishlo. “I
ragazzi curdi sono incredibilmente coraggiosi in
guerra, e a volte ho l'impressione che vogliano morire il prima possibile.
Tutta la loro vita è stata soltanto guerra, e molti di loro hanno già perso in
battaglia tutti gli amici”. Ciò che lo ha scioccato di più, però, è stato
battersi al fianco dei combattenti arabi: “Quelli sono pazzi. Gli vengono in
mente idee pericolosissime, ti guardano con un sorriso inquietante e dicono:
dai, facciamolo!”. Sono diverse migliaia attualmente, anche se difficili da
quantificare con precisione, i combattenti arabi inquadrati nelle forze siriane
democratiche (Sdf), create dalle Ypg;
e indubbiamente i check-point arabi delle Sdf per le strade di Hasakah
trasmettono una certa dinamicità ed energia: spesso non ci sono neanche
uniformi (che invece i curdi portano sempre), bensì
ragazzi in jeans e maglietta, con il volto avvolto dalle kefiah e il kalashnikov in mano.
In una località segreta della
provincia le Sdf hanno una base militare di
ragguardevoli dimensioni. Alcuni centinaia di combattenti sono disposti in
diverse file di fronte a un comandante, sull'attenti, e rispondono alle
improvvise esortazioni con motti di combattimento gridati in coro. Quando
rompono le righe, salutano chi percepiscono come straniero con una miriade di
strette di mano. Tra loro ci sono curdi, ma anche
arabi: si riconoscono, oltre che dai tratti somatici, da saluti come “Tahieti” (benvenuto) o “Habibi”
(in teoria amore mio, ma per estensione “ciao caro”). La cena che offrono è a
base di riso e patatine, con tè zuccheratissimo per
bevanda. Un ragazzo curdo che è con loro ha perso un
piede su una mina a Kobane, ma i suoi compagni dicono
che ora è divenuto un cecchino perfetto. Approfittiamo dell'occasione per
mostrare loro le foto della moschea di Al-Aqsa
scattate a Gerusalemme, e dei martiri palestinesi raffigurati sui muri dei
campi profughi a Betlemme. Ne sono felici, ma quando gli chiediamo cosa pensino
della Palestina non sanno cosa rispondere: “Devi perdonarci, ma siamo gente
povera e ignorante. Daesh ci ha tolto tutto a Shaddadi, persino la televisione. È un anno che siamo fuori
dal mondo: ci hanno riempito la testa soltanto di islam”.
Tanta gente, a Shaddadi, voleva l'arrivo delle Sdf,
dicono: “La gente non ne può più di Daesh. Abbiamo
amici a Deir El Zor, a Raqqa: non vedono l'ora
che arrivino le Sdf” dice Jashar.
Ragazzi sui vent'anni, dicono di conoscersi tutti da
tempo, e del resto la loro città certo non è una metropoli. Appena è stata
liberata hanno volontariamente formato una brigata (i Taboor
contano normalmente una quarantina di persone) dedicandola a un loro amico
martire, Aziz. Tutti musulmani, il loro odio per lo
stato islamico non potrebbe essere più veemente: “Hanno ucciso un sacco di
gente nella nostra città, davvero tanta – dicono con rabbia – e non potevamo
fumare, la gente era molto incazzata per questo,
perché fumare è una cosa che piace molto a noi arabi. Se un vecchio veniva sorpreso
a fumare, veniva umiliato senza neanche rispetto per la sua età” racconta Dib. Tra gli altri elementi che hanno prodotto
frustrazione, spiegano, c'era la tassazione insostenibile, l'obbligo per le
donne di portare la copertura integrale e quello, per gli uomini, di indossare
ridicoli calzoni corti (che secondo Al-Baghdadi
sarebbero più “igienici”).
“Siamo musulmani, ma tutto questo
non è islam” afferma Anas, un terzo combattente, “Daesh vuole palesemente dare una cattiva immagine
dell'islam al mondo”. Quando gli chiediamo cosa pensa degli altri gruppi salafiti, come Jabat Al-Nusra e Ahrar ash-Sham, risponde che sono dei mercenari: “lo fanno per
soldi”. Ciò che i ragazzi vogliono in primo luogo sottolineare sembra essere
l'ipocrisia di Daesh: “Non potevamo fumare e bere, ma
i miliziani bevevano whiskey.
Se solo provavamo a sfiorare la mano di una ragazza venivamo duramente puniti,
mentre loro potevano fare la corte palesemente a tutte le donne, e non facevano
altro che questo”. La vita sotto lo stato islamico, nei loro racconti, è un
continuo di umiliazione e rabbia, e le donne subiscono il massimo
dell'ingiustizia: “Se una famiglia non versa le sue 15.000 sterline siriane
come tassa, i miliziani minacciano la morte, oppure di portare via una donna
dalla famiglia”. Anas, Dib
e Jashar insistono tuttavia più volte su un punto in
particolare: le atrocità sulle donne ezide. “Siamo
stati testimoni di continui stupri, crimini di ogni sorta su ognuna di loro”
raccontano, e sembrano esserne ancora scossi.
Per ciò che riguarda l'intervento
straniero, Jashar dice di aver visto con i suoi occhi
almeno dieci raid aerei russi: “Colpiscono anche i civili, per me sono come Daesh. Invece gli americani sono meglio, perché i loro
bombardamenti sono più precisi”. Le Sdf raggruppano
decine di brigate arabe o miste, riunite sotto piccoli “eserciti” la cui storia
racconta le contraddizioni sociali e politiche della Siria in guerra. Una delle
forze più note (e odiate dai salafiti) è l'esercito
dei rivoluzionari o Jaish Al-Tuwaar,
che in queste ore affronta Jaish Al-Islam,
gruppo siriano del Fronte Islamico (il cui leader politico è stato in questi
giorni a Ginevra a rappresentare l'alto comitato per i negoziati o Hnc), nelle campagne a nord di Aleppo. Formato un anno fa, Jaish Al-Tuwaar è un progetto
militare ambizioso che riunisce arabi, turcomanni e curdi. Una delle componenti arabe del gruppo è Shams al-Shamal, “Il sole del
Nord”, un tempo parte del Free Syrian
Army (Fsa) a nord di
Aleppo; una componente mista araba, curda e cristiana
è Jabat Al-Akrab, accusata
nel 2013 da altre componenti Fsa di celare il
tentativo del Pkk di inserirsi, per suo tramite, nei
loro ranghi.
Vi sono poi i gruppi turcomanni come la “Brigata del sultano Selim”
e la “Brigata Selgiuchide”, noti per essere,
contrariamente ad altre formazioni turcomanne
affiliate al Fronte islamico e quindi all'Hnc,
indipendenti dalla Turchia (e non ospitare combattenti fascisti dei lupi grigi
turchi o militanti fanatici dell'Akp di Erdogan). Jaish Al-Tuwaar non ha mai ricevuto armi e addestramento
statunitense perché si è sempre rifiutato, contrariamente ad altri gruppi, di
combattere unicamente l'Is in questa fase,
continuando ad affrontare anche l'esercito siriano attorno ad Aleppo. Nel
maggio 2015 operava praticamente in tutta la Siria, ma la polarizzazione
dell'ultimo anno tra islamisti e confederali ha
indotto tutte le fazioni Fsa a decidere chiaramente
da che parte stare, se con il Fronte Islamico (vicino al fortissimo gruppo Jabat Al-Nusra, filiazione di Al-Qaeda) o con le Sdf a matrice Ypg. Questa situazione ha condotto Jaish
Al-Tuwaar nelle file Sdf lo
scorso autunno, e per questo quasi tutte le sue forze sono ora concentrate al
nord, per non finire vittima dell'aggressione congiunta delle fazioni del
Fronte Islamico e del governo a sud-ovest.
Un'altra importante, ma molto controversa, componente delle Sdf
– stavolta completamente araba – è Tuwaar Al-Raqqa (“i rivoluzionari di Raqqa”),
che si formò nel 2012 nelle prime fasi dell'insurrezione armata contro il
governo. La particolarità del gruppo, formato da combattenti originari di Raqqa e della sua provincia, è che esso rappresentava una
delle forze più significative contro il regime in città assieme a Jabat Al-Nusra. Nel 2013,
tuttavia, il militante di Al-Nusra Abu Bakr Al-Baghdadi
formò a Raqqa lo stato islamico d'Iraq e Sham (Levante), ossia l'Isis,
chiedendo a tutti i combattenti di Al-Nusra di
sottomettersi al suo progetto. Molti seguirono le sue argomentazioni, secondo
cui l'instaurazione del califfato non doveva più essere rinviata, ma ancora per
diversi mesi il consiglio cittadino formato da tutte le componenti governò la
città, finché Nusra e Tuwaar
Al-Raqqa non insorsero contro le sempre maggiori
pretese dell'Isis; e se Tuwaar
rifiutò di entrare nel consiglio della Sharia di Nusra, fece propria in questa fase una simbologia e una
retorica fortemente caratterizzate dal riferimento all'islam, prima assente (il
gruppo ha rivendicato in diverse fasi un programma non islamista
o addirittura secolare). La formazione si ritirò per ultima dalla città, nel
2014, e si rifugiò a Kobane, dove continuò la lotta
contro l'Is a fianco delle Ypg.
La collaborazione tra Ypg e Tuwaar Al-Raqqa
è continuata nel 2015 ma, in occasione della conquista di Gire Spi (Tel Abyad in arabo) la
scorsa estate, sono iniziati a sorgere i problemi. Tuwaar
Al-Raqqa, ormai entrato nelle Sdf,
ha ottenuto di condurre le operazioni in numerosi villaggi e quartieri arabi e
di amministrarne una parte, inglobando tra l'altro molte tribù locali nei suoi
ranghi e perciò rafforzandosi; tuttavia la forte instabilità dell'area, dovuta
alla ravvivata ostilità tra arabi e curdi in seguito
alla guerra, e alla persistente simpatia di elementi locali per l'Is, ha indotto le Ypg ad attuare
talvolta momentanee evacuazioni di villaggi nell'avanzata verso Raqqa di quest'autunno.
Improvvisamente è emersa una dura presa di posizione di Tuwaar
Al-Raqqa, influenzata soprattutto delle nuove tribù
affiliate al gruppo, che ha prima accusato le Ypg di
deportare le comunità arabe, poi (a seguito di questa controversia) di aver
militarmente isolato o addirittura assediato, a sud di Kobane,
le sue unità a dicembre. Tawaar ha quindi annunciato
il proprio scioglimento a gennaio, infine la ricostituzione e ri-adesione alle Sdf (fatto
confermato a Infoaut e Radio Onda d'Urto da Talal Ali Sulo, loro portavoce),
sebbene in seguito a probabili epurazioni.
Guardato dall'angolatura araba,
lo scenario della Siria è devastato socialmente, prima che militarmente. Le
alleanze politiche e militari sono oggi maggiormente definite di un anno fa,
con le milizie pressate a scegliere l'opzione confederale o quella coranica; tuttavia tali scelte restano sovente fragili, a
causa dello sfondo sociale, di percezione e di recente vissuto proprio dei vari
segmenti della popolazione, sebbene ciò per molti assuma soltanto l'apparenza
di un'incomprensibile intrico di gang contrapposte. Ognuna di queste “gang”, in
realtà, è composta di esseri umani con una comunità, un territorio e una
cultura politica più o meno apprezzabile alle spalle, che sovente porta i segni
di una lunga storia di privazione sociale e oppressione. Quando abbiamo chiesto
a Jashar, Dib e Anas cosa pensino di una Siria federale, hanno risposto di
non sapere neanche cosa volesse dire. Renas, un
ragazzo delle Ypg, gliel'ha spiegato in due parole.
“Ci sembra un'ottima idea, hanno commentato: chi è musulmano potrebbe insegnare
ai suoi figli il corano, chi è cristiano la bibbia”. Chiediamo se conoscono il
pensiero di Ocalan: “Lo avevamo sentito nominare, ma
non avevamo buone informazioni. Ora ci hanno detto che crede nell'umanità e
nella libertà, e questo ci piace”. Dopo la liberazione di Shaddadi
non hanno avuto ancora la possibilità di combattere, ma dicono di essere
impazienti di trovarsi al fronte. “Vogliamo fare una rivoluzione a Raqqa!” affermano con rabbia. Chissà cosa diranno, nella comune
lingua, a coetanei altrettanto arrabbiati che troveranno laggiù.
Corrispondenza per Infoaut e Radio Onda d'Urto da Hasakah,
Rojava
Postato 26th April 2016 da Davide Grasso