2016-05-07-QT_kurdistan_morte
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Nel giorno dei funerali per i caduti della battaglia di Qamishlo,
che per quattro giorni (20-23 aprile) ha opposto le forze del Rojava all'esercito del regime siriano e alle milizie ad esso alleate, il cimitero militare della città fatica a
contenere la folla. In migliaia procedono lungo la strada attraverso svariati
controlli e perquisizioni da parte degli Asaysh, le
forze di protezione interna dell'autonomia democratica che hanno sostenuto il
maggior numero di perdite. Le persone cercano di arrivare il più possibile
vicino al palco, dove si succedono gli interventi. Esponenti delle istituzioni
cantonali, Asaysh, Ypg e Ypj si rivolgono alla folla in un clima teso e raccolto,
dove nel silenzio rotto soltanto dal ritorno amplificato delle loro parole
sventolano le bandiere del Pyd e del partito
comunista, dell'unione giovanile del Rojava e delle
unità di protezione popolare. Sui tetti, sugli archi che fanno da ingresso, sul
monumento ai caduti, decine di Asaysh,
nelle loro caratteristiche uniformi marroni, scrutano con attenzione ogni
movimento nella folla, la sicura dei kalashnikov già
abbassata: durante gli scontri con il regime un attentatore suicida dello stato
islamico è riuscito a superare i check-point e si è
fatto esplodere nel sud della città, facendo diversi morti.
Gli oratori indirizzano agli astanti gravi moniti sull'importanza del
sacrificio dei caduti “nella lotta contro la dittatura del regime terrorista di
Bashar Al-Assad”,
ricordando che la realizzazione della democrazia
confederale in Siria diviene un compito ancora più irrinunciabile dopo la loro
morte, che entra negli onori della storia del Kurdistan e della sua battaglia
per la libertà. Il cimitero delle Ypg è uno dei
luoghi più belli di Qamishlo. Le tombe, tutte in
fila, tutte uguali, tutte realizzate in marmo, sono
ricoperte da fiori colorati e identificano chi vi è seppellito con una foto su
sfondo giallo, accanto al simbolo delle Ypg; il nome
di battaglia e la città di provenienza completano l'informazione sul caduto. In
questa occasione, come in quella di alcune settimane
fa – quando diverse Ypg della città erano state
vittima di un'esplosione a Shaddadi – le famiglie
degli shehid (i martiri) si riuniscono
attorno alla sepoltura del caro scomparso, che nella maggior parte dei casi è
una figlia o un figlio. Una miriade di anziane
signore, con i colorati foulard della tradizione curda
a coprire i capelli, si siedono sui bordi delle tombe e osservano le foto dei
propri caduti, ora in silenzio, ora parlando della persona scomparsa con gli
amici e i familiari che si stringono loro attorno.
“Shehid na mirin!” grida la folla ammassata sotto il palco più volte,
al termine del discorso del comandante delle Ypg. “I martiri non muoiono”: strano concetto. Il paradosso
della sopravvivenza dopo la morte non è ammantato, in Rojava, del fervore religioso che caratterizza gran parte
della Siria, dell'Iraq, della Palestina. Molti tra coloro che si aggirano per
le cerimonie funebri sono credenti, ma la filosofia del
martirio – che scatena in Kurdistan immenso entusiasmo sociale – ha un legame tutt'altro che stretto con la religione, benché ciò possa
apparire inusuale. Il sacrificio dei giovani in questi anni di guerra non è
valorizzato in relazione al valore assoluto della
sottomissione a Dio, pur ritenuto importante da molti, ma in rapporto a una
sorta di valore sociale del dono, che comprende anche il dono della propria
vita. Chiunque sia stato in Kurdistan sa quanto sia
radicata questa cultura in queste terre, secondo una profondissima, atavica
eredità regionale. Le persone fermano per strada gli sconosciuti per posare
loro in mano il pane appena sfornato o una mela, anche senza necessità di ulteriore comunicazione. Questi gesti sono ammantati di
un senso che non potremmo facilmente decifrare entro i
codici cui siamo abituati.
Mentre sul palco di Qamishlo si susseguono le parole degli oratori, rimbombano
dietro di loro le esplosioni di Nusaybin, la città
oltre il confine turco a poche centinaia di metri di distanza, che fa da sfondo
alla cerimonia con le sue macabre colonne di fumo. Là altri giovani affrontano
la morte ogni giorno per difendere l'autonomia dichiarata dai loro quartieri
contro un altro esercito, quello turco. Li abbiamo
visti bere il tè e mangiare caramelle attorno al fuoco, i ragazzi del Bakur, e affermare sorridendo che saranno tutti ammazzati.
Le Yps del Bakur, come le Ypg del Rojava, affrontano il
nemico perché è ciò che si deve fare, non in ottemperanza a
un'autorità impersonale o disincarnata, ma perché lo stabilisce il debito che
ciascuno ha contratto con la comunità. Se una certa organizzazione della
società è ciò contro cui il militante curdo si ribella, infatti, la società come tale è ciò cui
egli, o ella, obbedisce. Questo carattere sociale del martirio è iscritto anche
nelle leggi rivoluzionarie: non è ammesso il reclutamento nelle forze armate
cantonali del Desteya Parastin,
di recente creazione (le Ypg sono forze volontarie)
dei giovani nella cui famiglia ci sia stato già un
martire, o dei figli unici; e nelle cooperative del Tev
Dem non è ammessa l'iscrizione di soci il cui figlio
o la cui figlia abbiano abbandonato le Ypj o le Ypg, atto considerato espressione di inaccettabile egoismo,
quasi la propria vita valesse più di quella degli altri.
Molti combattenti delle Ypg, a vent'anni, hanno già perso una ventina di
amici stretti, in molti casi caduti al loro fianco. La prolungata
sopravvivenza alla guerra provoca sensi di colpa, poco importa quanto assurdi. C'è chi descrive qualcosa che approssima uno
strano desiderio di morte tra i ragazzi al fronte: alcuni camminano oltre le
trincee esponendo i propri corpi ai colpi del nemico, gridando verso di esso sarcastiche esortazioni, quasi la prospettiva di vivere
non fosse in sé preferibile a quella di morire. Tutti onorano chi ha trovato il
martirio, ma piangerne il destino è considerato sbagliato. I combattenti vedono
i volti dei loro amici comparire in televisione nella quotidiana lista dei
caduti e, raccontano testimoni, hanno una comprensibile reazione di dolore, che
immediatamente reprimono. Trattengono le lacrime ed esclamano: “Bash!” (“bene”), mostrandosi felici per l'amico che ha
avuto l'onore di morire in battaglia. C'è chi racconta di aver visto
combattenti in preda a crisi simili a sfoghi epilettici a causa dell'accumulata
tensione emotiva, all'inumano autocontrollo nervoso mantenuto per mesi, o per
anni.
È straniante vedere il sorriso spalancarsi sulla bocca della sorella di un
caduto, quando parla di quello che noi chiameremmo un lutto, e che qui sembra
l'evento attraverso cui tutti i cari del defunto sono stati, grazie al gesto di immolazione, baciati da una sorta di eternità politica.
Alcune famiglie offrono agli ospiti bomboniere avvolte
nella fotografia del figlio che ha trovato la morte in battaglia, rappresentato
sorridente, in uniforme, accanto all'usuale bandierina gialla. La reazione
delle Ypg al fronte, quando qualcuno mostra loro uno
tra le miriadi di santini su cui è raffigurato un coetaneo morto nelle
formazioni rivoluzionarie in Siria, in Iraq o in Turchia è immediata: la figura
viene passata di mano in mano, mentre tutti osservano
con aria grave il volto dello sconosciuto, annuendo in un'enigmatica forma di
approvazione del suo destino. Alcuni di loro, sembrerebbe, storcerebbero il
naso a immaginarsi vivi al termine della guerra,
anziché rappresentati su analoghe figurine, o sui manifesti che campeggiano
all'ingresso di ogni città, raffiguranti i volti di coloro che sono morti in
difesa delle sue strade.
Il flash che si prova nel vedere quel gesto, quella circolazione di immagini, che a un italiano non può non ricordare il
passaggio di mano in mano, da ragazzini, delle figurine dei calciatori,
illumina molto più di quanto si potrebbe pensare sul retroterra psicologico
della cultura del martirio. Benché i giovani italiani, che vorrebbero
diventare calciatori, e quelli curdi, che vogliono
divenire martiri, vivano vite completamente diverse, si tratta di esseri umani
del tutto simili, che una distribuzione demografica casuale ha collocato su
fronti interiori diversi. Per un ragazzo curdo morire
in battaglia è fonte sicura di approvazione sociale,
non del tutto diversamente da ciò che la celebrità televisiva rappresenta per
il suo coetaneo europeo, nelle società pacifiche e compiutamente spettacolari
dell'occidente. Nell'uno e nell'altro caso una sorta di trasfigurazione è
necessaria alla soddisfazione delle proprie pulsioni narcisistiche, che non
sono, come si crede, espressione di “presunzione” (sebbene
questo equivoco sia radicato) ma della necessità – che è di ciascuno – di
ottenere conferme sociali circa il proprio valore; e che la soddisfazione delle
pulsioni narcisistiche in Kurdistan preveda la morte, e in Europa o in America
la malinconia di un desiderio indefinitamente frustrato di celebrità, non
toglie dignità, di per sé, né all'una né all'altra ricerca di realizzazione o
pienezza dell'essere umano.
Ciò che impressiona, semmai, è la distribuzione coloniale del lavoro
narcisistico, la gerarchia del valore delle vite non in rapporto ai meriti e
alle gesta, ma agli interessi globali del capitale. La
via mediorientale alla conquista della stima sociale conserva non a caso il
paradosso per cui il soggetto non potrà godere del
premio dell'autostima concreta, che sarà (per ciò che ci viene venduto
erroneamente come un mancato effetto di secolarizzazione) riservato
esclusivamente alla sua immagine. Il narcisismo spettacolare ha ancora
questo di diverso, che l'individuo pretende di essere tanto rappresentazione
quanto spettatore di sé, ed avere quindi esperienza sensibile (e per
questa via edonistica: “secolarizzata” sì, ma da uno sbilanciamento di poteri
mondiali) della sua riuscita. Questo nonostante permanga
l'invidia malinconica dell'attore per l'eroe di cui indossa i panni, poiché la
trascendenza riconosciuta ai martiri, purgata di ogni elemento individualistico
e materiale, è appagata da un maggiore riconoscimento sociale, che è,
contrariamente a quello rarefatto dello spettacolo, compiutamente terrestre,
socialmente materiale e fino in fondo secolare; e questo sebbene, per uno
strano movimento logico di questo paradosso, soltanto per il martire la
trasfigurazione del corpo in immagine sia completa: soltanto l'immagine pura,
infatti – la “vera” immagine – non può vedere stessa.
Condannare unilateralmente i desideri delle persone, la loro volontà di
eccellere e di ottenere approvazione, così come quella di combattere o donare
agli altri la propria vita, è espressione della sterilità infruttuosa che caratterizza
la confusione, purtroppo pervasiva, tra attitudine
critica e moralismo. Semmai, per porre in essere una realtà in cui nessuno
debba cercare la propria fine per realizzare sé
stesso, e tutti possano giocare serenamente tanto con il proprio sé quanto con
la sua rappresentazione, dovremmo rivolgere la critica contro ciò che impone
alle persone questo comune, sebbene per molti versi incomparabile, destino –
anziché alle persone che da esso sono diversamente schiacciate; e ciò prevede,
sia detto di passaggio, tanto il desiderio di conformarsi a un'immagine
positiva di sé, quanto la concreta possibilità della morte. Le popolazioni del
medio oriente sono oggi, nel framework
capitalistico, variabili in eccesso, esseri animati che camminano su risorse
energetiche, che per questo possono complicare, con la loro vita foriera di
contraddizioni, il funzionamento della macchina globale.
Il capitale percepisce sé stesso come organizzazione
complessiva della vita, da Lima a Taipei, da Cape Town a Shangai; e Baghdad e
Aleppo, o Damasco e Qamishlo, sono in questa
rappresentazione dossi fastidiosi lungo il cammino dei flussi del valore, più
che luoghi dotati di intrinseca dignità. Il martirio appare a
un tempo addizione e sottrazione alla contabilità del nemico: imposizione senza
ritorno di una singolare irripetibilità.
Corrispondenza realizzata per Radio Onda d'Urto e Infoaut
a Qamishlo, Rojava
Postato 7th May 2016 da Davide Grasso