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Oltre la strada che costeggia la vecchia stazione ferroviaria di Qamishlo piccole stradine polverose introducono al
quartiere Anterir, dove centinaia di bimbi corrono
tra le case mentre le mamme velate discutono sedute
sugli scalini degli ingressi. Per queste vie in cui è impossibile non sentirsi
degli intrusi, il concetto di “povertà” con cui talvolta si descrivono le
periferie occidentali sembra essere sfidato e condotto ai propri limiti. Gli
abiti, i comportamenti, la percezione del tempo e la semplicità disadorna degli edifici, costituiti talvolta da mere pile di
mattoni in cotto, disegnano un contesto in cui la percezione della povertà è in
verità debole, poiché non si ha notizia, se non “televisiva” e astratta, di ciò
che in altre parti del mondo si rappresenta come il suo contrario. Rozanne, militante impegnata nell'educazione politica dei
protagonisti popolari della rivoluzione, non esita a confessare che questa condizione sociale è tutt'altro
che negativa secondo il movimento rivoluzionario; e non perché da essa ci si
aspetti un'insubordinazione su presupposti materiali, ma perché – dice – è il
ricettacolo di stili di vita che preservano valori utili ala trasformazione.
“Qui c'è la vita semplice” non si stancano di ripetere tutti in Rojava; e, aggiungono molti. “la preferiamo a quella
dell'Europa”.
Rozanne si spinge ad
affermare che la rivoluzione non deve costruire una “società nuova”, ma
vivificare elementi sociali, culturali e valoriali che affondano le proprie
radici in una cultura altra, talmente antica ed estranea al mondo contemporaneo
da esser stata rimossa e dimenticata: è la “società etica” o “naturale” che per
il Pkk e il Pyd esisteva
prima della comparsa dello stato, anteriormente alla
civilizzazione sumera, e le cui persistenti tracce
culturali il dominio capitalista non è mai riuscito ad annichilire. “La
condivisione delle responsabilità sociali, gli sforzi nella collaborazione per
i bisogni collettivi erano il fulcro del vivere in comune nelle società prestatuali” aggiunge la compagna, e questi tratti sono
ancora presenti “nelle relazioni etiche che si sviluppano nelle comunità claniche, nelle tribù dei villaggi, nelle consuetudini
presenti nei legami urbani di quartiere, in certe aree della montagna”.
Ciononostante “non si tratta di restaurare la società naturale, ma di
sostituire alla modernità capitalista una modernità democratica”,
dove con questo termine (delle cui ambiguità il movimento curdo
è consapevole in modo strategico) si deve intendere la dissoluzione progressiva
del capitalismo e dello stato, in favore di una prospettiva comunistica fondata
sul recupero dell'autogoverno collettivo dei bisogni sociali.
Qual è, nel concreto del percorso politico in corso nel nord della Siria,
il processo economico verso un simile orizzonte? In diverse regioni del medio
oriente, e in particolare nel Kurdistan, la cultura clanica
preserva effettivamente una miriade di organismi
sociali micro-comunistici che, se non possono
rappresentare l'ossatura complessiva della “società democratica”, costituiscono
secondo i compagni una buona base culturale di partenza. Maria, co-presidente della comune di Anterir (una delle circa cento comuni di Qamishlo) va in crisi quando, in un'intervista, un compagno
europeo le chiede cosa siano per lei le “relazioni etiche”; non sa cosa
significhi la parola, come molte delle persone che nei quartieri popolari di Qamishlo portano avanti delle cose senza necessariamente
sapere come si chiamino nella “teoria del partito”. Se
i microcosmi popolari apprendono indubbiamente, infatti, l'ideologia dei libri
di Öcalan grazie all'azione infaticabile di compagne come Rozanne,
tale ideologia è stata messa nero su bianco in carcere, dal presidente,
anzitutto tentando di scovare forze per la trasformazione insite
nell'esistente, ossia nei saperi e nella cultura profonda degli strati popolari
del medio oriente.
Mahdad affianca Maria
alla presidenza della comune di Anterir.
Offre il tè in un frutteto in cui pascolano mucche e pecorelle, e si aggirano
oche e galline in mezzo a gatti e cani, accanto al piccolo orto con diverse
coltivazioni. Alcune donne siedono e scherzano, uomini si aggregano attorno
allo zucchero e alle tazzine, stormi di bambini corrono qua e là oltre il
cancello: in Europa sarebbe vicinato, ma qui è famiglia allargata, densa di
relazioni invisibili e sedimentate in culture secolari – verosimilmente dure da
scalfire – la cui riproduzione si basa anzitutto sulla soddisfazione comune dei
bisogni, di cui chi detiene l'autorità clanica porta
la responsabilità. Con riferimento alla “vita semplice” magnificata da tanti curdi – anche nelle Ypg – Mahdad afferma di preferire una povertà che rende liberi a una ricchezza “falsa”, che rende schiavi; e Medya, una compagna che a sua volta si prodiga per il perwerde (“l'educazione”), racconta di un'altra
regione del Kurdistan, dove un vecchio che conobbe si rifiutò di scendere dalla
montagna per essere curato nell'ospedale della città: “Non condurmi dove i
serpenti mangiano i propri figli – disse – là non esistono che padroni e i loro
schiavi”.
La costruzione di un Rojava in cui la cura
collettiva delle responsabilità dovrà fondare l'intero sistema
è affidata al movimento per la società democratica o Tev
Dem, fondato dal Pyd con la
collaborazione graduale di decine di altre organizzazione e partiti. Dilsha, originaria di Afrin, fa parte del comitato economico del Tev Dem; per lei la condizione
attuale del Rojava è frutto tanto delle sopravvivenze
comunitarie quanto dell'azione nefasta del capitalismo dello stato-nazione: “Lo
stato siriano ha lasciato di proposito il Rojava nel
sottosviluppo e nell'ignoranza. L'economia è stata organizzata per i soli
bisogni separati dello stato e di altre persone, con
la monocoltura del frumento e l'estrazione del petrolio per destinazioni
esclusivamente esterne alla nostra regione”. Alcuni valori che animano la vita
delle famiglie di Maria e Mahdad sono frutto di una
resistenza dell'essere umano al dominio del mercato e all'alienazione dalla
natura, ma il “sottosviluppo” in rapporto ai criteri dell'economia moderna è dovuto all'instaurazione di rapporti coloniali di
espropriazione della ricchezza.
Migliorare la condizione economica del Rojava
attraverso forme etiche, piuttosto che capitalistiche o statuali, è la sfida
ambiziosa cui vuole far fronte il Tev Dem: “Vogliamo iniziare dalle comuni
attraverso la condivisione, la conoscenza reciproca e l'amicizia – spiega Dilsha – e dare il via a un sistema di cooperative
attraverso cui possa esprimersi la forza della società”. Cita l'esempio dei 150
dunam di alberi da fusto
piantati dalle cooperative promosse dal Tev Dem in ogni provincia del cantone, della prima produzione
di olio, soia e semi di girasole, fino alle fabbriche di sapone per piatti,
nylon, yogurt, impacchettamento di prodotti agricoli,
pollai, erbe, e la produzione di ortaggi con un sistema di serre a Serekaniye “che coinvolge 10.000 persone”. Sono tutte forme
di iniziativa “in cui i proprietari dell'attività
economica sono le persone che lavorano, non una sola persona”. Il ricavato
della vendita dei prodotti, spiega, è destinato al 45% ai soci lavoratori, al
35% a un fondo comune per progetti (in cui figurano
anche problemi urgenti dei quartieri, come una malattia grave, l'incendio di
una casa, ecc.) e il restante 20% al coordinamento cantonale (l'istituzione
esecutiva e legislativa del Rojava) per le spese
legate alla guerra, alla sanità, alla protezione interna. [Queste
percentuali subiscono variazioni a seconda delle fonti, Ndr].
L'adesione alle cooperative del Tev Dem (o del Kongrea Star, sua variante totalmente femminile) è volontaria ed
esse sono create sul demanio statale espropriato con la rivoluzione. Chiunque è
libero di aprire una cooperativa che non accantona alcun fondo comune, dice Dilsha, e che al coordinamento cantonale non dà nulla: le
cooperative dei compagni non sono imposte per legge, ma rappresentano
un'iniziativa tra le altre, che punta ad allargare un certo modo di intendere
l'economia; semmai, non possono essere proibite o attaccate, essendo protette
dagli organi esecutivi e dalle Ypg. Anche
l'iniziativa privata è libera, e rappresenta tutt'ora una parte sostanziale
dell'economia del Rojava, in relazione al piccolo
commercio, ma anche allo sfruttamento agricolo e a diverse fabbriche. I
possidenti agricoli o industriali non sono molti in Rojava,
date le politiche di sottosviluppo curdo dello stato
siriano fino al 2011; molti sono emigrati a Damasco dopo la rivoluzione (e ciò
vale anche per molti professionisti e tecnici), ma non pochi, dice Dilsha, sono rimasti per questioni patriottiche o perché
riconoscono la necessità dell'autonomia curda. Un
loro ingresso speculativo nelle cooperative del Tev Dem non sarebbe comunque
tollerato: “Loro non ci cercano, noi non li andiamo a cercare”.
L'economia del Rojava appare un piano su cui si
muovono forze differenti: un debole capitalismo, un reticolato di pratiche di
tipo comunistico, ma rinchiuse nei microcosmi clanici,
la forza germogliante delle cooperative rivoluzionarie che tenta di estendersi
e radicarsi rapidamente. “Il sistema delle cooperative è agli inizi: nonostante
la rivoluzione sia cominciata cinque anni fa, questo aspetto
è organizzato soltanto da due anni; ad oggi le cooperative non possono reggere
da sole tutta l'economia dei cantoni”, spiega. Esiste anche un'opposizione
palese al sistema delle cooperative, portata avanti dai sostenitori del modello
barzaniano (curdo-iracheno)
rappresentato in Rojava dall'Enks,
il partito satellite del Krg: per loro il Kurdistan
dovrebbe diventare uno stato-nazione classico e adottare una classica
economia liberale e capitalista, su protezione turca e modello statunitense. L'Enks, tuttavia, non si limita a propugnare idee, ma
“boicotta il processo economico, anche facendo leva sul potere di influire
sull'embargo talvolta attuato dal Krg” (su richiesta della Turchia).
La stabilità finanziaria delle istituzioni cantonali non può, in queste
condizioni, fondarsi esclusivamente sui contributi delle cooperative: “Molto
denaro arriva dalla vendita del petrolio di Remeilan
e Katatchok (cantone di Cizire)
alla popolazione interna per usi immediati, ad esempio il riscaldamento
invernale”. Esiste quindi anche una componente a
socialismo di stato, che finanzia in particolare le strutture del movimento e
le Ypg. Dei 103 pozzi petroliferi esistenti in Rojava, quasi tutti concentrati in quelle aree (ne esistono anche a Shaddadi, dice
Dilsha, “ma non lavorano per noi”), soltanto tre
“sono attualmente in attività”. Non esiste un'esportazione del petrolio,
aggiunge, “che in futuro garantiremo a tutta la Siria” perché i traffici sono
gestiti dall'Opec e il Rojava
non è un'entità politica internazionalmente riconosciuta. La stabilità
finanziaria dei cantoni è anche messa alla prova dalla svalutazione vertiginosa
della sterlina siriana, particolarmente rapida in Rojava,
dove 2 euro valgono al momento oltre 1.000 sterline. “Non esistono banche in Rojava oggi, ma per affrontare la svalutazione stiamo
pensando anche a questo”. Siamo all'inizio, ed è un lungo processo, ripetono le
compagne e i compagni instancabilmente. Chiediamo a Dilsha
cosa permetterà al Rojava di realizzare un'economia
libera, a differenza dei precedenti tentativi socialisti: “Tutto il processo è
nelle mani della gente. Non è il governo che agisce, ma il Tev
Dem, creando un movimento popolare; perché il governo
dovrà estinguersi, poi – mentre il popolo resterà”.
Corrispondenza per Infoaut e Radio Onda d'Urto a Qamishlo, Rojava
Postato 2nd June 2016 da Davide Grasso