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"Una
buona rivoluzione”: intervista a un compagno europeo
in Rojava
Raggiungere il Rojava è diventato sempre più
difficile, negli ultimi mesi, a causa della chiusura del confine turco, che
dura ormai da anni, e di quello curdo-iracheno
a est, che recentemente il petrol-presidente Massud Barzani, ostile al Pkk e al Pyd, ha stabilito
rispondendo positivamente alle richieste della Turchia. Ciononostante, continua
l'afflusso di compagne e compagni, ed anche persone non ideologizzate,
che da tutto il mondo accorrono per combattere lo
stato islamico, assumere ruoli civili nel processo rivoluzionario, fare
informazione indipendente su ciò che accade o, semplicemente, apprendere da ciò
che sta avvenendo. Sotto quest'ultimo profilo, la
rivoluzione in corso in Rojava rappresenta un
notevole banco di prova per l'idea che è possibile aprire spazi di cambiamento
sociale all'altezza dei nostri tempi, per di più in una regione attraversata da
molteplici interessi capitalisti e visioni reazionarie, e devastata dalla
guerra globale e civile.
L'intervista che segue è stata realizzata con un compagno giunto da un
paese europeo, che proviene da quel vasto arcipelago di realtà politiche,
teorie, collettivi, occupazioni e spazi sociali che
caratterizzano ciò che in Europa, con un grave ma apparentemente ineliminabile
equivoco terminologico, viene chiamato dagli anni Settanta “movimento”. Il
carattere problematico di questa denominazione appare
tanto più chiaro a chi osserva lo sviluppo di un movimento reale non soltanto
in Rojava, ma in Bakur,
ovvero in Turchia (oltre che in molte altre regioni del mondo). Non solo: ciò
che colpisce i compagni internazionali che giungono in Kurdistan è come
l'utopia rivoluzionaria qui sia associata, e raccolga i suoi frutti lungo il
cammino, alla centralità di una soggettività politica organizzata secondo
criteri che la speculazione teorica europea si era impegnata
a debellare nel corso dei decenni, considerandola nociva o incapace a ricontestualizzarsi nel mondo contemporaneo.
Per queste ragioni, oltre ad essere evidente l'importanza di supportare
direttamente la rivoluzione del Rojava e di
apprenderne lo sviluppo, è importante stimolare un dibattito politico che parta da informazioni approfondite e reali, e non si adagi
sulla consueta abitudine di filtrare ciò che è lontano, originale,
imprevedibile e inaspettato, negli schemi del “già pensato”, “già teorizzato”,
“già conosciuto” e “già definito-etichettato” che caratterizzano il
posizionamento atavico di molti compagni europei. La conversazione che segue
lascia emergere come, per molti compagni che giungono qui,
il confronto con una rivoluzione reale sia un elemento di shock, che mette in
discussione e fa vacillare molte certezze, mettendo in discussione la coscienza
politica nel profondo; ciò che, a bene vedere, è uno dei frutti più preziosi
della trasformazione come tale.
Perchè hai deciso di venire in Rojava?
Per la rivoluzione. Ciò che pensavo era che la rivoluzione non fosse
possibile, c'era l'esempio degli zapatisti in Chiapas, ma è una rivoluzione
caratterizzata da degli elementi molto specifici, ad esempio il fatto che si
tratta di una popolazione indigena. Qui sta accadendo una rivoluzione che è al
centro del mondo, che cerca di creare un sistema adatto a tutti per un mondo
diverso. Questo è ciò cui sono interessato, imparare
tutto ciò che posso.
In quale forma si esprime il tuo interesse?
C'è chi è interessato più alla filosofia e alla teoria di questa
rivoluzione, io mi interesso più alla società civile e
ai passaggi con cui la società si trasforma. È un buon sistema, che parte dalle comuni, ma non è abbastanza, non c'è garanzia che la
rivoluzione arrivi ovunque, perché anche qui c'è molta gente che non usa queste
strutture.
Che non usa le comuni?
Esatto.
Da quale genere di esperienza provieni?
Nella mia città, in Europa, porto avanti un progetto con circa duecento
persone in un quartiere abbastanza centrale della città. La nostra idea è di
rendere autonomo questo quartiere passo passo,
creando servizi logistici, abbiamo una cooperativa di
costruzioni, facciamo formazione professionale con gli operai, raccogliamo
soldi per chi ha troppa difficoltà. Abbiamo anche un collettivo con un gruppo
di famiglie che, insieme, cercano di occuparsi con noi dell'educazione dei bambini. Uno dei problemi maggiori dell'Europa è che i
quartieri sono dormitori.
Abbiamo anche una cooperativa per produrre cibo ecologico; naturalmente il
problema su questo punto è che una produzione simile costa e il prezzo sale, ma
in prospettiva vogliamo cercare di rendere i prezzi maggiormente popolari,
anche se il nostro principale obiettivo è la socialità nel quartiere. Abbiamo
anche una biblioteca popolare su politica e cooperativismo. Abbiamo un unico
obiettivo: rendere il quartiere autonomo, unendo la gente.
Vedi delle affinità tra ciò che state facendo
nella tua città e ciò che accade qui?
Le comuni. È la stessa
idea. Qui però sono più avanti, anche se talvolta… Qui la cosa buona è che
hanno il “potere” e possono sviluppare il sistema in tutta la società, ma noi
abbiamo più capacità di inventare, non so… Le comuni
qui hanno un funzionamento basato sulla creazione di commissioni interne che si
occupano di aspetti specifici. La struttura è rigida: tu fai questo, tu fai quello, è tutto organizzato. Il nostro progetto è molto
simile, ma non abbiamo questa struttura, quindi possiamo pensare se e come
creare cooperative, non dobbiamo parlare con ministri come accade qui, ecc. [Riferimento
alle connessioni del sistema delle cooperative del Rojava con il sistema dell'autonomia del Rojava, di cui fa parte anche il consiglio esecutivo e le
sue ramificazioni analoghe a ministeri, Ndr].
Entrambe le situazioni, se confronto la nostra e la loro, hanno lati positivi e negativi. Il costo del nostro approccio è che in
fin dei conti siamo una piccola fortezza in un
quartiere, mentre loro possono pensare e agire più globalmente. Parliamo molto
con i quadri di tutto questo [Ndr: I “quadri”
sono, nella rivoluzione del Rojava, i militanti del
partito, che agiscono secondo la linea dell'organizzazione in seguito a un intenso processo di educazione ed esperienza politica,
anche quando molto giovani, e fanno proprio un forte concetto di disciplina
rivoluzionaria]. I quadri ci spiegano la loro utopia ed è chiaro che quel
che c'è ora in Rojava è ancora lontano da questa utopia, ma loro pensano che il modo più utile per
raggiungerla sia passare attraverso questo processo.
Tu cosa ne pensi?
Sono d'accordo. Siamo oppressi in tutto il mondo, in Europa come qui. Sono
anarchico e all'inizio questa mega-struttura non mi piaceva,
mi ricordava le idee marxiste, ma poi ho capito, apprendendo. Ci sono due modi:
pensare di distruggere tutto e subito, e ci sono ben poche possibilità di
riuscire, oppure c'è il modo graduale, passo dopo passo,
che è quello che ha avuto successo qui. La maggior parte della gente, nel
mondo, se ne frega di cambiare le cose. Qui ho cominciato a riflettere su
questo, e adesso penso che portare avanti la rivoluzione con tutta la società
sia meglio.
È chiaro che i quadri o i membri del Tev Dem [Movimento per la società democratica che porta
avanti la trasformazione del Rojava, frutto
dell'unione di diverse organizzazioni sociali e partiti, Ndr], o i ministri o quelli del partito hanno molta
consapevolezza di tante cose, ma la gente comune no, quindi bisogna convincere ed educare, ci vuole tempo.
Qual è l'atteggiamento degli altri “internazionali” che conosci e che sono
in Rojava in questo momento?
Nessuno ha particolarmente da ridire su questa rivoluzione, ma il problema
è che in Europa ci dicono che è un rivoluzione
anarchica, mentre non è vero, perché in realtà è un misto di marxismo e
anarchismo. C'è l'idea marxista del passo dopo passo e l'idea di costruire una
struttura, e a partire da questa struttura cambiare la
società. Ciononostante la modalità con cui ciò viene
fatto e soprattutto l'idea finale non è marxista ma anarchica. Inoltre il cuore
del sistema attuale su cui i compagni qui insistono continuamente, cioè che il potere va dal basso verso l'alto e non viceversa
è diverso da quel che diceva Marx, che parlava di “dittatura del proletariato”.
Tuttavia per gli anarchici che sono venuti qui è stato
un po' un “wow”, uno shock direi.
Sono delusi?
Sì, perché in Europa non c'è una buona informazione
su ciò che accade qui. Veniamo a sapere cose in modo semplificato e sembra una
rivoluzione anarchica, ma se vieni qui vedi che le
cose sono diverse. Ci sono anche internazionali che non accettano questa cosa.
Secondo te questo è l'unico modo per procedere con una rivoluzione, o ci sarebbero altri modi?
In teoria non è l'unico modo, ma nella pratica sì. Non so se quello che abbiamo in mente in Europa è possibile, perché non lo
abbiamo ancora sperimentato, ma quel che fanno qui funziona. Se vogliamo fare
una rivoluzione questo è un buon modo. Tuttavia “rivoluzione” significa partecipare, quindi anche
avere un punto di vista critico, è la cosa bella della rivoluzione. I quadri
agiscono nella rivoluzione affinché non esistano gerarchie, è
il loro compito, poi fino a che punto questa rivoluzione potrà spingersi è
nelle mani della società.
Prendiamo un esempio: il dipartimento giustizia è un elemento positivo qui perché, sebbene il loro compito sia giudicare
la gente, hanno detto che vogliono la distruzione del sistema penale, ossia una
società che sia in grado di risolvere i problemi a livello locale, di
quartiere, ecc. In Europa, al contrario, i problemi vengono creati di proposito
per giustificare e conservare il sistema penale o accrescerlo: la “malvagità”
umana è necessaria al capitalismo. Cambiare questa cultura è l'inizio, poi
occorre portare avanti un capovolgimento di questa concezione che può essere
lento o rapido, ma l'importante è che ci sia questa idea fondamentale al fondo.
Se dovessi mandare
un messaggio ai compagni europei dal Rojava, cosa
diresti?
La gente non sa nulla della rivoluzione politica in Rojava
e Bakur. Non è la prima volta nella storia, già altre
rivoluzioni morirono perché non ottennero supporto.
Bisogna interessarsi a ciò che accade qui, in primo luogo, e supportare, non so
come, ma rendiamoci conto che è un momento importante per il mondo che
attraversa guerra e crisi, questa del Rojava è una grande occasione. Dobbiamo adattare questa rivoluzione ai
nostri paesi.
Non importa se sei comunista, anarchico o socialista, la verità è che in
Europa giochiamo alla rivoluzione e queste piccole
guerre tra anarchici e comunisti, queste rivoluzioni da bar sono inutili e non
creano nulla. Se restiamo troppo chiusi nelle nostre idee
non costruiamo nulla. Questa rivoluzione non è comunista e non è anarchica, ma
è una buona rivoluzione. Criticare ciò che accade qui perché Bakunin o Lenin hanno scritto
qualcosa di diverso, come quelli che criticano l'allenatore davanti alla
partita di calcio con una birra in mano, è controrivoluzionario.
Intervista realizzata per Radio Onda d'Urto e Infoaut
in Rojava, Siria
Postato 23rd June 2016 da Davide Grasso