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Quando chiediamo a Raperin, insegnante nei nuovi istituti d'istruzione a Qamishlo, Rojava, se gli studenti
possono baciarsi a scuola, reagisce visibilmente turbata: “Certo che no!”; e Sorgur, che insegna all'accademia rivoluzionaria “Mesopotamia”, fatica addirittura a comprendere la domanda:
“Qui si viene per studiare; se poi due persone si piacciono, quando escono da
qui possono sposarsi”. In una caserma delle Ypg ad Hasakah
i combattenti guardano film americani scorrere sugli schermi delle TV curde, le cui scene sono epurate dai baci tra i
protagonisti; e se si fa notare che l'attrice è di bell'aspetto,
tutti restano in silenzio, imbarazzati. “Voi occidentali sovente non credete in
Dio, e non capisco perché. Se non c'è Dio, allora… cosa c'è?” chiede irritata Sarja, 25 anni di Amuda, e aggiunge: “Non credete che noi curde,
soltanto perché sosteniamo la rivoluzione, non siamo musulmane: non beviamo, non fumiamo, non commettiamo adulterio e grazie a
Dio non mangiamo carne di maiale, perché si può morire di quella roba”. Amara,
sul fronte di Shaddadi, inizia a raccontare che da
musulmana, dopo aver affrontato Daesh, qualcosa è
cambiato in lei; ma di fronte ad ulteriori domande
sembra spaventarsi (o non si fida del suo non perfetto inglese) e preferisce
cambiare argomento.
Chiedere a qualcuno se crede in Dio in Siria è un
po' come chiederlo negli Stati Uniti: tutti rispondono di sì, con la differenza
che qui ci credono davvero. L'alternativa all'Islam,
con poche eccezioni, è considerata il cristianesimo, quale religione
minoritaria, vagamente barbarica e soprattutto antiquata (a causa del pasticcio
teologico trinitario, che il profeta si ritiene abbia superato con la
semplicità e l'eleganza di un'equazione russelliana),
e la professione di ateismo è accolta con l'imbarazzo comprensivo di chi non
farebbe notare le difficoltà di comprendonio a un ritardato mentale. Tuttavia,
più che il dogma teologico, ciò che segnala il potere sociale della fede sono l'imperante terrore del corpo e la sessuofobia. Massud, di Amuda,
racconta: “Avrei avuto le mie occasioni, ma non ho mai fatto sesso, non essendo
sposato. La differenza tra uomo e animale, dopotutto, è che l'uomo è capace di
controllarsi”. Se controllarsi significa dover circoscrivere
al matrimonio la vita sessuale, facciamo notare, si tratterebbe di assimilare
ad animali miliardi di persone, compreso il suo interlocutore: “Per carità.
Capisco si possano commettere degli errori in gioventù. L'importante poi è
maturare”.
L'ateismo è estremamente minoritario tra la
popolazione del Rojava, sebbene non sia infrequente
tra i militanti dell'organizzazione politica; e, ciononostante, la linea del
partito – che non si sottrae a questa sfida culturale, né potrebbe farlo – non
sostiene un vero e proprio ateismo (vale tanto per il Pyd,
quanto per il Pkk). Secondo queste organizzazioni,
che fanno proprio il pensiero del comune riferimento teorico, Abdullah Ocalan, Dio esiste, ed è
tutto e in ogni cosa; di conseguenza, in ogni cosa c'è
Dio. Sono stati i sumeri che, dividendo
la società in classi, creando lo stato e sottomettendo le donne
all'uomo, hanno avuto la necessità di trasporre anche nella scienza e nella
religione le loro astrazioni gerarchiche, inventando tanto la distinzione “positivistica” (anacronismo terminologico volontario) tra
soggetto e oggetto, quanto quella tra mondo e Dio. Ciò che il partito dice alla
popolazione, in Rojava, sono quindi due cose: la
prima è che tutte le fedi non soltanto possono, ma devono convivere, poiché
hanno una radice comune, sebbene recisa dalla ramificazione avvenuta dopo
l'origine sumera del dominio; la seconda è che tutte
le persone davvero religiose dovrebbero tornare a tale radice comune,
poiché la radice possiede senz'altro più verità del
frutto ambivalente di una successiva deviazione.
Il partito suggerisce quindi in questa forma, alle persone che si rendono
più coinvolte nelle istituzioni rivoluzionarie, la sostanziale adozione di una
concezione panteistica dell'universo. Essa è presentata come a
un tempo profonda e naif, ma nel suo fondo teologico è tutt'altro che compatibile con islam, cristianesimo ed ezidismo, e rappresenta nei fatti una facile anticamera
dell'ateismo, o una sorgente di notevole indebolimento per le pretese di verità
dei libri sacri. Muhammad Al-Qadri,
arabo e musulmano, co-presidente del ministero per
gli affari religiosi nel consiglio esecutivo del cantone di Cizire,
proviene da “una famiglia imparentata con il califfo Ali” ed è stato scelto per
questo compito per il fatto di possedere “una personalità favorevole
all'autogoverno, che è la chiave per instaurare la pacifica convivenza in tutto
l'oriente”. Ocalan, dice, è un pensatore mistico. “La
sua filosofia ha una base fortemente religiosa, che
chiama all'unità dell'esistenza, alla fratellanza di tutti gli esseri umani e
alla coesistenza pacifica”. Al-Qadri ha scritto anche
un saggio in cui approfondisce la teoria centrale di Ocalan in tema di politica religiosa, ossia la divisione
tra potere religioso e potere pubblico: distinzione assente, a ben vedere,
dalla tradizione islamica, la cui originalità storica consiste proprio nella
sua negazione.
La questione è controversa per ragioni storiche e politiche, ma sotto il
profilo teologico non sembrano esserci molte scappatoie: nell'islam, religione
rivelata, tutto ciò che è scritto nel corano è parola di Dio; e tale parola
prese a suo tempo (con inevitabile effetto eterno) posizione contro talune
forme di organizzazione politica dei clan dell'Arabia
di allora, intervenendo su svariate materie istituzionali, giuridiche e legate
all'idea di giustizia. Questo insieme di indicazioni
politiche divine costituiscono il cuore della sharia,
la legge coranica, che non è – come si tende a
credere – un punto di riferimento dell'islam radicale, ma dell'islam in
generale, di esso come fenomeno sociale: le comunità di villaggio e di
quartiere, in Siria, vivono da sempre secondo queste regole, e diffidano delle
leggi dello stato, cui si sostituisce sovente l'autorevolezza dei notabili
locali, che spesso coincidono con coloro che sanno leggere, e quindi conoscono
direttamente cosa è scritto nel corano. Essendo insomma basato sull'ignoranza,
il potere della sharia è potentissimo e
fragile a un tempo; e, rispetto a questo, la
rivoluzione gioca le sue carte assumendo un doppio posizionamento critico.
Figure come Muhammed Al-Qadri
rappresentano l'elemento di intesa sociale che ha reso
possibile l'architettura istituzionale del Rojava
dopo il 2012, anno della rivoluzione: “la violenza di Daesh
impone a tutti i musulmani di tornare alla verità originaria della religione, e
criticare non solo questa violenza, ma quella di tutti i re e gli stati che
hanno usato l'islam, nella storia, per finalità politiche”. La critica
all'islamismo tenta di insinuarsi nella diffidenza verso i poteri separati
dalle comunità claniche, adombrando il sospetto che
l'islam sociale sia sempre stato tradito dagli stati, e in ultimo anche dallo stato islamico. Non fila così liscio: lo stato islamico fa in molti casi propria una concezione molto simile,
restituendo ai consigli dei locali conoscitori della sharia
i poteri che prima erano loro stati “usurpati” dagli stati iracheno, siriano o
libico (i cui codici penali furono edificati in epoca coloniale su modello
europeo). Per questo si rende necessario il secondo movimento critico, quello
delle forze politiche (Pyd, Tev
Dem) che intendono proteggere e spingere oltre la
rivoluzione: le stesse tradizioni islamica e cristiana vengono
criticate perchè influenzate da schemi di dominio “post-sumerici”
che dovrebbero essere estranei alla religione pura, al panteismo “mistico” che
fu all'origine di tutte loro.
Può sembrare una teoria astrusa, ma non è tale (ad est dei
Dardanelli). Il movimento curdo assume una
posizione se possibile più purista e “rivolta all'origine” del salafismo dell'Is o di Al-Nusra, che rivendicano il
ritorno all'islam delle origini sul piano statuale (primi quattro califfi, VII
sec. dc), ma non il ritorno alle origini della religiosità
mediorientale. Indubbiamente l'idea salafita è più
semplice e miete consensi come se piovesse, ma occorre considerare che, in
queste regioni, la novità è per lo più concepita come
deviazione, e l'origine come verità; i compagni non fanno che far propria
un'astuzia politica, mettendo “all'inizio” ciò che Marx metteva alla fine, e
presentandosi in questo modo come più realisti del re o, in qualche modo, più
divini del libro. Con questo impianto possono
procedere materialmente a una politica in materia religiosa che va ben oltre
gli slogan ecumenici. Le istituzioni rivoluzionarie del Rojava
non mettono in discussione il ruolo sociale della legge coranica,
ma tentano da un lato di sottrarre la sua interpretazione all'arbitrio del
notabilato locale, rendendola norma giuridica definita, dall'altro introducono
talvolta norme in palese contrasto con il dettato coranico,
come il divieto del matrimonio con minori o quello della poligamia.
Proprio su questa materia – ciò che più è importante – si misura tutto il
peso, sociale come militare, dell'organizzazione rivoluzionaria. Nonostante
siano il nerbo sociale e popolare della rivoluzione, le
comuni di quartiere e di villaggio del Rojava
non hanno diritto di interferenza su queste materie, regolate dal consiglio legislativo
(cioè dalle istituzioni che ricalcano di fatto il modello statale). “Se oggi
lasciassimo libertà al popolo del Rojava di decidere
sulla poligamia, è molto probabile che la maggioranza delle comuni la
renderebbe nuovamente legittima, e anche molte donne
ne vorrebbero la reintroduzione”: l'azione educativa del partito, spiegano le
compagne dell'organizzazione, deve porre le basi per una reale autonomia
popolare dalle logiche del dominio. I limiti posti dalle istituzioni cantonali
alla legge coranica sono uno dei luoghi in cui si
pone un limite deciso alla democrazia diretta e si impone
un livello verticale di forzatura rivoluzionaria, tanto legislativa quanto
formativa; e non è casuale che questa contraddizione emerga sul terreno
specifico del patriarcato (poligamia, delitto d'onore) e della sessualità
(minori, adulterio, ecc.).
Questo è infatti anzitutto il terreno che
qualcuno, un tempo, ha voluto sterilizzare nella parola di Dio. Il partito
agisce con estrema cautela, consapevole che quelli di battaglia non sono gli
unici campi minati, e che le retrovie sociali non sono meno importanti della
linea del fronte. Le ragazze vanno a quella linea da sole e restano lontane
dalla famiglia a combattere con coetanei maschi, dando la consolatoria
ma erronea impressione che le rivoluzioni siano miracoli, mentre
affrontano duri conflitti in famiglia e dormono in edifici separati da quelli
degli uomini, così come marciano in file separate dai maschi le ragazzine
durante le lunghe camminate per Ocalan o le frequenti
manifestazioni cittadine. Mai come sul campo di battaglia siriano il corpo
delle donne ricorda, se ce fosse bisogno, di essere
il campo di battaglia. La persistenza di una separazione fisica almeno
formale rispetto a quello maschile (nell'organizzazione militare e logistica
come nella critica diffusa, fatta propria anche dall'organizzazione, dei
costumi sessuali dell'occidente) sembra individuare un vertiginoso punto di equilibrio tra strascichi di segregazione e forme
rivoluzionarie di autonomia femminile. In questa intersezione
indimostrabile, indicibile e segreta, sembra quasi che uomini e donne, padri e
figlie, musulmani e atei abbiano trovato il modo di non dover ancora, in Rojava, nominare ad alta voce il loro reciproco “peccato” –
il più inconfessabile dei compromessi.
Corrispondenza per Radio Onda d'Urto e Infoaut da
Qamishlo, Rojava
Postato 22nd May 2016 da Davide Grasso